5
procedura penale: in pratica il testimone, che in precedenza poteva considerarsi
come un interlocutore privilegiato del giudice, diviene in questo nuovo scenario
una sorta di strumento di ricerca della verità. Ricerca peraltro affidata
essenzialmente alle parti, come accennato, attraverso una verifica e quasi
un’esegesi dell’escussione diretta del testimone, che mira non solo a valutare la
sincerità della persona che depone, ma anche la corrispondenza tra pensiero e
relative espressioni verbali da quella usate, e inoltre la rispondenza tra la sua
rievocazione e quella che si presume sia stata la relativa percezione originaria.
Un primo problema da porsi, nell’esame della figura in questione, è proprio
quello della definizione della testimonianza. Coerentemente alla percezione
comune, per cui è testimone di un certo evento colui il quale l’abbia
personalmente percepito coi propri sensi, la testimonianza è costituita da una
“dichiarazione, positiva o negativa, di verità, resa davanti al magistrato penale,
da una persona […] diversa dai soggetti principali del processo penale, circa
percezioni sensorie ricevute dal dichiarante fuori del processo attuale, relativa
ad un fatto passato, e diretta allo scopo della prova, cioè all’accertamento della
verità”
1
.
Una simile definizione si può considerare valida e condivisibile ancora oggi,
anche dopo la l. 63/2001 sul giusto processo, la quale, in applicazione dell’art.
111 Cost., introduce la possibilità che assuma l’ufficio di testimone l’imputato in
un processo connesso o collegato: infatti le dichiarazioni di un simile teste,
rimossa la causa di incompatibilità, provengono da un soggetto che è sì parte,
ma in un altro e diverso procedimento.
Così considerata e definita la testimonianza in senso proprio, si deve concludere
che non possano concettualmente includersi in tale categoria quelle
dichiarazioni con cui si riferiscono percezioni non proprie.
Perciò risulta necessario distinguere dalla figura della testimonianza “propria”
quella della testimonianza indiretta, definita anche de relato, che è quella resa da
chi, non avendo personalmente percepito il fatto oggetto della dichiarazione, ne
ha invece avuto conoscenza dal racconto di altre persone, o attraverso forme di
1
V. MANZINI, Trattato di diritto processuale italiano, Torino, 1970.
6
cognizione diverse da quella orale (caso paradigmatico è quello della lettura di
un documento).
La distinzione in esame assume infatti importanza centrale non solo per motivi
dottrinari e classificatori, ma proprio per le capitali conseguenze riguardo alla
scelta operata in tal senso
2
: infatti dalla definizione di testimonianza indiretta
accolta dipende la delimitazione dell’area applicativa della disciplina dettata
dal codice appunto per la testimonianza de relato. In sostanza, tutto ciò che non
rientra in una simile categoria costituisce una “normale” testimonianza, che in
quanto prova diretta non sarà soggetta alle particolari regole di esclusione e ai
rigorosi limiti di utilizzabilità disposti appositamente per le deposizioni del
testimone indiretto, in base all’art. 195 c.p.p.
Perciò, secondo la visione dominante, sarebbe arbitrario considerare la
testimonianza de relato come una normale testimonianza: infatti il teste indiretto
non ha avuto diretta percezione dei fatti descritti, ma ne ha piuttosto avuto una
descrizione indiretta. La stessa testimonianza indiretta non dovrebbe nemmeno
avere accesso al processo penale, se le si chiedesse di provare la verità dei fatti
oggetto delle dichiarazioni ricevute
3
.
In realtà la testimonianza indiretta può assumere un ruolo molto significativo
nel processo, se solo la si intende come strumento per dimostrare che le
dichiarazioni riportate sono effettivamente state fatte, indipendentemente dalla
verità di quanto quelle affermano. Infatti anche in questo caso si ricadrebbe
nell’ambito della testimonianza “propria”, perché il dichiarante non farebbe che
testimoniare una sua percezione, avente ad oggetto la affermazione del terzo
(piuttosto che la diversa rappresentazione documentale)
4
.
In effetti ciò che rende estremamente ardua una completa distinzione tra
testimonianza diretta e indiretta è rappresentato dal dato psicologico per cui, in
entrambe le categorie, il processo mnemonico realizzato dal teste non è
semplicemente riproduttivo (come a prima vista sembrerebbe), ma è
2
Cfr. A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’ – La testimonianza indiretta tra teoria e
prassi applicativa”, Milano, 2004, pag. 107.
3
I. CALAMANDREI in “Commento all’art. 195 c.p.p.” in “Commento al nuovo codice di procedura
penale, coordinato da M. Chiavario”, II, Torino, 1990, pag. 429.
4
I. CALAMANDREI, op. cit., pag. 429.
7
essenzialmente un processo ricostruttivo
5
. Infatti la rievocazione compiuta dal
dichiarante non costituisce un’operazione passiva, di riproduzione quasi
meccanica di quanto percepito, ma è piuttosto un processo complesso, di
selezione e organizzazione di informazioni sistemate così da creare un ricordo,
una ricostruzione del fatto descritto che appaia mentalmente sensata.
Ovviamente l’analisi delle varie tipologie di testimonianza non può prescindere
da simili considerazioni sulla complessità del processo di ricostruzione, capace
come detto di comporre un “collage” mentale partendo da elementi di diversa
provenienza, e di conseguenza di differente grado di attendibilità.
Del resto la testimonianza indiretta presenta delle problematiche assolutamente
proprie e peculiari di questa specifica categoria: si può pensare alla
deresponsabilizzazione del teste derivante dal fatto che questi non ha percepito
il fatto da provare, ma semplicemente il racconto che altri gli ha fornito di
quello; e inoltre le distorsioni dei ricordi, che sono dati caratteristici (come
visto) della rievocazione mnemonica dei ricordi, nella testimonianza de relato
sono statisticamente molto più probabili che in quelle dirette
6
.
“Pertanto la distinzione tra la testimonianza diretta e quella indiretta si fonda
non tanto sulla intrinseca struttura del ricordo, quanto sul peculiare atteggiarsi
dei fattori che lo condizionano o distorcono: la scissione tra l’oggetto immediato
della deposizione (dato dalla narrazione altrui) e il suo oggetto mediato
(costituito dal fatto narrato) agevola in misura rilevante la formazione,
consapevole o inconsapevole, di ricostruzioni mnemoniche non rispondenti alla
realtà”
7
.
Proprio in considerazione di questi rischi fisiologici della testimonianza
indiretta, il vaglio di credibilità sulle relative dichiarazioni deve realizzarsi
attraverso una destrutturazione della ricostruzione mentale fornita dal
dichiarante. Tale operazione, se si realizza nella fase di assunzione delle prove,
si svolge attraverso l’esame della fonte primaria; se si realizza nella fase di
valutazione degli elementi di persuasione del giudice, si compie attraverso la
5
Cfr. G. MAZZONI, “Si può credere a un testimone? La testimonianza e le trappole della memoria”,
Bologna, 2003, pag. 66 ss, citato da A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit.,
pag. 109.
6
Cfr. A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 109.
7
Così A. BALSAMO e A. LO PIPARO, op. ult. cit., pag. 110.
8
ricostruzione e la successiva valutazione del ragionamento inferenziale
mediante il quale si potrà fare uso giudiziale della deposizione indiretta
considerata.
Ovviamente, nella diversa ipotesi in cui il controllo sugli elementi capaci di
influenzare la formazione del ricordo può prescindere dal riferimento e dalla
valutazione della fonte originaria della conoscenza, e dei rapporti tra questa
fonte ed il ricordo riferito, ci si troverà nell’area della testimonianza diretta, e
non di quella de relato, con conseguente esclusione dell’operatività della
disciplina ex art. 195 c.p.p.
2 – Interpretazione della categoria della testimonianza indiretta da parte della
giurisprudenza
La distinzione prospettata appare in definitiva piuttosto chiara, almeno in
teoria. Però nella pratica i contorni delle due categorie (testimonianza diretta e
indiretta) inevitabilmente sono soggetti a sfumare, tanto da generare,
soprattutto in quelli che possono definirsi “casi-limite”, problemi anche a
proposito di simili nozioni, in apparenza del tutto acquisite e pacificamente
considerate.
In Cass., 21 agosto 1990, Mazzotti
8
, vengono in considerazione le dichiarazioni
di un teste che afferma di aver assistito all’episodio oggetto della sua
testimonianza, in realtà però assistendo solo parzialmente allo stesso, e
ricostruendolo successivamente per intero “in via di logica consequenzialità”.
La Corte in tale pronuncia afferma che l’art. 195 c.p.p. non è finalizzato alla
esclusione della testimonianza in tutti i casi in cui si riferiscano degli eventi non
verificatisi sotto la percezione del dichiarante; piuttosto si è voluto in quella
sede normativa consentire un controllo di conoscenza su simili affermazioni. La
sentenza, a questo punto, chiarisce come quella considerata non si possa
qualificare come testimonianza de relato (non necessitando perciò del relativo
controllo ex art. 195 c.p.p., quanto piuttosto di quello ex art. 194 c.p.p.).
8
Cass. Sez. VI, 4 aprile 1990, Mazzotti, in Arch. Nuova proc. pen., 1991, pag. 294.
9
In Cass. 23 marzo 1998, Calia
9
, il ricorrente aveva fatto ricorso alla Corte (tra gli
altri motivi) affermando l’inutilizzabilità delle deposizioni dei due testimoni
principali, non essendo quelli stati in grado di indicare le persone da cui
avevano appreso notizia dei fatti oggetto della loro deposizione. La Cassazione
ha invece ritenuto che quelle dei due testi dovessero considerarsi delle
testimonianze dirette, in quanto riguardavano circostanze svoltesi, anche se
solo in parte, al loro cospetto, e su cui perciò potevano fornire la loro versione
(nella fattispecie si era condannato il ricorrente per aver reiteratamente lanciato
oggetti e acqua contro gli avventori di una pizzeria all’aperto, sottostante alla
sua casa, al fine di procurarne l’allontanamento). La sentenza a questo punto
richiama la decisione su commentata
10
.
La Suprema Corte si è poi occupata della distinzione tra testimonianza diretta e
de relato, ritenendo che la relativa qualificazione vada desunta “dai criteri
normativi dettati dall’ordinamento procedurale e non da massime di esperienza
fattuali”: una simile conclusione è stata raggiunta dalla Corte in due diversi
casi, entrambi legati a fattispecie di criminalità mafiosa.
In Cass. 1 dicembre 1994, Mazzara
11
, il giudice del merito, prendendo in
considerazione la prassi mafiosa della “presentazione rituale”, aveva qualificato
come diretta, anziché de relato, la dichiarazione di un collaborante di giustizia
che aveva riferito della qualifica di “uomo d’onore” rivestita da un soggetto, e
da lui appresa in occasione di una simile presentazione. Invece la Corte,
affermando il principio riferito, ha giudicato erronea l’operazione ermeneutica
del giudice di merito, che ha in sostanza sostituito ai canoni interpretativi di
estrazione codicistica quelli desunti da regole e codici comportamentali propri
delle organizzazioni criminose, così facendo (illogicamente, a parere della
Cassazione) discendere la qualificazione giuridica della dichiarazione da
circostanze di fatto anziché dai citati canoni legislativamente dettati.
In senso difforme alla pronuncia appena descritta la Corte si era espressa poco
tempo prima, in Cass. 27 settembre 1994, Bono
12
: in questa fattispecie, peraltro,
si dibatteva sulla natura (diretta o indiretta) di una chiamata in correità. Si
9
Cass. 23 marzo 1998, Calia, in Giust. Pen. 1999, III, pag. 283.
10
Cass. Sez. VI, 4 aprile 1990, Mazzotti, cit.
11
Cass. Sez. I, 1 dicembre 1994, Mazzara, in ???
12
Cass. sez. I, 27 settembre 1994, Bono, in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 1, 139.
10
afferma nella sentenza che si deve considerare come chiamata in correità diretta
quella contenuta nelle dichiarazioni di un soggetto che, avendo preso parte ad
una organizzazione mafiosa, riferisca dell’avvenuta presentazione nei suoi
confronti, secondo il rituale mafioso ad opera di un altro aderente al sodalizio,
di un terzo soggetto, così chiamato in correità, indicato in quella occasione come
“uomo d’onore”. In questa circostanza il giudice di merito aveva interpretato
tale chiamata in correità (e la Cassazione ha ritenuto corretta tale operazione)
come un indizio grave, ai fini dell’applicazione dell’art. 273 I comma c.p.p.
Va del resto notato come il legislatore, ancora oggi, non dia una espressa
definizione di testimonianza, né indichi una sua forma tipica: in effetti, se non
esistesse in tale direzione una risalente e costante tradizione (che sembra avere
indotto il legislatore a dare per scontata simile connotazione), si potrebbe
addirittura mettere in dubbio la sussistenza di una regola sulla necessaria
oralità della testimonianza.
3 - La testimonianza de relato come prova indiretta
Il concetto di testimonianza indiretta, fin qui descritto, va attentamente distinto
da quello della testimonianza de auditu, caratterizzato dal solo fatto che la
conoscenza del teste che depone gli deriva dalla percezione meramente uditiva
di quanto da quello riferito
13
. Infatti possono essere ricompresse nella categoria
della testimonianza de auditu tutte le deposizioni che riferiscano delle
espressioni vocali provenienti da soggetti terzi, senza che a quelle sia richiesta il
contenuto comunicativo caratteristico invece della comunicazione riferita nella
testimonianza de relato.
Da un lato, dunque, la testimonianza de auditu ha un’estensione maggiore di
quella de relato, visto che quest’ultima richiede come requisito necessario della
comunicazione alla sua base la finalità informativa; d’altro canto, la
testimonianza de relato può riguardare anche percezioni del teste non
13
Così A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag.116.
11
strettamente uditive, ma anche di altro tipo, come stabilito espressamente dal V
comma dell’art. 195 c.p.p. (si pensi alla visione di un documento).
Analizzando con attenzione il meccanismo per cui la testimonianza de relato
assume un ruolo probatorio apprezzabile nel processo, si può peraltro notare
come questa prova presenti i caratteri tipici della prova indiretta: infatti per il
tramite di un oggetto immediato, e già conosciuto al dichiarante (il contenuto
della comunicazione fatta da altri), si vuole giungere a rappresentare un oggetto
mediato (il fatto primario, che rimane da provare).
La più recente concezione dottrinale
14
, superando la tradizionale impostazione
sul punto
15
, fissa come criterio distintivo tra la prova diretta e quella indiretta il
rapporto intercorrente tra l’oggetto della prova e il fatto da provare.
Oggetto della prova sarà il fatto di cui la prova fornisce la dimostrazione: può
essere il fatto principale, come tale immediatamente riconducibile alla
fattispecie normativa (ad esempio il fatto previsto dalla norma sostanziale come
elemento costitutivo del reato), ma anche un fatto secondario, dal quale
possono inferirsi determinate conclusioni in relazione al fatto principale.
Il fatto da provare si identifica invece col fatto principale, ovvero il fatto
giuridicamente rilevante da cui viene direttamente a dipendere la decisione.
A questo punto, si avrà una prova diretta qualora ci sia identità tra oggetto
della prova e fatto da provare: infatti la prova verte in questo caso sul fatto
giuridicamente rilevante.
Si avrà invece prova indiretta quando l’oggetto di quella è un fatto diverso da
quello determinante ai fini della decisione: l’oggetto della prova indiretta sarà
quindi un fatto secondario rispetto a quello da provare, ma strettamente
connesso a questo, a livello logico e conoscitivo, tanto da permettere di valutare,
attraverso un ragionamento inferenziale, la verità del fatto principale
16
. Questa
operazione mentale di tipo induttivo compiuta dal giudice si fonderà
essenzialmente sulle regole della logica o su massime d’esperienza: e proprio
14
Sul punto v. A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 117.
15
Il criterio tradizionalmente seguito per distinguere prove dirette e prove indirette si fondava sulla
percezione del giudice riguardo al fatto da provare: si è però criticata una simile impostazione col rilievo
che una distinzione così rilevante non può fondarsi su criteri vaghi e soggettivi, come appunto la
percezione dell’organo giudicante o la natura intrinseca del mezzo di prova (cfr. M. TARUFFO, “La prova
dei fatti giuridici”, Milano, 1992).
16
Cfr. A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 118.
12
per la strutturazione di un simile ragionamento giudiziale si tende a definire le
prove indirette come “prove critiche” (o “logiche”), in contrapposizione alle
prove “storiche” (talvolta dette “rappresentative”), che sarebbero quelle
dirette
17
.
Si tratterà quindi, in sintesi, di prove dirette o indirette a seconda che queste si
riferiscano o meno immediatamente al thema probandum principale, così come
delineato dall’art. 187 c.p.p. La distinzione così tracciata, inoltre, non riguarda
l’essenza delle categorie di prove considerate, che normalmente possono essere,
in relazione al proprio oggetto nel concreto, dirette o indirette: si tratta piuttosto
di una distinzione funzionale o relazionale.
Sulla base di quanto finora affermato, sembra quindi di poter inserire la species
della testimonianza de relato nel genus delle prove indirette, proprio perché tale
prova ha per oggetto non il fatto principale da provare, ma piuttosto un fatto
secondario, rappresentato appunto dalla dichiarazione (o, più ampiamente,
dalla comunicazione) resa dalla fonte primaria. E l’elemento distintivo della
testimonianza de relato è proprio la particolare natura del suo oggetto
immediato: un comportamento apertamente comunicativo, con esplicita natura
informativa e descrittiva del fatto principale in esame.
La qualificazione della testimonianza de relato come prova indiretta permette
peraltro di delimitare con una certa precisione l’ampiezza della figura in
questione rispetto soprattutto alla testimonianza diretta: infatti può essere
considerata a pieno titolo testimonianza de relato solo quella volta a dimostrare
la verità del fatto narrato dal terzo, e riferito dal teste.
Non è invece applicabile la disciplina dell’art. 195 c.p.p. quando le dichiarazioni
di altri soggetti, riferite dal teste indiretto, costituiscono il fatto principale da
provare, oppure servono ai fini della prova di un fatto diverso da quello che
costituisce l’oggetto del fatto principale medesimo: in tutti questi casi si verserà
infatti in ipotesi di testimonianza diretta, con la conseguente applicazione della
relativa disciplina (così, ad esempio, quando la testimonianza sulla
17
Cfr. V. GREVI, in G. CONSO E V. GREVI, “Compendio di procedura penale”, Padova, 2003, pag. 295 s.;
precisa però l’Autore che le due classificazioni menzionate (prove dirette-indirette e storiche-critiche) non
sono del tutto coincidenti per la diversità dei criteri di distinzione che li guidano: la prima distinzione si
basa sull’eventualità che il fatto oggetto della prova si riferisca in modo diretto o indiretto al thema
probandum, mentre la seconda fa leva sul processo logico seguito dal giudice per ritenere conseguito il
risultato probatorio su quel tema.
13
dichiarazione altrui è finalizzata semplicemente a dimostrare il fatto storico
della sua pronuncia, o la capacità del soggetto di parlare, di intendere e
volere…).
Una simile interpretazione è del resto conforme a quanto stabilito nella
generalità dei sistemi di common law, in cui tali tipologie di testimonianza
vengono semplicemente qualificate come casi di original evidence, e perciò
pienamente ammissibili secondo le regole ordinarie, senza quindi le limitazioni
caratteristiche della testimonianza indiretta
18
.
In quanto prova indiretta, perciò, la testimonianza de relato non dimostra di per
sé la verità del contenuto della relativa deposizione testimoniale: infatti, una
volta che il teste de relato abbia rilasciato una simile dichiarazione, nel
contraddittorio delle parti, il giudice può a questo punto validamente
convincersi, ritenendo di conseguenza provata la circostanza fattuale per cui il
terzo ha effettivamente compiuto tali dichiarazioni nei confronti del teste.
Viene svolta a questo punto l’operazione più delicata: infatti il giudice dovrà
valutare se sia possibile trarre, da questo ormai provato fatto secondario, una
conclusione certa in merito all’esistenza o inesistenza del fatto principale,
costitutivo del thema probandum.
L’importanza, e al contempo la pericolosità, di questa fase è data sia dal
concreto pericolo di falsificazioni o distorsioni (consapevoli o inconsapevoli) del
racconto fatto dal teste, pericolo del resto caratteristico di ogni forma di
testimonianza, sia anche dalla condizione assolutamente peculiare in cui versa
il testimone de relato. E proprio questa condizione psicologica, determinata dal
fatto che il soggetto non riferisce la propria percezione del fatto, ma il resoconto
che altri gli ha fatto dell’accaduto, costituisce uno degli elementi che rendono
maggiormente problematico il ricorso alla testimonianza indiretta.
Secondo un’autorevole analisi psicologica della condizione del teste de relato
19
,
un tale soggetto non si comporta, rispetto alla narrazione di quanto appreso dal
racconto altrui, come farebbe qualora avesse effettivamente assistito al fatto
descritto. È infatti consapevole del fatto che chi lo interroga è interessato non
18
Cfr. A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 122 ss.
19
C.L. MUSATTI, “Elementi di psicologia della testimonianza”, Milano, 1991, citato da A. BALSAMO e
A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 120.
14
tanto ad accertare il fatto secondario della narrazione riferita, quanto il fatto
principale oggetto della narrazione: tale consapevolezza impone al teste di
tenere in minor considerazione il fatto secondario, reale oggetto della sua
deposizione, focalizzando invece la propria concentrazione sul fatto primario,
ovviamente sulla base degli elementi desunti dalla narrazione che se ne è avuta,
e dalla conseguente raffigurazione (soggettiva) che da quella descrizione si è
tratta. Così questa rappresentazione del fatto descrittogli costituirà un ricordo
assolutamente vivido e chiaro (anche se con tutta probabilità “manipolato”)
nella mente del dichiarante, mentre sarà molto più sfumato e impreciso il
ricordo dei singoli elementi costitutivi la narrazione (conclusioni, queste,
dimostrate empiricamente e confermate quindi a livello sperimentale).
A fronte di una simile condizione psicologica, diviene certo fondamentale
disciplinare con accuratezza l’ammissibilità e utilizzabilità delle dichiarazioni de
relato, così da evitare pericolose distorsioni nell’utilizzo probatorio di questo
mezzo di prova, distorsioni che del resto hanno caratterizzato in negativo, nella
vigenza del codice abrogato, soprattutto le scelte operate dalla
giurisprudenza
20
.
4 – Caratteri della testimonianza indiretta
La nozione di testimonianza indiretta accolta nel nostro ordinamento
codicistico attribuisce evidentemente grande rilievo alla comunicazione
originaria, riportata nella dichiarazione de relato, e che costituisce il tramite
necessario della conoscenza maturata in merito proprio dal teste indiretto.
Vanno però analizzati in modo schematico e preciso tutti gli elementi
significativi che entrano a far parte della fattispecie considerata, sia per quanto
riguarda il versante soggettivo (cioè autore e destinatario della comunicazione
originaria), sia per quanto concerne l’aspetto oggettivo (i caratteri della
comunicazione stessa).
20
V. supra par. 2.
15
Per quanto riguarda l’autore della comunicazione, l’art. 195 c.p.p. riporta la
dizione di “altre persone” che ha evidentemente portata amplissima: sembra
quindi riferibile a qualsiasi soggetto, anche non meglio qualificato nell’ambito
della singolare vicenda processuale.
Si può anzi sottolineare la possibilità che la comunicazione riferita dal teste de
relato sia stata fatta da un soggetto a sua volta “testimone indiretto”, perché,
non avendo assistito in prima persona al fatto descritto, ne ha avuto
semplicemente una descrizione da altra persona. Naturalmente l’intreccio
processuale a questo punto è destinato a complicarsi, perché ciascuna parte
potrà legittimamente ottenere dal giudice (che in mancanza di simili richieste
potrà agire analogamente sua sponte) la citazione e l’audizione (se possibile) non
solo del testimone indiretto “intermedio”, ma anche del soggetto che ha
personalmente avuto percezione del fatto e lo ha in seguito descritto a
quell’altro.
In ipotesi di questo tipo, infatti, dottrina e giurisprudenza sembrano concordare
per una simile interpretazione estensiva della norma, interpretazione volta ad
assecondare quella che sembra la ratio autentica dell’istituto: il controllo di
conoscenza sulla deposizione del teste de relato
21
. La Suprema Corte
22
si è
mostrata favorevole ad una simile interpretazione estensiva, affermando che, in
ipotesi di testimonianza indiretta di secondo grado, “spetta al giudice […]
verificare la credibilità di tutti i referenti nei vari passaggi” (nel caso di specie il
giudice doveva valutare simili deposizioni per decidere se emettere in loro
conseguenza un provvedimento restrittivo della libertà).
Sempre in riferimento agli aspetti soggettivi della comunicazione, è necessario
anche definire la figura del destinatario della stessa. Un primo problema è
quello di chiarire se la disciplina della testimonianza indiretta si debba
applicare nel caso in cui il testimone de relato abbia percepito la comunicazione
in esame senza però esserne il destinatario.
In effetti sembra che i problemi riguardanti questo aspetto non cambino
significativamente nel caso in cui il teste de relato ha percepito una
21
Cfr. A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 126; v. anche P. TONINI,
“La prova penale”, Padova, 1999, pag. 97.
22
V. Cass. Sez. IV, 5 novembre 1996, Tedesco, in Massimario Pen. 1997, pag. 250.
16
comunicazione rivolta a lui stesso o nella diversa ipotesi in cui tale
comunicazione, diretta ad un terzo, è stata “intercettata”, in modo volontario o
meno, dal medesimo teste. Si può notare come il V comma dell’art. 195 c.p.p.
descriva il teste indiretto come chi ha avuto comunicazione del fatto:
sembrerebbe perciò a prima vista che richieda una comunicazione appunto
destinata a quel soggetto; ma del resto si può notare come l’art. 195 nel suo
complesso accolga una nozione molto ampia di comunicazione.
Perciò si può concludere che, data per scontata la immancabile necessità di una
comunicazione alla base della testimonianza de relato, non è necessario che la
medesima comunicazione sia indirizzata specificamente al testimone indiretto,
potendo quella essere destinata anche ad un terzo soggetto
23
. Così un’ipotetica
deposizione di un ufficiale di polizia a proposito del colloquio tra due
“testimoni”, percepito durante una perquisizione, dovrebbe sottostare alla
disciplina della testimonianza indiretta (con esclusione del IV comma dell’art.
195 c.p.p.) , con conseguente inutilizzabilità ex art. 195 III comma di simili
dichiarazioni se il giudice non assecondasse la richiesta di parte di chiamare a
deporre i protagonisti di quel colloquio
24
. Se poi quest’attività di ascolto da
parte dell’ufficiale o agente della polizia si può considerare una intercettazione,
la testimonianza sul colloquio altrui è vietata ex art. 271 c.p.p.
25
.
A questo punto si possono analizzare gli elementi rilevanti della testimonianza
indiretta per quanto riguarda il suo aspetto oggettivo, ovvero la comunicazione
che sta alla sua base.
Innanzitutto va rilevato come il comma V dell’art. 195 c.p.p. estenda
l’applicazione della disciplina degli altri commi anche all’ipotesi in cui il teste de
relato abbia avuto una comunicazione del fatto in forma diversa dal racconto
orale: vengono in considerazione perciò anche comunicazioni fatte per iscritto
(ad esempio attraverso lettere o documenti), in forma gestuale, o con qualsiasi
altro veicolo (ad esempio immagini o files informatici)
26
.
23
In questo senso A. NAPPI, “Guida al nuovo Codice di procedura penale”, Milano, 1992, pag. 270 e A.
BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 128.
24
V. A. NAPPI, “Guida…”, cit., pag.271.
25
A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 129.
26
V. A. NAPPI, “Guida…”, cit., pag.270; A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’”
op. cit., pag. 130; F. CORDERO, “Procedura penale”, Milano, 2001, pag. 665.
17
Questa impostazione riflette del resto la nozione di hearsay accolta nella Federal
Rule of Evidence 801 statunitense, nozione che fa riferimento ad asserzioni, sia
scritte che orali, e alle condotte non verbali, se il loro autore le intende come
asserzioni. L’ordinamento processuale americano ha così voluto escludere dalla
categoria della hearsay le condotte prive di contenuto comunicativo
intenzionale, sulla scorta della considerazione per cui in relazione a quelle si
pongono minimi rischi di falsità soggettiva
27
.
Si è sottolineato
28
, in adesione all’impostazione descritta, che in effetti i
comportamenti con finalità comunicative possono avere una “ordinaria”
funzione informativa, descrittiva o dichiarativa (come è appunto la narrazione
di un avvenimento), ma possono anche avere funzione esecutiva o operativa
(come nel caso di ordini, promesse, avvertimenti…). Tuttavia la disciplina della
testimonianza indiretta riguarda unicamente le comunicazioni informative,
perché soltanto quando si riferiscono descrizioni o dichiarazioni altrui il teste
può considerarsi indiretto, visto che, come afferma la norma, si riferisce, per la
conoscenza di quei fatti, ad altre persone. Così, non sarebbe minimamente
applicabile la normativa sulla testimonianza de relato (neanche quella ex art. 62
c.p.p. a tutela dell’imputato) in una fattispecie in cui il testimone riferisce di
aver sentito un’esclamazione di dolore, un’imprecazione o anche un ordine.
In sintesi, secondo questa impostazione ermeneutica, il vero discrimine tra
testimonianza diretta e de relato è rappresentato dalla intenzionalità dell’esito
comunicativo del contegno percepito dal teste indiretto.
A questo indirizzo si è poi contrapposto il parere di chi
29
ha ritenuto applicabile
la disciplina dell’art. 195 c.p.p. anche a condotte oggettivamente comunicative,
ma non sostenute da un corrispondente intento soggettivo: si è infatti sostenuto
che tali condotte riducono di molto il rischio di insincerità dell’agente, e quello
di fraintendimenti nella percezione del soggetto che assiste al loro compimento,
senza che però simili pericoli vengano eliminati del tutto.
27
M. PAPA, “Contributo allo studio della Rules of Evidence statunitense”, in Indice Pen. 1987, pag. 335.
28
V. A. NAPPI, “Guida…”, cit., pag.271, con cui concordano A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova
‘per sentito dire’” op. cit., pag. 130.
29
G. DI PAOLO, “La testimonianza de relato nel processo penale. Un’indagine comparata”, Trento, 2002,
pag. 160.
18
Si è però criticata
30
una simile estensione, perché tende ad operare una netta
scissione tra gli aspetti oggettivi e soggettivi dell’atto comunicativo riferito che
è del tutto estranea alla norma dell’art. 195 c.p.p.; qui infatti si da per
logicamente presupposta la intenzionalità del procedimento comunicativo in
esame. Inoltre, l’utilizzo di una discriminante unicamente oggettiva per
delimitare il concetto di comunicazione porterebbe a difficoltà pratiche enormi,
perché, basandosi solo sulla aprioristica idoneità dell’atto a fungere da tramite
comunicativo, si renderebbe molto incerto l’ambito stesso di operatività della
disciplina della testimonianza indiretta (applicabile, a queste condizioni, a una
gamma enormemente ampia di comportamenti, strutturalmente molto diversi
tra loro).
Si è poi già accennato
31
che, oltre alla intenzionalità della funzione comunicativa
dell’atto riferito (necessaria, ma da sola non sufficiente a configurare una
testimonianza de relato), è anche necessario che il comportamento in esame
abbia una funzione informativa (ovvero descrittiva o dichiarativa). Infatti, si
nega
32
la configurabilità di una testimonianza de relato, e l’applicazione della
relativa disciplina, quando il comportamento riferito, benché abbia
evidentemente potenzialità e intento comunicativo, manchi di questa funzione
informativa, e ne abbia invece una esecutiva o operativa (come nel caso di
promesse, ordini, avvertimenti, esclamazioni o imprecazioni…).
A questa impostazione ha dimostrato di aderire anche la Cassazione: nella
fattispecie oggetto della pronuncia esaminata
33
, l’imputata (di traffico di
stupefacenti) aveva accolto nella sua abitazione gli ufficiali della polizia
giudiziaria, ritenendoli interessati all’acquisto di stupefacente. Davanti a questi
si era lamentata della pessima qualità di una partita di eroina, allo stesso tempo
mostrando agli agenti il pacchetto in cui era contenuta la droga, e, dopo aver
parlato con loro di contatti con alcuni fornitori, aveva preso con gli agenti un
appuntamento per il giorno successivo, per un assaggio di cocaina.
30
A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito dire’” op. cit., pag. 132.
31
V. supra pag. 12.
32
A. NAPPI, “Guida…”, cit., pag. 271, ripreso da A. BALSAMO e A. LO PIPARO, “La prova ‘per sentito
dire’” op. cit., pag. 133.
33
Cass. Sez. VI, 28 aprile 1997, Console, in Cass. Pen. 1998, 1628, pag. 3014, con nota di B. TROTTA,
“Sulle dichiarazioni rese dal venditore di stupefacenti all’agente provocatore”.