3
Prima di passare all’analisi degli strumenti giuridici che l’ordinamento
internazionale ed interno offrono per garantire il diritto a non essere sottoposti a
tortura, è forse utile soffermare l’attenzione su quelli che ci sembrano una serie
di ‘errori’ o, meglio, di ‘false convinzioni’ sull’argomento.
La prima questione attiene alla superficialità con cui spesso si ritiene che
la previsione di un sistema internazionale articolato sia sufficiente a reprimere
queste pratiche: spesso la notevole leggerezza degli Stati nel mettere in atto quei
sistemi di prevenzione e repressione del fenomeno rendono, di fatto, totalmente
inefficaci le norme internazionali, che dispongono di strumenti di garanzia
spesso inadeguati all’obiettivo. È quindi necessaria una verifica attenta relativa
alla capacità degli ordinamenti interni di reprimere la tortura, attraverso
strumenti penali che tengano conto della reale portata e gravità di questi atti.
Ratificare trattati internazionali non basta: occorre adeguare i sistemi giuridici
agli standards che questi ultimi individuano.
La seconda questione è quella legata alla tendenza, diffusasi soprattutto
negli ultimi anni nel solco della cd. “guerra al terrore”, ad ipotizzare la necessità
di un bilanciamento tra il diritto a non essere sottoposti a tortura (insieme ad altri
diritti fondamentali) e la sicurezza collettiva.
4
È in questo contesto che si è
assistito ad un mutamento nei comportamenti degli Stati rispetto alla tortura. Il
riferimento non è ad un dato quantitativo (se cioè la tortura sia oggi più o meno
praticata), ma al diverso approccio rispetto al fenomeno: se, fino ad alcuni anni
fa, il ripudio della tortura era un fatto talmente condiviso che le difese degli Stati
accusati di praticarla si riducevano quasi esclusivamente alla negazione
dell’accusa, negli ultimi anni, sempre più spesso, i governi si sono difesi
proponendo definizioni molto restrittive di “tortura”, descrivendo certe forme di
maltrattamento come semplici tecniche di pressione fisica e psicologica e
4
In tal senso, DERSHOWITZ A., Why terrorism works, New Haven – London, 2002
4
sostenendo che determinate procedure non fossero necessariamente illegali ma
potevano essere giustificate sulla base di necessità militari o di difesa.
Questa tendenza ha determinato una situazione per cui il diritto a non essere
sottoposti a tortura e ad altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti, uno dei
diritti più universalmente accettati, è stato gravemente indebolito non solo
perché i governi hanno continuato a fare uso di queste pratiche, ma anche perché
le hanno dichiarate giustificabili e necessarie.
Parte della dottrina
5
rileva come la negazione di garanzie fondamentali, in
primis il divieto di tortura, sia fortemente legata alla deformalizzazione dei
sistemi penali, secondo il paradigma del ‘diritto penale del nemico’, che ha
prodotto veri e propri non-luoghi sottratti alla sovranità statale, come Abu-
Grahib o le varie Guantanamo sparse per il mondo popolate di presunti terroristi
e unlawful enemy combatants, sottratti anche alle garanzie delle Convenzioni di
Ginevra. L’erosione delle garanzie è sempre progressiva, per cui, quando non
può essere più efficacemente realizzata in casa propria, la tortura viene
‘appaltata’. Il riferimento è alla diffusione, sempre negli ultimi anni, della
pratica delle consegne straordinarie: le vittime sono catturate all'estero e
trasferite in Paesi che hanno un deplorevole livello di rispetto dei diritti
dell'uomo, dove vengono interrogate utilizzando tecniche molto più dure di
quelle possibili in qualunque Paese occidentale. La pratica delle extraordinary
rendition è dunque un circuito di tortura per procura
6
che coinvolge diversi
Stati: quello che organizza la cattura e beneficia delle informazioni, lo Stato che
dà accesso al suo territorio perché avvenga la cattura o perché l'aereo usato per
trasportare la vittima vi faccia scalo e lo Stato dove l'informazione è estratta.
5
In tal senso, RESTA F., Choices among evils. L'ossimoro della 'tortura democratica', in
Indice penale, 2/2007
6
Definizione di SCOVAZZI T., Tortura e formalismi giuridici di basso profilo, in Rivista di
diritto internazionale, 2006, fasc. 4, p.905.
5
A tal proposito è significativo che Louise Arbour, Alto Commissario dell’ONU
per i diritti umani, abbia da tempo condannato il pericolo di una “diluizione”,
attraverso la pratica delle detenzioni segrete e delle cd. assicurazioni
diplomatiche per il rinvio di una persona in Paese in cui rischia di essere
sottoposto a tortura, del concetto di tortura. Queste mistificazioni appaiono, alla
luce del diritto internazionale, del tutto inaccettabili. La Convenzione delle
Nazioni Unite contro la tortura, come si vedrà nel seguito di questo lavoro,
stabilisce infatti in modo chiaro il divieto di tortura e sancisce, in conformità ad
una serie di altri strumenti giuridici internazionali, la sua assoluta inderogabilità.
Dunque – ed è questa un’altra falsa convinzione da scardinare – l’idea
secondo cui la tortura e i maltrattamenti siano sempre sbagliati non è frutto della
visione virtuosa di una minoranza “liberale”: i governi di ogni parte del mondo
l’hanno accettata e hanno scritto, nero su bianco, nel diritto internazionale che
non c’è mai alcuna circostanza che possa giustificare la tortura e i
maltrattamenti, neanche la guerra o un’emergenza nazionale. Probabilmente la
sfida dei prossimi anni sulla tortura, e sui diritti umani in generale, si gioca
proprio su questo: sulla capacità di non arretrare sul riconoscimento
dell’universalità dei diritti (riconosciuti a tutti, compresi “nemici” o presunti
tali) e di ribadire la cogenza degli obblighi internazionali a carico degli Stati.
Proprio su questo punto occorre fare un cenno sull’ultima errata
convinzione sulla tortura, quella cioè che essa sia un fatto che riguarda Paesi
meno sviluppati del nostro, per cui la repressione di questo fenomeno sia una
questione che riguarda il Ministero degli Esteri, più che quello degli Interni. Non
è così: anche il Paese di Beccaria non è al di sopra di ogni sospetto. Non lo è per
i molti motivi evidenziati dalle ripetute raccomandazioni indirizzate alle autorità
del nostro Paese dagli organismi di controllo internazionali sulla tortura, non lo
è per le torture praticate – più o meno occultamente – nel territorio italiano, non
lo è perché sono provate le sue complicità nella rete delle consegne straordinarie
6
e non lo è, soprattutto, perché non ha ancora trovato il tempo di introdurre nel
proprio codice penale il reato di tortura.
Questo lavoro vuole dimostrare l’improcrastinabilità dell’obbligo, per l’Italia, di
colmare questo importante vuoto nel sistema penale, evitando di sottovalutare
l’importanza di tradurre in scelte concrete la cultura giuridica e politica dei
diritti umani di cui da sempre l’Italia si fa portatrice. È necessario ridare alle
parole il loro significato: l’unico modo per tutelare i diritti umani è rispettarli e
farli rispettare, in primis introducendo strumenti legislativi che vadano
inequivocabilmente in questa direzione.
7
PARTE PRIMA
IL DIVIETO DI TORTURA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
Capitolo I.
Gli strumenti internazionali di proibizione della tortura
Il divieto di tortura fu sancito per la prima volta nell’art.5 della
Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, proclamata a New York il 10
dicembre 1948. La messa al bando della tortura era espressa a chiare lettere:
“Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a
punizioni crudeli, inumane o degradanti”.
Da allora, l’obiettivo dell’abolizione della tortura è stato ben chiaro agli organi
delle Nazioni Unite, testimoniando la condivisione a livello internazionale
dell’idea di un fermo ripudio della tortura. Sono infatti rintracciabili una serie di
atti inequivocabilmente rivolti nella medesima direzione dell’art.5 della
Dichiarazione Universale. Il riferimento è alla Dichiarazione delle Nazioni
Unite per la protezione di tutti gli individui da atti di tortura e trattamenti o
pene inumani o degradanti (adottata dalla Assemblea generale con risoluzione
3452 del 9 dicembre 1975)
7
, alle Regole minime delle Nazioni Unite per
l’amministrazione della giustizia minorile (adottate dall’Assemblea Generale
con risoluzione 40/44 del 29 novembre 1985), ai Principi per la protezione di
tutte le persone sottoposte a ogni forma di detenzione o carcerazione (adottati
dall’assemblea generale con risoluzione 43/173 del 9 dicembre 1988).
Va rilevato che il divieto di tortura è previsto anche in settori del diritto
internazionale diversi da quello della protezione dei diritti umani. Ne è un
esempio l’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 che
7
Va precisato che la risoluzione fu adottata senza votazione, a dimostrazione dell’ampio
consenso che i principi in essa formulati avevano raccolto tra gli Stati.
8
individua regole applicabili a tutti i conflitti e stabilisce che “Le persone che
non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze armate
che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da
malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni
circostanza, con umanità […]” e che “A questo scopo, sono e rimangono
vietate, in ogni tempo e luogo, nei confronti delle persone sopra indicate, e
violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte
le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi”.
È importante rilevare, inoltre, che la tortura risulta compresa, a particolari
condizioni dettagliatamente individuate nelle rispettive norme, nelle categorie
dei “crimini contro l’umanità”
8
e dei “crimini di guerra”
9
, rispetto ai quali lo
Statuto di Roma prevede, in via complementare rispetto alla giurisdizione degli
Stati Parte, la giurisdizione della Corte penale internazionale.
Ai fini dell’individuazione degli obblighi giuridici gravanti sugli Stati in
materia di tortura, assumono particolare importanza gli strumenti pattizi che
hanno tradotto in precetto vincolante la condanna della tortura proclamata
nell’art. 5 della Dichiarazione Universale: ne sono un esempio la Convenzione
Europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali del 1950,
il Patto Internazionale sui diritti civili e politici del 1966 e infine la Convenzione
contro la tortura del 1984.
L’art.5 della Dichiarazione Universale ha costituito modello di riferimento
anche per il divieto di tortura contenuto nella Convenzione americana dei diritti
dell’uomo (art.5 par.2), e per la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli,
approvata nel 1981 in Gambia dai Paesi membri dell’organizzazione dell’Unità
Africana, che sancisce all’art.5: “Ciascun individuo deve avere il diritto al
8
Statuto della Corte penale internazionale, art. 7.1 f.
9
Ivi, art. 8.2, a, II.
9
rispetto della sua dignità in quanto essere umano ed al riconoscimento del suo
status legale. Tutte le forme di prevaricazione e mortificazione dell’uomo e
particolarmente la schiavitù e la sua tratta, la tortura, le pene ed i trattamenti
crudeli, disumani o degradanti, dovranno essere proibite.”
Secondo il medesimo impianto generale il crimine di tortura è codificato
anche in Convenzioni internazionali a carattere regionale quali la Dichiarazione
del Cairo sui diritti dell’uomo nell’Islam adottata dalla IX Conferenza islamica
dei Ministri degli Affari Esteri al Cairo nel 1990, o la Dichiarazione islamica
universale dei diritti dell’Uomo del 1981.
L’Italia è Stato Parte della Convenzione Europea per la protezione dei
diritti umani e delle libertà fondamentali, del Patto Internazionale sui diritti civili
e politici del 1966 e della Convenzione contro la tortura del 1984: mentre sulla
Convenzione Europea ci si soffermerà nel secondo capitolo di questo lavoro, qui
si approfondirà la nozione di tortura che emerge dagli altri due strumenti pattizi
sopra menzionati al fine di evidenziarne le implicazioni con il nostro
ordinamento.
Il patto del 1966 prevede all’art. 7 che “Nessuno può essere sottoposto
alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in
particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un
esperimento medico o scientifico”. È evidente che la norma non introduce una
definizione delle condotte che possono essere individuate come tortura, ma a tal
fine può essere utile il riferimento all’interpretazione data dell’art.7 dal
Comitato dei diritti dell’uomo, cioè dall’organo istituito dal Patto ed entrato in
funzione nel 1977, con l’incarico di vigilare sul rispetto dei diritti previsti dal
Patto da parte degli Stati contraenti. Il Comitato, in particolare, osserva che “La
determinazione di ciò che costituisca un trattamento disumano o degradante ai
sensi dell’art.7 dipende dal complesso delle circostanze del caso, quali la
10
durata e le modalità del trattamento, i suoi effetti fisici o mentali così come il
sesso, l’età o lo stato di salute della vittima”.
10
Al di là della possibilità di determinare confini più o meno precisi del concetto
di tortura così come definito dall’art. 7, si discute anche sulla valenza da
attribuire al combinato disposto dell’art.7 con l’art.2.2. Se infatti, come l’art.2.2
stabilisce, “Ciascuno degli Stati parti del presente Patto si impegna a compiere,
in armonia con le proprie procedure costituzionali e con le disposizioni del
presente Patto, i passi per l'adozione delle misure legislative o d'altro genere
che possano occorrere per rendere effettivi i diritti riconosciuti nel presente
Patto, qualora non vi provvedano già le misure, legislative e d'altro genere, in
vigore”, se ne dovrebbe dedurre secondo alcuni l’obbligo per gli Stati Parte di
contemplare nel loro codice penale un reato di tortura. Secondo altri, invece, tale
conclusione non può essere condivisa dal momento che il Patto prescrive
obblighi di carattere più generale rispetto a quelli più specifici previsti da
strumenti pattizi ad hoc.
11
Certamente, però, il momento culminante della lotta contro la tortura è
costituito dall’adozione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il
10 dicembre 1984, della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti
crudeli, inumani o degradanti ed entrata in vigore sul piano internazionale il 26
giugno 1987.
La spinta ad introdurre uno strumento convenzionale specificamente
dedicato alla tortura, che si aggiungesse agli altri strumenti già in vigore, venne
10
Conclusioni del Comitato sulla Comunicazione n.265/1987 c. Finlandia (presentata da
Annti Vuolanne), par. 9.2
11
In tal senso, FORNARI M., La Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre
pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, in La tutela internazionale dei diritti
umani: norme, garanzie, prassi / a cura di Laura Pineschi. – Milano, Giuffrè, pag. 211, il
quale, pur rilevando che il Comitato dei diritti umani ha biasimato il governo italiano per la
mancata introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento, sottolinea che l’obbligo per
gli Stati di introdurre tale fattispecie deriva solo dall’art.4 della Convenzione ONU del 1984.
11
dagli avvenimenti verificatisi in America Latina negli anni ’70 e in particolare
dallo sdegno che avevano suscitato nell’opinione pubblica mondiale le
informazioni sui metodi di repressione adottati nel Cile di Pinochet e in altri
Paesi sudamericani sottoposti a dittature militari.
Già nel 1973 la risoluzione 3059 dell’Assemblea Generale esplicitava la
condanna del ricorso alla tortura e a qualsiasi forma di trattamento inumano o
degradante e sollecitava gli Stati a ratificare gli strumenti internazionali che
vietavano tale pratica.
A tale risoluzione, si aggiunse l’anno seguente la n. 3218 che, ribadendo la
condanna di tale pratica, chiedeva agli Stati membri di redigere rapporti sulle
misure legislative, amministrative e giudiziarie, incluse le sanzioni, da essi
adottate al fine di salvaguardare le vittime di tortura e di altri trattamenti crudeli,
inumani o degradanti sottoposte alla loro giurisdizione.
I quarantadue rapporti giunti all’ONU costituirono la base per l’adozione
della Dichiarazione del 9 dicembre 1975, a cui si è già fatto cenno. Tale
Dichiarazione assunse un’importanza fondamentale dal momento che, oltre a
sottolineare il carattere assoluto del divieto di tortura e quindi la sua
inderogabilità, fissava una serie di impegni per gli Stati: in particolare, quello di
adottare le misure necessarie per prevenire e vietare atti di tortura sul proprio
territorio, quello di garantire prontezza ed imparzialità nelle indagini e quello di
sottoporre a giudizio i responsabili e di prevedere un equo risarcimento per le
vittime.
Altro elemento di novità che la Dichiarazione introdusse è il
coinvolgimento nella lotta contro la tortura degli operatori sanitari e medici: in
seguito, con la risoluzione 37/194 del 18 dicembre 1982 che formulava i
Principi di etica medica rivolti al personale sanitario nella protezione dei
detenuti da atti di tortura e trattamenti inumani o degradanti, l’Assemblea pose
l’accento sulla responsabilità del personale medico e sanitario nella tutela