2
Per questo motivo ho indagato, attraverso una ricognizione sui manoscritti,
anche gli altri due casi di collaborazione fra d’Annunzio e Pizzetti nell’ambito delle musiche
di scena: La Nave (1908), schematizzandone la struttura musicale così come risulta dalla
partitura originale (e non dalla versione a stampa, assai più ridotta) e Phædre (1923),
misconosciuto adattamento dell’opera Fedra realizzato ancora per Ida Rubinstein. Le due
partiture costituiscono, inoltre, la prima (al di là della lirica per canto e pianoforte I pastori)
e l’ultima collaborazione fra i due artisti, e la Pisanelle si pone come vertice ideale, l’esito
artisticamente più compiuto e drammaturgicamente più audace. Perché – è questa
l’ipotesi che cercherò di dimostrare – la commedia dannunziana non è comprensibile se
non nell’ottica di uno spettacolo composito, in cui la musica e la recitazione, la danza e la
scenografia sono elementi parimenti necessari alla definizione dell’insieme: il tentativo può
essere semmai accusato di eccessivo sperimentalismo, ma non certo – secondo gli ormai
vieti stereotipi antidannunziani – di stanca ripetizione di un decadentismo letterario, o di un
gusto dell’erudizione fine a se stesso.
Lo studio è stato svolto principalmente con l’ausilio di fonti dirette, per la
maggior parte inedite: mi riferisco alle partiture manoscritte della Pisanelle, della Nave e
della Phædre, conservate la prima nella biblioteca del Conservatorio “Arrigo Boito” di
Parma, le altre nel Fondo Pizzetti della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Ma
miniera inesauribile di lettere, documenti inediti e libri rari è stata la biblioteca della
Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” di Gardone Riviera, il cui personale ha fatto di tutto,
con estrema cortesia e profonda competenza, per facilitarmi il lavoro. In particolare mi
corre l’obbligo di ringraziare il prof. Giorgio Zanetti, responsabile culturale del Vittoriale, la
cui sapienza è pari solo alla squisita gentilezza e assidua premura.
3
Parigi, 11 giugno 1913:
LA PISANELLE ALLO CHATELET
Per la prima rappresentazione della Pisanella vi era ieri sera una grande attesa nel pubblico.
Come per le grandi serate, i curiosi stazionavano da molto tempo prima dell’apertura davanti alle porte a
ciascun lato dell’ampia facciata dello Châtelet, la folla compatta osservava gli uomini nei loro fracks
impeccabili e le signore nelle più eleganti toilettes che si riversavano sul marciapiede delle automobili.
L’atrio si riempì subito di pubblico. Si entrava e si entrava sempre, senza tregua. Quando squillò
il campanello che annunziò il principio dello spettacolo, la sala era quasi piena. Vi si trovava il tout Paris
mondano e artistico. La vasta sala, tutta sfolgorante di luce, era adorna dall’orchestra al loggione, di eleganti
toilettes sulle quali brillavano i gioielli.
1
Così descrive il critico della «Tribuna» l’atmosfera che circondava
quell’attesissima “prima” della nuova pièce di Gabriele d’Annunzio
2
, l’ “esule di Arcachon”,
l’autore di quel Martyre de Saint Sébastien che solo due anni prima aveva suscitato tanto
scalpore, fino alla scomunica, da parte dell’arcivescovo di Parigi, a quei cattolici che
avessero assistito allo spettacolo. E soprattutto era di nuovo protagonista quella Ida
Rubinstein che, nelle vesti del santo androgino, aveva costituito il principale motivo di
scandalo, ma che era anche un personaggio centrale nella vita culturale della capitale
francese da quattro anni, da quando, cioè, la sua Cléopâtre presentata con i Ballets
Russes di Diaghilev aveva sconvolto il mondo teatrale. Come afferma Jean Depaulis,
autore di una fondamentale monografia
3
dedicata all’attrice e ballerina (anzi, ballerina e
attrice, come poi si vedrà) russa:
cette Cléopâtre inoubliable apporte au public parisien une révélation: Ida Rubinstein ! Créature
de rêve, au long corps souple et au visage hermétique, elle parait sortie d’une fresque égyptienne, revue par
Gustave Moreau.
4
1
Cit. da C. G. SARTI, La «Pisanella» di d’Annunzio giudicata dal gran pubblico parigino, in «La Tribuna», 14 giugno
1913.
2
La grafia corretta del cognome del poeta è d’Annunzio e non, come si legge ancora troppe volte, D’Annunzio; lo
testimoniano tutti gli autografi, che mai riportano la “d” maiuscola. Ho pertanto deciso di cambiare la grafia
ogniqualvolta si presentasse errata, nella citazione di libri e articoli, senza doverlo segnalare.
3
JEAN DEPAULIS, Ida Rubinstein. Une inconnue jadis célèbre, Paris, Honoré Champion Editeur, 1995.
4
Ivi, p. 40.
4
D’Annunzio è affascinato da quell’artista, donna non bella in senso classico ma
dal fascino sottile e penetrante : in lei è sicuro di trovare un’«attrice-attrezzo»
5
con cui
concretare le proprie innovative idee teatrali, uno strumento compiuto alla realizzazione
del nuovo ideale drammaturgico di un novello Gesamtkunstwerk, ma lontano dall’idea
wagneriana. In questo, fondamentale sostegno ha la musica che Ildebrando Pizzetti
compone per la commedia, musica che non è un semplice “accompagnamento”, ma è
parte integrante e indispensabile dell’estetica dello spettacolo.
Ma lo spettacolo attrae davvero il tout Paris, l’élite culturale, politica e mondana
della capitale francese, e tutti i giornali, italiani e francesi, fanno a gara nel riferire chi c’è e
chi è assente, a sottolineare l’impaziente attesa, la curiosità, ora scettica, ora fiduciosa,
che avvolge questa première: si veda, ad esempio, Ludovico Schisa sul «Giornale d’Italia»
del 13 giugno, che descrive l’atmosfera che si respirava alla prova generale, poiché «a
Parigi è il pubblico delle prove generali che crea il successo nel tempo stesso che assicura
il reclutamento di quel pubblico pagante che lo conferma»:
6
questa sera allo Châtelet, la vasta sala del teatro Municipale, c’eran tutti quanti…Tutti quanti
…Chi dunque? Dei ministri, degli uomini politici: il Palazzo del Luxembourg ed il Palazzo Berline.
L’Accademia, si potrebbe dire anche “le Accademie” o meglio, con una sola parola l’Istituto. E poi la
Sorbona: professori gravi che le sale dei teatri non vedono sovente, ma che pel Poeta straniero han saputo
vincere la tranquilla ostinatezza delle loro abitudini casalinghe. Ed ancora: la letteratura, il giornalismo e
quanto alla critica, parigina, francese ed estera, era al completo. […] Riferire i nomi dei presenti è compito
tutt’altro che agevole…Vedemmo, della folta schiera parigina d’autori drammatici Edmond Rostand, Emile
Fabre, Eugène Brieux, Tristan Bernard, Henri Lavedeau, Paolo Bourget, Alfred Picard, Henri Bataille, Henri
Bernstein, George Feydeau, Dario Niccodemi, Maxime Lerroux, Alfred Poirat e dei letterati Marcel Prevost,
Paul Adam, Maurice Metternich
7
, Jules Claretie, Maurice Barrès, René Bazin, Georgette Le Blanc.
Nei palchi si notano, presso che al completo, le Ambasciate d’Italia – vediamo il senatore Tittoni
e la donna Bice – di Russia – vediamo, in prima linea, il signor Isvolsky e la signora – di Spagna,
d’Inghilterra.
Qua e là per la sala, ecco il maestro Puccini, Ugo Ojetti, il conte Primoli, il marchese di Rudinì, il
duca di Calastra, il principe Ruspali, il marchese Origo, Diego Angeli, la duchessa Castani, Mario Costa,
l’editore Treves, il signor Alberini, direttore del “Corriere della Sera” e la signora: una vera élite del mondo
aristocratico ed intellettuale italiano, che ha voluto assistere a questa novella prova del poeta in terra di
Francia.
5
La definizione è di ANNAMARIA ANDREOLI, Il Vivere Inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori,
2000, p. 463.
6
Cit. da LUDOVICO SCHISA, Il successo di «Pisanella» di G. d’Annunzio a Parigi, ne «Il Giornale d’Italia», 13 giugno
1913, corsivo dell’autore.
7
E’ molto probabile che qui ci riferisca a Maurice Maeterlinck, l’autore belga del Pelléas et Mélisande.
5
Vediamo, ancora, la duchessa di Rohan, la principessa Murat, il signor de Hausenville, il signor
de Montesquieu, il maestro Messager, Pedro Gailhard, Arthur Meer, la signora Daniele Lesneur, la signora
Madeleine Lemaire, la signora Bady, Leitner, l’impresario Astruc, direttore del nuovo teatro dei “Champs-
Elysées”, una schiera delle bellezze più applaudite di Parigi: la Réjane, la Sorel, la Bartèt, la Réglier, la
Pierat, la Yvonne de Bray.
8
Davvero nessuno, o quasi, del gran mondo parigino mancava all’appello; e,
d’altronde, il concorso di personalità in questo spettacolo era senza dubbio eccezionale:
già da giorni il «Giornale d’Italia» l’aveva sottolineato:
Pensate che la direzione è affidata al Meyerkold
9
, uno dei più grandi rinnovatori della messa in
scena; che nei décors di Léon Bakst, un signore delle meraviglie, un prodigioso evocatore, si muoverà Ida
Rubinstein, che pare risorta per nostra gioia dalle rovine del teatro greco, in cui la danza ed il verso erano
così intimamente congiunti […]. Le saranno vicini attori di una allure magnifica, i più varii di stile: dal De Max,
che ha rapito il segreto del gesto alle statue di Atene ed ha modulato la voce come per il canto, ad André
Bruli, l’attore giovane elegante e raffinato dei teatri del boulevard; oltre ad una massa di duecento fra corifei,
danzatrici, comparse animate dalla musica del Pizzetti, che sarà cos’ consacrato a Parigi con un successo
pari al suo valore. […] Uno spettacolo così grandioso, una rievocazione d’arte così appassionata sarà
l’avvenimento più importante della grande saison di Parigi che va dal maggio fino al gran premio di
Longchamp.
10
Dunque: il grande poeta italiano, dalla vita turbolenta e scandalosa, ma dal
genio indiscusso; la fascinosa ballerina e attrice russa; il grande rinnovatore, egualmente
russo, dell’allestimento teatrale con l’invenzione della regia “biomeccanica”; il fantasioso
decoratore di scene e costumi; il musicista più rispettato e stimato dal poeta pescarese,
compositore «che si rifà direttamente a Claudio Monteverde [sic]»
11
; una nutrita schiera di
valenti attori. Non c’è davvero da stupirsi del fatto che lo spettacolo rivestisse
un’importanza – sia culturale che mondana – davvero inusitata, tanto più ricordando lo
8
L. SCHISA, Il successo…, cit.
9
Così l’articolista. Io, qui e sempre, adotterò la traslitterazione scientifica: Mejerchol’d.
10
ACHILLE RICCIARDI, La «Pisanella» di Gabriele d’Annunzio a Parigi. Alla vigilia della prima rappresentazione, in
«Il Giornale d’Italia», 5 giugno 1913.
11
Lettera di Gabriele d’Annunzio a Arnold dolmetsch, datata «Arcachon, il 28 marzo 1912+1». Cit. da RENATO
MEUCCI, D’Annunzio e la musica antica. Parte IV:La Pisanelle, in «Hortus Musicus» n° 9, gennaio-marzo 2002, p. 82.
6
scandalo enorme suscitato solo due anni prima (il 22 maggio 1911), con il Martyre de
Saint Sébastien, da d’Annunzio e dalla Rubinstein.
12
Ma questa volta, per la Pisanelle, d’Annunzio non si assume più la
responsabilità diretta della messinscena, della regia, ma, appunto, la affida al grande
artista russo Vsevolod Mejerchol’d, la cui estetica teatrale sembrerebbe – e in effetti è –
assai distante da quella del pescarese; inoltre alla prestigiosa collaborazione di Debussy si
sostituisce quella, forse meno impressiva ma sicuramente più funzionale all’unità dello
spettacolo, di Ildebrando Pizzetti, o “Ildebrando da Parma” come lo ribattezza d’Annunzio.
A dirigere l’orchestra – male, secondo il compositore
13
- fu quell’Inghelbrecht noto anche
per aver ridotto a oratorio il Martyre.
E quale fu l’esito dello spettacolo? Secondo i maggiori quotidiani italiani, che
spesso riportano il giudizio di quelli francesi, la prova generale, ossia la serata che
condiziona l’esito delle altre, fu lungamente e calorosamente applaudita; valga per tutti, e
almeno per ora, il commento del giornalista del «Corriere della Sera» del 13 giugno:
Parigi, 12 giugno, matt.
L’ora tarda in cui è finita la prova generale della Pisanella ha impedito alla maggior parte dei
giornali di occuparsene immediatamente. Parecchi, però, non hanno voluto attendere per constatarne in
poche righe il successo.
In realtà il successo di pubblico fu caldo, sì, ma più per cortesia e ammirazione
verso gli artefici dello spettacolo che per l’apprezzamento della rappresentazione in
questione, mentre la critica , nei giorni seguenti, si produrrà in molti distinguo sul valore
dell’opera poetica, della musica, della recitazione, e così via.
Certo è che, a dispetto di qualche vago progetto di ripresa della Pisanella a
Londra e in Italia, dopo le poche recite parigine, l’opera dannunziana non fu mai più
ripresa in alcuna forma, mentre la musica pizzettiana conobbe una riproposizione in forma
ridotta come Suite da concerto (nel 1919) e poi, negli anni Cinquanta, come balletto, ma
cadde anch’essa nell’oblio nella sua originaria natura di musica di scena, tanto che non
12
Tale fu lo scandalo derivato dalla rappresentazione del santo criblé de flechès da parte della figura androgina di Ida
Rubinstein, che l’arcivescovo di Parigi minacciò di scomunica tutti quei cattolici che si fossero recati ad assistere allo
spettacolo.
13
Vedi una lettera di Pizzetti a d’Annunzio del 3 luglio 1913, conservata nell’Archivio generale del Vittoriale (d’ora in
poi AGV), cartella LVIII 5: «io son sicuro che la mia musica diretta da me risulterebbe meglio di quel che risultò diretta
dall’Inghelbrecht, il quale è un ottimo direttore tecnico, ma ha pochissima anima e non sa guardare molto oltre la
superficie di una partitura».
7
venne mai pubblicata a stampa, se non in una riduzione per pianoforte (leggermente
incompleta) ad opera di Mario Castelnuovo-Tedesco, ma si conserva in forma manoscritta
nella biblioteca del conservatorio “Arrigo Boito” di Parma, città natale del compositore.
14
Ma, a mio avviso, la Pisanella non merita quel silenzio che l’avvolge, sia a livello
critico, che a livello teatrale, trattandosi, infatti di un esperimento di estremo interesse,
condotto nell’ottica di un rinnovamento teatrale vissuto, da una parte, come reazione
all’imperante tradizione del melodramma italiano (o, meglio, all’italiana), dall’altra come
concorso unico – e forse irripetibile – di personalità tanto eterogenee – per gusto,
formazione, prospettive – quanto unite nella spinta verso un ideale di superamento dei
limiti pratici e convenzionali del teatro, in direzione di una fusione delle arti, sul modello
sempre presente dell’antica tragedia greca: naturalmente rivissuta con la sensibilità di chi
vive nella Parigi degli anni Dieci, con i residui della décadence che spingono – anche nel
melodramma, basti pensare alla Thaïs del 1892 – alla fusione di sensualità e religione, di
paganesimo e cristianesimo, di dissolutezza e misticismo; con il potente vento di
rinnovamento che soffia dalla Russia, patria delle più moderne e audaci avanguardie
teatrali, che a Parigi sono notissime attraverso i famosi spettacoli dei Ballets russes; con
l’apporto di un giovane musicista del tutto estraneo alla tradizione italiana e, semmai, più
vicino al gusto di Debussy e Ravel.
Tanti spunti proposti da quello spettacolo storico diventeranno elementi centrali
della riflessione teatrale successiva; altri rimarranno lettera morta. Ma è certo che tutti
meritano un’indagine scrupolosa, e una ricostruzione fedele: a cominciare da un’analisi
della storia di quello “strano” genere che è il teatro con (e non in) musica.
14
ILDEBRANDO PIZZETTI, per “La Pisanella” / di Gabriele d’Annunzio. / Musica di Ildebrando da Parma, F. Pizz. Mss
A 2.
8
«Ein Genre von unerquicklichster Gemischtheit»:
IL TEATRO “CON” MUSICA E LE ESPERIENZE
DANNUNZIANE
Si è detto essere la Pisanelle uno degli esperimenti più interessanti all’interno di
quel filone già di per sé di difficile catalogazione che è il teatro con musica
primonovecentesco e, conseguentemente, appartenere il lavoro pizzettiano all’ambito
della musica di scena. Ma cosa si intende effettivamente con questi termini?
Innanzitutto si può affermare che il teatro con musica comprende un’assai
eterogenea quantità di spettacoli in cui la presenza della musica è elemento
caratterizzante e insostituibile, ma in forme diverse da quelle del melodramma o dell’opera
in musica: con questo non si vuol dire che il canto sia sempre escluso, ma, come nel caso
proprio della Pisanelle, esso non è più il normale livello comunicativo a cui tutti i
personaggi si esprimono, ma riprende la funzione – più “logica” secondo un punto di vista
antioperistico
1
– di “canzone sulla scena”. A partire dalla fine del Settecento, uno degli
elementi caratterizzanti di questa diversa forma teatrale è il melologo, termine con cui si
intende «la lettura o la declamazione di un testo in poesia o in prosa alternato o
sovrapposto a brani per orchestra o per singolo strumento, quasi sempre il pianoforte, che
servono da commento musicale»
2
; il termine italiano è un calco dell’omologa parola
spagnola, creata nel 1949 in sostituzione di quelli, storicamente più appropriati ma spesso
fonte di equivoci, di melodrama (inglese), mélodrame (o mélo, francese). Il melologo può
essere altresì accostato all’antica pratica, nella tragedia greca, della παρακαταλογή,
traducibile come “recitazione accompagnata dalla musica” secondo un ritmo assai libero,
senza una cadenza uniforme.
3
Importante mi sembra sottolineare che la παρακαταλογή si
basa su di un procedimento intimamente connesso con le peculiarità musicali più intime
della lingua greca, in cui
1
Va però sottolineato che non tutto quello che si canta, nel teatro con musica, è “canzone sulla scena”: si pensi, per
esempio, agli interventi degli dei nelle semi-opere inglesi, francesi o spagnole.
2
Cit. da CESARE SCARTON, Il melologo. Una ricerca storica fra recitazione e musica, Città di Castello, Edimond, 1998,
p. 5.
3
Sull’argomento vedi C. SCARTON, Il melologo, cit., pp. 6-8.
9
la varietà di intonazione della voce su diverse altezze, l’alternarsi di sillabe brevi e lunghe,
l’armonioso e cadenzato ritmo del discorso avvicinavano la lingua parlata a un canto espressivo destinato in
seguito a perdersi completamente per il livellamento tonale delle lingue moderne.
4
Insomma, nel greco antico, lo iato fra parlare e cantare non era così grande
come nelle lingue moderne, non era un altro universo espressivo: e si può dire che, in
linea generale, il sogno di tutti quei poeti, quei musicisti che si sono avvicinati al melologo
è stato ricreare questa perduta unità, questa naturalezza nel dare suono, espressione alla
parola senza dover ricorrere al canto, comunemente avvertito come fittizio e antistorico.
E’, infatti, anche l’opinione di Jean-Jacques Rousseau, creatore, con la collaborazione del
compositore dilettante Horace Coignet, del melologo (nel 1770 con la scène lyrique
Pygmalion), secondo il quale
la lingua greca, così armoniosa e musicale, possedeva un intrinseco accento melodioso; bastava
solo aggiungere il ritmo per ottenere la declamazione musicale […]. I poeti all’inizio dei loro poemi dicevano
a ragione io canto; formula che i nostri hanno ridicolmente conservato. Le nostre lingue moderne, opera di
popoli barbari, non sono invece naturalmente musicali, neanche l’italiana; quando si voglia ad esse applicare
la musica, occorre prendere grandi precauzioni per rendere questa unione sopportabile.
5
Naturalmente le «grandi precauzioni» consistono proprio nel ripudio della canora
trivialità dell’opera in musica, almeno del tipo a lui contemporanea, e nell’esperimento «dai
sottintesi così chiaramente polemici se non apocalittici (il Pygmalion è in fondo
un’antiopera)»
6
; ma va ricordato che resuscitare quel segreto legame fra parola e musica
era stato proprio il motivo della nascita, agli albori del Seicento, del melodramma, cioè
quello stesso genere che Rousseau vede agli antipodi del suo ideale. E in tutta la storia
della musica, operistica o paraoperistica, il legame fra verso e suono è stato il problema
teorico di fondo, affrontato (e risolto?) nelle maniere più disparate, fino a diventare esso
stesso soggetto teatrale, da Prima la musica poi le parole di Salieri (1786) fino a Capriccio
di Richard Strauss (1942). La posizione del filosofo ginevrino nasce, senza dubbio, come
reazione ad un canto operistico ormai degenerato – sotto il suo punto di vista – a palestra
di virtuosismo vocale, sterile, fine a sé e quindi inespressivo o volgare.
4
Ivi, p. 8.
5
JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Fragments d’observations sur l’Alceste italien de M. le Chevalier Gluck, in Œuvres
complètes, VI, Paris, Librairie Hachette, 1874, p. 224.
6
EMILIO SALA, L’opera senza canto, Venezia, Marsilio, 1995, p. 55.
10
Una svolta decisiva nell’evoluzione del melologo la portò Jiři AntonÍn Benda,
musicista di origine ceca e formazione tedesca, il quale nei suoi due capolavori del 1775,
Ariadne auf Naxos e Medea und Jason iniziò a sovrapporre la recitazione alla musica,
andando oltre alla semplice giustapposizione praticata da Rousseau: in questo modo
incominciano ad essere più stretti, quasi cogenti, i legami fra i valori musicali della parola
in sé e la musica, tanto più se la declamazione è segnata in partitura con precisione, cioè
– almeno in questo periodo storico – nei suoi valori ritmici.
I lavori di Benda ebbero grande successo nella cultura tedesca, quanto – e più –
l’esempio di Rousseau nel mondo francese (mentre l’Italia rimane fuori, per la presenza
totalizzante del melodramma), e costituirono un esempio luminoso per Mozart, che li vide
nel 1778 a Mannheim, per poi entrare in trattativa per comporne uno egli stesso
(Semiramis). Se il progetto non andò poi a buon fine, altri due lavori del salisburghese
contengono numeri di melologo, ossia Zaide e Thamos, König in Ägypten.
Non è difficile dunque capire come, con questi presupposti, la tecnica del
melologo si inserì naturalmente, in epoca romantica, nei generi teatrali “misti” tedeschi
(Singspiel) e francesi (opéra-comique), proprio come elemento di transizione fra il canto e
la musica
7
, come già aveva teorizzato Mozart, il quale affermava che il melologo «dovesse
prendere il posto del recitativo e che, soltanto nei momenti di accesa tensione emotiva, il
parlato dovesse sciogliersi in canto»
8
: esempio famoso di questo procedimento è nel
Fidelio di Beethoven, nella cui terza versione (1814) vi è un melologo di eccezionale forza
e tensione drammatica.
9
Ed è proprio con Beethoven che inizia una tradizione continua e
coerente di musiche di scena, cioè di quel genere di composizione che comprende anche
la Pisanelle di Pizzetti: si ricordino almeno – sempre di Beethoven – l’Egmont (1809-
1810), König Stephan oder Ungarns erster Wohlthäter (1811) e Die Ruinen von Athen
(1811-1812). Ma – come afferma Giovanni Carli Ballola – «si può dire che in questi anni
eroici della cultura tedesca non ci sia stato compositore che non abbia lasciato musiche di
scena a commento di drammi di autori illustri od oscuri»
10
; senza perdersi in eccessivi
dettagli, vanno però ricordate, verso una tendenza «più espressiva e narrativa»
11
, almeno
il Sommernachtstraum di Mendelssohn (1843) e il Manfred di Schumann (1852) –
7
Sull’argomento cfr. C. SCARTON, Il melologo, cit., pp. 91 sgg.
8
Ivi, p. 92.
9
Atto secondo, scena seconda, numero 12.
10
Cit. da GIOVANNI CARLI BALLOLA, Beethoven, Milano, Rusconi, 1985, p. 374.
11
Cit. da EMILIO SALA, Le musiche di scena e la drammaturgia musicale: problemi e prospettive, in «Drammaturgia»,
n. 10, 2003.
11
entrambi esempi latori di un «sottinteso antioperistico»
12
– e, da un altro lato, la celebre
scena della “gola del lupo” nel Freischütz di Weber (1817).
Nelle musiche di scena, è dunque tipica la presenza di numeri puramente
strumentali (ouvertures, intermezzi, et cetera), numeri cantati (canzoni, cori) e veri e propri
melologhi: ma a questo punto si pone un problema di ordine estetico – direi quasi
ontologico – relativo a questo “genere misto”, un problema che, almeno da Wagner in poi,
assume importanza decisiva. Non è, infatti, scontato che queste forme ibride di teatro con
musica debbano interessare la drammaturgia musicale: sicuramente no, se assumiamo
come punto di vista l’ottica parawagneriana secondo cui l’ideale estetico di unità delle arti
(il famoso Gesamtkunstwerk) non significa affatto sovrapposizione di due linguaggi così
differenti come la musica e la parola, perché in tal modo si avrebbe (e si ha) come risultato
«ein Genre von unerquicklichster Gemischtheit»
13
. Chiaramente, nella sua ottica la vera
fusione di parola e musica si attua solo in un canto che è un declamato continuo
14
, sopra
un’orchestra cui spetta il compito di scandagliare la psicologia dei personaggi e il
significato delle situazioni: elemento, quest’ultimo, non differente dalla funzione della
musica nel melologo, almeno come lo si è presentato finora. Dunque, se solo la musica è
veicolo del dramma, come afferma Joseph Kerman
15
, tutti i generi paraoperistici, di teatro
con musica, si collocano su un piano inferiore, lontano dalla nobiltà espressiva dell’opera
vera e propria; e neppure «tutte le opere sono “opere”»
16
, perché laddove assistiamo –
come, ad esempio, nell’opera veneziana – a un deprezzamento del recitativo in favore
dell’aria, e ad una pressoché totale scomparsa del coro (altro elemento importante in
senso di un legame con la tradizione “nobile” della tragedia classica), ebbene in questi
casi noi assisteremmo ad «opere senza dramma»
17
, diverse ma di pari – basso – valore
rispetto al variegato genere della musica di scena.
Ma a livello teorico, come suggerisce ancora Emilio Sala,
12
Ibidem.
13
Questa è l’espressione (letteralmente «un genere dalla spiacevole mescolanza») che Wagner usa nel suo Oper und
Drama.
14
Cfr. questa frase di Hans Sachs nei Meistersinger von Nürnberg: «Mich dünkt, sollt passen Ton und Wort». Ma, più
in genere, tutta la seconda scena del terzo atto dell’opera va letta come una spiegazione dei principi musicologici ed
estetici di Wagner.
15
«Il drammaturgo è il compositore»: cit. da JOSEPH KERMAN, Prefazione alla nuova edizione di Opera come dramma,
trad. it. di S. Melani, Torino, Einaudi, 1990 [1956
1
, 1988
2
], pp. xv-xvi.
16
E. SALA, Le musiche di scena…, cit.
17
Ibidem.
12
è evidente che l’uso di guardare (o di sbirciare) la «scène bâtarde»
18
con gli occhiali dell’opera (o
del teatro tutto recitato) – anche se abbastanza inevitabile – risulta in questo contesto perlomeno
discutibile.
19
Occorre quindi assumere una prospettiva critica diversa, che analizzi i generi di
teatro con musica non come inferiori ma come alternativi al teatro in musica, con cui, anzi,
intercorre, nel corso della storia, un generalmente ricco e fecondo rapporto di scambio e
reciproca suggestione; ma non mancano anche i casi di relazioni conflittuali, almeno a
livello musicologico; come ricorda Carl Dahlhaus, a proposito degli anni ’20 del Novecento,
invalse il costume di usare il termine “teatro musicale” non come concetto sovraordinato sibbene
come concetto antitetico a “opera”
20
.
ossia di considerare l’opera non come facente parte della più ampia categoria di
“teatro musicale” ma come un modello negativo. Lo stesso studioso aggiunge
21
una
formulazione, di icastica brevità, di quella che è la sua teoria (di derivazione – volente o
nolente – parawagneriana): «in un’opera, in un melodramma è la musica il fattore primario
che costituisce l’opera d’arte (opus) e la costituisce in quanto dramma». Dunque,
condanna di tutte le forme di teatro “ibrido” e di ogni opera che traligni troppo dalla virtuosa
corrente principale Monteverdi – Gluck – Wagner.
D’altra parte, una svalutazione ha caratterizzato anche il mondo culturale italiano,
dove, in più, la presenza totalizzatrice del melodramma ha di fatto eliminato anche dalla
pratica teatrale ogni genere che non corrispondesse all’opera lirica: vorrei inserire, a
questo punto, e prima di entrare con decisione nel caso di Pizzetti, l’opinione, attorno alla
musica di scena, di Gianandrea Gavazzeni, uno degli uomini che, nel Novecento italiano,
più si sono mostrati aperti a sollecitazioni le più varie, col recupero – spesso accolto con
scetticismo e malcelata derisione
22
– di melodrammi dimenticati, acuto musicologo,
studioso e direttore di grande cultura, nonché allievo di composizione di Pizzetti stesso.
18
E’ il titolo – assai significativo - di un convegno svoltosi a Clermont-Ferrand: Scène bâtarde des Lumières au
Romantisme.
19
E. SALA, Le musiche di scena…, cit.
20
CARL DAHLHAUS, Drammaturgia dell’opera italiana, in Storia dell’opera italiana, a cura di LORENZO BIANCONI e
GIORGIO PESTELLI, vol. 6 (Teorie e tecniche. Immagini e fantasmi), Torino, EDT, 1988, p. 90.
21
Seppure con differenze sottolineate da Emilio Sala, nel citato articolo, fra due versioni del saggio.
22
Per cui si guadagnò il malevolo soprannome di “difensore delle cause perse”.
13
Ebbene, pur con tutte queste favorevoli premesse, anch’egli si inserisce nel mainstream di
condanna e incomprensione verso la musica di scena:
L’argomento della musica di scena, in genere, è dei più pazzi, pur tra gli altri stravaganti che
riguardano il teatro e l’orchestra, le voci e gli strumenti. Non conosce tradizioni, forme, limiti. Non conosce
nulla fuor che le sue pazzie d’ogni occasione. La sua norma è il provvisorio […]. Dovrebbe vivere sempre
con il dramma e non ci vive. […] Per la musica, per ciò che ha da rimanere o meno nella musica, si prende
l’esempio del singolo musicista, l’interesse isolato e particolare del modo com’egli si avvicina alla musica di
scena, del suo calarla in una forma, del darle immagine sulle immagini di personaggi o di parole poetiche.
Poiché, di per sé, la definizione stessa: musica di scena (anche nella sua radice originale) riflette il disordine
e l’anarchia dell’argomento.
23
Parrebbe incredibile che queste parole siano di Gavazzeni, tanto ci appaiono
confuse, sbagliate; è perfino superfluo ricordare ancora come sia ricca la tradizione di
questo genere teatrale, che esiste una precisa codificazione formale, benché ricca e non
rigida. Ma c’è di più:
Perché commenti musicali le «musiche di scena» non sono sempre. Spesso, infatti, la musica
entra nella rappresentazione per volontà espressa del drammaturgo, quale conclusivo mezzo sul quale si
appoggia in quel momento l’azione scenica. Così per dar voce alle parole di un coro, o per quegli squilli di
fanfare guerresche. […]
Commento musicale potrebbero e dovrebbero apparire di primo acchito le introduzioni
orchestrali, le zone occupate dai suoni di strumenti […] . E lo sono anche, commenti: quando un musicista si
preoccupa appunto di mettersi al servizio del dramma rappresentato con una sorta di subordinazione
estetica, venendo ad aumentare ancora tutto il falso e il bastardo di un ufficio come questo della «musica di
scena». Cresce l’ibridismo, dove il commento giunge veramente ad esser tale. E la confusione di linguaggi in
sede estetica non si sa dove poterla condurre, e sin dove lasciarla correre per una china rovinosa a tal
punto.
24
Ecco il punto, ecco le due, cicliche, eterne, immutabili accuse: da una parte la
superiorità teorica del compositore come drammaturgo, che dunque non è ammissibile si
inchini alla «subordinazione estetica» di servire il dramma, non permette a priori questa
relazione «bastarda»; dall’altra il prodotto non può che essere – esattamente come
affermava Wagner
25
– un mostruoso, disarmonico coacervo. Certo, si chiede
23
GIANANDREA GAVAZZENI, La musica di scena di Pizzetti, in La musica e il teatro, Pisa, Nistri-Lischi, 1954, p. 139,
primo corsivo mio.
24
Ivi, pp. 140-1, corsivo mio.
25
Sulla cui opinione cfr. supra.
14
probabilmente Gavazzeni, come salvare quelli che sono indubbi capolavori musicali, come
il Sogno di Mendelssohn, o il beethoveniano Egmont? Ovviamente con una soluzione di
sapore crociano, stile “poesia vs. non poesia”:
Rimangono i valori; le illuminazioni, gli acquisti singoli di particolari momenti, di particolari
linguaggi individuali di musicisti. Esteticamente e teatralmente, l’innesto del teatro drammatico e della
musica ha provocato un frutto che rifiuta qualunque catalogazione.
26
Insomma, di per sé il genere è un’assurdità, ma comunque il genio singolo di
qualche musicista (e non – si badi bene – di qualche poeta, giacché la musica, e solo
essa, veicola il dramma) può aver prodotto qualche capolavoro: così accade – questa la
conseguenza sottintesa – anche per Pizzetti.
Più avanti Gavazzeni espone più in dettaglio, al di là delle motivazioni – diciamo
– “storiche”, il perché del rifiuto del genere della musica di scena:
non si deve ammettere che su un linguaggio preciso, delineato, delimitato nei suoi mezzi
espressivi [la musica], ad un certo momento, secondo un determinato capriccio, ne cali un altro con tutt’altra
storia, e tutt’altri impieghi [la poesia]. O insieme, parole e musica, nell’architettura e nel ritmo e nell’etica del
dramma musicale, del melodramma, dell’opera insomma; o ciascuno in proprie sedi naturali [...] . Perché la
parola, anche in un dramma, anche recitata da attori […] conosce, direi, i suoni «armonici» fantastici,
incredibili, le risonanze nascoste
27
.
Insomma, la musica e la parola possono coesistere solo nel canto, dove
quest’ultima assurge ad un livello superiore grazie alla prima, altrimenti l’operazione è
inutile e perfino dannosa, poiché danneggia la musicalità che la parola, anche solo
recitata, ha, e evidenzia crudamente il «dislivello espressivo […] che [fa] proprio
l’imbastardimento e la menzogna estetica della “musica di scena”»
28
.
Curioso è poi il fatto che Gavazzeni trovi alcuni punti deboli di questa sua teoria,
che esorcizza con altre affermazioni facilmente avversabili: ad esempio ricorda l’unità di
suono e parola nella tragedia greca, ma afferma trattarsi di un genere preciso, ben
codificato, ed oggi tramontato, impossibile a riesumarsi. Ma perché, si potrebbe invece
ribattere, negare che anche la musica di scena possa essere un genere codificato, con
una storia alle spalle, e dunque neppure bisognoso di riscoperta? Oppure – dice ancora il
26
Ivi, p. 141.
27
Ivi, pp. 142-3.
28
Ivi, p. 143, corsivo dell’autore.
15
musicista bergamasco – è pur vero che lo spettacolo (nel suo complesso, non solo la
musica) di Pizzetti La Sacra Rappresentazione di Santa Uliva allestita nel chiostro di
Santa Croce a Firenze fu memorabile, per suggestioni, per «il gioco mutevole di pitture,
suoni, recitazioni», dove «c’era spazio per tutto: per la musica, la pittura, la poesia»; ma si
è trattato di un’occasione effimera. Eppure uno spettacolo riuscito «non offre nulla intorno
alla definizione di un genere inesistente, intorno alle sue eventuali e ipotetiche ragioni di
vita». Davvero, a questa ultima affermazione non occorre aggiungere altro, tanto è palese
la contraddizione interna.
Ma nonostante questi severi strali censori, Gavazzeni ha parole assai lusinghiere
per la Pisanelle: infatti, a suo avviso,
nelle «musiche di scena» di Pizzetti quelle della Pisanella rimangono un avvenimento unico e
costituiscono, nelle loro pittoresche riuscite, un riferimento costante. La pazzia della «musica di scena» può
essere persino dimenticata. C’è lo spartito musicale a proporre e ad imporre la misura e le giustificazioni. Ed
esse sono tali da poter rispondere a qualunque domanda.
29
Il che vuol dire che se l’esito è stato di alto livello artistico, ciò è avvenuto solo
grazie a una partitura di livello tale da fare obliare l’assurdità del genere. Certo, rimangono
difficili da accettare, nell’ottica di Gavazzeni, tutte queste eccezioni alla severa condanna
di partenza: prima la Santa Uliva, ora la Pisanella; che il genere non sia proprio da
buttare?
Eppure anche Pizzetti, nei suoi scritti teorici
30
– invero non di livello pari alla sua
produzione musicale – non sembra discostarsi poi molto dalla posizione di Gavazzeni: ma
leggendo a fondo i saggi La musica delle parole (1934) e La “musica di scena”
31
capiamo
che il discorso è diverso. Innanzitutto egli fa una sottile distinzione fra “suono” e musica,
parlando della parola:
29
Ivi, p. 175.
30
Vanno ricordate almeno le due sillogi di saggi: Musica e dramma, s.l. [ma Roma], edizioni della Bussola, 1945 e
Intermezzi critici, Firenze, Vallecchi editore, s.d. [ma 1914].
31
Entrambi contenuti in ILDEBRANDO PIZZETTI, Musica e dramma, cit.