4
In sostanza dunque, la città contemporanea è un sistema sociale caratterizzato da
profonde ineguaglianze e da differenziazioni tra i soggetti che non possono essere
ricondotte a una sola variabile strutturale, ma dipendono da fattori che, innanzitutto,
sono essi stessi molteplici e che inoltre, possono combinarsi in un numero
elevatissimo di modi. (...) Al posto dell’ordinamento relativamente semplice delle
classi sociali della città fordista vi è oggi una moltitudine di situazioni eterogenee e
frammentarie, che non può certo dare luogo a grandi aggregati, accomunati da
esigenze o aspirazioni collettive analoghe a quelle degli operai-massa dei decenni
precedenti. (...) La città attuale, anche se non è più il luogo del conflitto strutturale tra
la classe dominante e quella subalterna, è comunque lo scenario in cui si sviluppano
incessantemente conflitti e alleanze, forme di solidarietà e iniziative per affermare
specifici diritti ed esigenze, pressioni politiche e mediazioni.2
Quanto vi è di affascinante in tali realtà a mio avviso risiede nel carattere autonomo e
svincolato dal panorama politico istituzionale.
“La testa indipendente” allude proprio alla peculiarità di questi soggetti sociali e
politici. Soggetti che compongono movimenti sociali più o meno radicati nel tessuto
urbano... Il fascino viene da qui... Da una testa indipendente che sbatte di continuo
contro il muro dell’indifferenza ma che nonostante tutto prosegue per la sua strada,
manifestando il proprio amore per la città3.
E’ un fascino ambiguo, fatto di aspetti positivi e negativi.
Questa “testa indipendente” infatti troppo spesso si personalizza, diventando unica e
non plurale; s’intestardisce, lasciando poco spazio alla differenza e ai possibili
contrasti. E’ una testa indipendente sì, ma non esente da difetti.
Il mio interesse viene da qui. Viene da esperienze che in parte ho vissuto e in parte
ho solo ascoltato, guardato, letto... Il mio interesse è tale da voler approfondire
sociologicamente un fenomeno che prima di tutto è fatto di persone, di luoghi e di
passioni. Il mio interesse è diventato argomento di tesi.
2
L. Davico, A. Mela, Le società urbane, Roma, Carocci Editore, 2005, pag.96
3
“ I movimenti sociali urbani sono espressione di amore per la città. (...) Il diritto alla vita urbana si sostanzia
nel diritto di usare la città come luogo di incontro, dove i meno favoriti <<fanno parte di ogni rete e circuito di
comunicazione, informazione e scambio>>. I movimenti urbani in questo senso, producono spazio; sono
prodotto dei gruppi in conflitto che costituiscono l’insieme dell’urbano, e attraverso l’azione rivelano il loro
amore per la città.” Riferimento ad H. Lefebvre in V. Ruggiero, “Movimenti nella città”, pag.38
5
2. TEORIE SUI MOVIMENTI SOCIALI
“I movimenti sono un segno.
Non sono solo il prodotto della crisi, gli ultimi effetti di una società che muore. Sono al contrario il
messaggio di ciò che sta nascendo. Essi indicano una trasformazione profonda nella logica e nei
processi che guidano le società complesse. Come i profeti, <<parlano avanti>>, annunciano ciò che si
sta formando senza che ancora ne sia chiara la direzione e lucida la coscienza.
I movimenti contemporanei sono profeti del presente.
Non hanno la forza degli apparati, ma la forza della parola. Parlano una lingua che sembra solo loro,
ma dicono qualcosa che li trascende e in questo modo parlano per tutti.”
A.Melucci
L’oggetto di questo lavoro si situa nell’ambito di una riflessione sociologica
sull’azione collettiva. In particolare è necessario prendere in considerazione alcune
tradizioni teoriche che si sono occupate di tale tema, per poi giungere a delineare
cosa s’intende per movimento sociale.
Si individua nella sociologia americana un’analisi dei movimenti che passa attraverso
gli studi del collective behavior, cioè di una serie di fenomeni che vanno dal panico
alle mode, dai comportamenti di folla fino ai movimenti rivoluzionari. Si tratta di
comprendere le mobilitazioni attraverso istanze di tipo psico-sociologico in termini di
“frustrazione sociale”.4 T. Gurr5 ad esempio, parla di frustrazione relativa per
designare uno stato di tensione, una soddisfazione attesa e rifiutata, capace di
generare un potenziale di malcontento e di violenza. La sua ipotesi nello specifico,
consiste nel vedere nell’intensità delle frustrazioni il carburante dei movimenti sociali.
Il superamento collettivo delle soglie di frustrazione è, a suo avviso, la chiave di ogni
grande movimento sociale.6
In altre parole, l’ipotesi psicosociale di frustrazione-aggressione fa riferimento ad una
frustrazione delle aspettative individuali e collettive che costituisce la base delle
forme di rivolta e dei movimenti sociali.
Tuttavia diverse sono state le critiche mosse a questo tipo di approccio, poichè i
meccanismi di frustrazione-aggressione risultano essere eccessivamente
semplificatori nella spiegazione dell’azione collettiva.
4
E. Neveu , I movimenti sociali, Bologna, Il Mulino, 2001, pag.55
5
Ted Gurr sviluppa nel 1970 con il libro “Why men rebel” un quadro analitico che sarà uno dei manifesti più
elaborati delle ricerche di collective behaviour ; in esso discute del concetto di frustrazione relativa.
6
E. Neveu, 2001, op.cit. pag. 61
6
In Della Porta, Diani7 possiamo leggere: “Riducendo i fenomeni collettivi alla
sommatoria di comportamenti individuali, teorie di derivazione psicologica definivano
i movimenti sociali come manifestazione irriflessa dei sentimenti di privazione,
sperimentati dagli attori nei confronti di altri soggetti sociali, e dei sentimenti di
aggressione derivanti dalla frustrazione di aspettative diffuse. (...) L’ipotesi che a
situazioni di frustrazione, sradicamento, privazione e crisi sociale seguano
automaticamente delle rivolte, riduce queste ultime ad aggregazioni di
comportamenti individuali. Questa prospettiva ignora inoltre l’importanza delle
dinamiche attraverso le quali sentimenti sperimentati a livello individuale (micro)
danno vita a fenomeni (macro) come i movimenti sociali o le rivoluzioni.”
Un’ ulteriore critica mossa all’approccio del collective behaviour riguarda l’incapacità
di riconoscere l’importanza della dimensione strategica dell’azione collettiva per
focalizzarsi maggiormente sulle dinamiche impreviste, e la limitatezza della
descrizione della realtà senza dedicare grande attenzione alle fonti strutturali dei
conflitti che compongono i movimenti. 8
A questa corrente se ne affiancano altre, come il filone conservatore europeo che
alla fine del XIX sec si occupa della folla. Sono le analisi di Le Bon a proporre
un’immagine irrazionale e caotica delle folle, nelle quali le capacità individuali e la
razionalità vengono schiacciate dalla suggestione collettiva. Le Bon in particolare
analizzò il comportamento delle masse utilizzando i concetti di contagio e
suggestione per spiegare i meccanismi della folla che portano all'emergere
dell'emotività, dell'istintualità e dell'inconscio altrimenti repressi negli individui dal
controllo sociale ordinario. Nella sua teoria, che sarà ripresa da Tarde, da Freud e
altri, il nocciolo della questione rimane l’ influenza sociale della folla come
esaltazione ed esplosione dell'inconscio e dell'irrazionalità.9
Questa teoria, intesa in termini negativi poichè attribuisce alla folla un’egemonia tale
da tenere soggiogati gli individui influenzandoli, dunque ritiene le folle facilmente
manipolabili e suggestionabili da minoranze di agitatori in grado anche di incitare gli
individui alla violenza.
7
D.Della Porta, M.Diani, I movimenti sociali, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, pag. 17
8
Ivi, pag. 20
9
http://biografie.studenti.it/biografia.htm?BioID=1751&biografia=Gustave+Le+Bon . Nato a Nogent-le-Rotrou
il 7 maggio 1841, lo psicologo sociale e sociologo Gustave Le Bon è noto particolarmente per la sua opera "La
psicologia delle folle" nella quale indaga il comportamento delle masse.
7
Grazie alla scuola di Chicago invece, negli anni ’20, si avviano una serie di ricerche
all’interno delle quali Robert Park opera una riflessione sul comportamento collettivo.
Egli non lo intende come una realtà patologica ma come una componente
fondamentale del normale funzionamento della società, oltre che un fattore decisivo
per il mutamento.
Dunque il comportamento collettivo rappresenta una situazione non strutturata cioè
non pienamente controllata dalle norme che reggono l’ordine sociale. Ma proprio per
questo è considerato importante, poiché rappresenta un fattore di trasformazione ed
è in grado di creare nuove norme. 10
Parsons, con l’approccio funzionalista nelle sue analisi non distingue tra
comportamenti devianti (come la criminalità) e azioni conflittuali (come una protesta
politica o un movimento rivoluzionario); riconduce le condotte collettive a una
situazione di squilibrio e di scarsa funzionalità dei processi di integrazione del
sistema sociale.11
Nelle analisi di Smelser invece, il comportamento collettivo è “una mobilitazione sulla
base di una credenza che ridefinisce l’azione sociale”.12 Esso è la risposta ad una
tensione, ad un fattore di disturbo, che deve essere ristrutturata eliminando
l’incertezza. Ciò avviene attraverso una credenza generalizzata, che viene definita
come un corto-circuito quasi magico che vede la soluzione in un nesso istantaneo tra
le componenti dell’azione e il livello specifico sottoposto a tensione, e che tende a
ristabilire l’equilibrio.13
Tuttavia, come sottolinea Melucci, il comportamento collettivo resta uno strumento
descrittivo che serve a classificare condotte empiriche diverse, che hanno in comune
il generico connotato di “collettive”. Esso infatti non fornisce spiegazioni in merito all’
emergere di condotte conflittuali che non siano esclusivamente risposte adattive a
disfunzioni normative nel sistema sociale. “In questa logica, come nell’analisi di
Smelser, non c’è spazio per una capacità conflittuale che nasca dall’interno del
10
A. Melucci, Sistema politico, partiti e movimenti sociali, Milano, Feltrinelli, 1982, pag. 88
11
Ivi, pag. 89
12
N. J. Smelser, citazione in A. Melucci , 1982, op.cit. pag.90
13
A. Melucci, 1982, op.cit. pag. 91
8
sistema, per un movimento sociale che non sia la pura risposta adattiva alle
disfunzioni del sistema.”14
Ulteriori approcci poi si susseguono negli anni; fra questi quello del Resource
Management o teoria della Mobilitazione delle Risorse, che fa riferimento all’azione
sociale come creazione, consumo, scambio, trasferimento o riallocazione di risorse
tra i gruppi e i settori di una società. In tale analisi, i conflitti collettivi sono forme di
lotta per il controllo delle risorse e la mobilitazione è un modo per raccogliere e
investire risorse in vista di certi fini. 15
Tale teoria si sviluppa in un contesto politico particolarmente caratterizzante: sono gli
anni settanta, in cui si susseguono agitazioni nei campus, movimento dei neri,
mobilitazioni femministe ed ecologiste.
Questo modello tenta di dare risposte a come comincia, come si sviluppa, riesce o
fallisce la mobilitazione, e non solo al perchè i gruppi si mobilitano (collective
behaviour).16 L’attenzione è prestata all’organizzazione come elemento che struttura
il gruppo e che raccoglie le risorse necessarie alla mobilitazione. Si scorgono
analogie e parentele con alcuni concetti economici, nel caso delle risorse, e con le
caratteristiche dell’impresa, nel caso dell’organizzazione. E’ così che Mc Carthy e
Zald sviluppano una forma di teoria economica dell’azienda e del mercato applicata
alle organizzazioni dei movimenti sociali.
La mobilitazione delle risorse si presenta alla fine degli anni settanta come quadro
teorico di riferimento, destinato a rimanere tale a lungo. Ragione di tanto successo è
da attribuirsi alla possibilità che fornisce di superare le ambiguità del concetto di
frustrazione, nonchè di uscire dal cosiddetto ‘atomismo psicologico’ del collective
behaviour.17
Tra le innovazioni più importanti di questo approccio ritroviamo la definizione dei
movimenti sociali come attori coscienti che applicano criteri di scelta razionali.18
14
A. Melucci, 1982, op.cit. pag. 93
15
Ibidem
16
E. Neveu, 2001, op.cit. pag.74
17
Ivi, pag.87
18
D. Della Porta, M. Diani, 1997, op.cit. pag. 22
9
Tuttavia diverse questioni rimangono irrisolte: “come non notare lo scarso interesse
accordato da questi lavori alle ideologie, al vissuto delle persone mobilitate?”19
Giungiamo infine al concetto di Nuovi Movimenti Sociali, che identifica nuove forme e
tipi originali di mobilitazione degli anni sessanta e settanta, ma al contempo si
caratterizza in quanto teoria sollecitando una serie di contributi che guardano alle
singolarità di queste mobilitazioni per cercare di rinnovare l’analisi intorno ai
movimenti sociali. Come già sottolineato, la tematica dei Nuovi Movimenti Sociali
(NMS) è inseparabile dalle contestazioni che si sviluppano alla fine degli anni
sessanta. Melucci, in particolare, pone l’accento su nuove forme di mobilitazione
come il femminismo, l’ecologia, il consumerismo, i movimenti regionalisti e
studenteschi, la controcultura giovanile, i movimenti anti-istituzionali, le lotte operaie
che mettono in azione immigrati e giovani operai.20
Tuttavia successivamente sempre Melucci (1991)rimetterà in discussione il concetto
di NMS, chiedendosi cosa vi sia di nuovo in essi e giungendo a definire come nei
movimenti contemporanei si combinino forme d’azione che riguardano diversi livelli
della struttura sociale; che implicano diversi orientamenti; che appartengono a fasi
storiche diverse21.
I nuovi movimenti sociali si interessano a ciò che è definibile ‘grammatica delle
forme di vita’, e si impegnano in conflitti intorno alla qualità dell’esistenza,
all’eguaglianza, alla realizzazione individuale, alla partecipazione e ai diritti.22
Dunque si tratta di rivolgere l’attenzione non più all’organizzazione o alla
mobilitazione di risorse, che peraltro riduceva e limitava di molto l’analisi delle
condizioni della mobilitazione e la sua comprensione, bensì di prendere in
considerazione quell’insieme complesso di istanze ed esigenze di giustizia e
convinzione di questi movimenti. Viene quindi riabilitata un’analisi delle dimensioni
culturali ed ideologiche della mobilitazione e del suo contesto politico.
19
E. Neveu, 2001, op.cit. pag. 88
20
Ivi, pag. 89
21
A. Melucci, L’invenzione del presente. Movimenti sociali nelle società complesse, Bologna, Il Mulino, 1991,
pag. 10
22
V. Ruggiero, Movimenti nella città, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pag.60
10
Nel contributo di Ruggiero, possiamo leggere23 : “ Gran parte dell’analisi dei nuovi
movimenti sociali attribuisce loro una limitata attenzione per la distribuzione di risorse
e, in generale, per la sfera economica. I nuovi movimenti, si suggerisce, sono più
interessati alla produzione di azione simbolica e di conflitto culturale di quanto non
siano alla riproduzione materiale. (...) Riassumendo, in risposta ai teorici della
Mobilitazione di risorse, i teorici dei Nuovi Movimenti colgono gli aspetti post
materialisti dell’azione collettiva, i suoi elementi simbolici e autoriflessivi, e la
consapevolezza dell’interdipendenza tra i soggetti che l’azione medesima esprime.”
Possono essere individuate alcune dimensioni di rottura con i vecchi movimenti,
simbolizzati dal sindacalismo e dal movimento operaio; queste riguardano le forme
d’organizzazione e i repertori d’azione: i NMS presentano una certa diffidenza e
resistenza nei confronti dei meccanismi di delega dell’autorità ad organismi maggiori
e ai fenomeni di centralizzazione, puntando invece sulla sovranità dell’assemblea
generale. Inoltre si distinguono per la creatività nella messa in scena di nuove forme
di protesta poco istituzionalizzate come sit in, occupazioni, scioperi della fame ecc.
Ancora, si notano punti di rottura rispetto ai valori e alle rivendicazioni: se i movimenti
sociali classici puntavano soprattutto alla ridistribuzione delle ricchezze e all’accesso
ai centri decisionali, i NMS invece mettono l’accento sulla resistenza al controllo
sociale e sull’autonomia. Spesso queste rivendicazioni non sono negoziabili e
implicano una forte dimensione espressiva, d’affermazioni di stili di vita o di identità.
Una ulteriore differenza è rintracciabile nel rapporto con il politico, per cui non si
tratta più tanto di sfidare lo stato o impadronirsene, quanto piuttosto di costruire
contro di esso degli spazi di autonomia e forme di socialità private in
contrapposizione con la sua egemonia.
In ultima istanza, la novità riguarda l’identità dei loro attori, che non si definiscono più
in termini di classi o categorie socio-professionali, ma rimandano ad altri principi
d’identità.24
Naturalmente anche questa corrente di ricerca ha le sue debolezze: ad esempio non
risolve il problema dell’analisi dei meccanismi che portano dai conflitti all’azione.
23
Ibidem
24
E. Neveu, 2001, op.cit. pag. 89