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INTRODUZIONE
Gli studi di carattere antropologico, soprattutto nel corso degli ultimi anni, hanno fatto
dell’emarginazione l’assunto principale, il paradigma su cui strutturare ricerche sul campo ed una
produzione letteraria sempre più vasta. La stessa ricerca afferente a questa tesi “s’incarna”, predicato
ideale trattando di corpi, nella marginalità o almeno in una delle condizioni di marginalità più
evidenti, un amaro paradosso per l’invisibilità sociale che essa produce, ovvero quella generata dalla
disabilità, sia essa fisica o intellettiva. Questa tesi costituisce il tentativo di realizzare una ricerca
antropologica che si muova sia su una prospettiva sincronica che diacronica, bisogna infatti tener
presente che il concetto di disabilità è nato con i sapiens, e non perché gli animali siano esenti da tale
status, semplicemente poiché essi non ne hanno contezza; il riferimento va evidentemente agli
aspetti culturali e sociali di questa condizione umana. Saranno infatti i sapiens, nel corso della propria
evoluzione, che attribuiranno alla disabilità una cornice fondamentalmente negativa, fino a
produrre una tassonomia della diversità con l’intento di collocarla in uno spazio ai margini della
società, di confinarla in un modo o nell’altro in un altrove asettico, in luoghi ove non potesse
perturbare, ove non potesse contaminare l’aspirazione alla “perfezione”, consegnata infine ad una
irreversibile «liminalità»
1
:
Al fondo della scala stanno le persone con il viso deturpato o con il corpo gravemente deforme,
quelle sulla sedia a rotelle stanno da qualche parte nel mezzo. Il criterio principale per il
posizionamento sembra essere il grado di distanziamento dalla forma umana tipica [R.F.
Murphy, Il silenzio del corpo, Ed. Erikson, Trento 2022, p.153]
Anche negli ultimi decenni, nonostante gli sforzi prodotti da associazioni di categoria, nonché dalle
sempre più diffuse biografie di modelli esemplari, si è assistito ad un colpevole ritardo sia delle
politiche sociali che di una produzione scientifica troppo spesso limitata agli addetti ai lavori, con
evidenti ricadute negative in ambito sociale e culturale. Fa riflettere il fatto che i primi studi sulla
disabilità, i Disability Studies
2
, apparvero nel côté delle scienze sociali solo negli anni Ottanta e
principalmente nel mondo anglosassone, e che solo dieci anni dopo fu attivato il primo programma
di studi sulla disabilità in un’università, per giunta privata e con pochi corsi e scarsi programmi.
Inoltre, solo nel 1997 fu pubblicata una delle prime raccolte di articoli accademici relativi agli studi
________________________________
1
Concetto introdotto dall’antropologo Arnold Van Gennep nel 1909 con “I riti di passaggio”
2
Nel 1986, la sezione per lo studio delle malattie croniche, dell'invalidità e della disabilità della Social Science Association, Stati Uniti,
è stata ribattezzata Society for Disability Studies
8
sulla disabilità, all’interno della quale Lennard J. Davis, docente universitario di fama
nazionale e internazionale in studi sulla disabilità, il cui dottorato di ricerca fu curato da Edward
Said, scrisse in questa prima edizione che: «era stato praticamente impossibile avere qualcuno che
insegnasse sulla disabilità nelle discipline umanistiche»
3
; mentre nella seconda edizione, dieci anni
dopo, scrisse che: «tutto è cambiato, [ma] solo perché gli studi sulla disabilità sono sulla mappa, non
significa che siano facili da trovare»
4
. Negli anni che seguirono furono attivati sempre più corsi con
molte lauree in studi sulla disabilità, ma sempre limitati all’area anglosassone, dove emerse con
forza la necessità di lavorare per destigmatizzare la malattia e la menomazione, comprese quelle
“diversità” che non potevano e non possono essere misurate o spiegate dalle sole scienze biologiche.
E dunque, risultava e risulta fondamentale sfidare la visione della disabilità intesa come un deficit o
un difetto individuale, sfidare la convinzione che ad essa si potesse e si può porre rimedio
esclusivamente attraverso l'intervento medico o la riabilitazione da parte di “esperti”. Per tali
ragioni, uno dei principali obiettivi dei Disability Studies fu quello di creare un programma di studi
che esplorasse modelli e teorie in grado di esaminare i fattori sociali, politici, culturali ed economici,
al fine di definire il concetto di disabilità ed aiutare a determinare le risposte personali e collettive
alla differenza. Studiarne le prospettive, le politiche sociali, la letteratura, la cultura, nonché la storia
nazionale e internazionale, con l'obiettivo di collocare le idee attuali sulla disabilità in un contesto il
più ampio possibile, in virtù anche di atteggiamenti diversi nei tempi e nei luoghi nei confronti della
stessa. Tutto ciò assume un ruolo ancor più importante in considerazione dei numeri che
accompagnano la disabilità nel mondo: oltre un miliardo di persone, questo il dato restituito
dall’OMS, con almeno un quinto di essi che è costretto ad affrontare difficoltà «molto significative»
nella vita di tutti i giorni. Proprio a fronte di tale impressionante dato Matteo Schianchi, docente di
pedagogia speciale e scrittore, per evidenziarne la vastità, ha definito la disabilità con la perifrasi:
«La terza nazione del mondo»
5
. Con questa attribuzione di statualità, Matteo Schianchi non
intendeva certo affermare la presenza di un’entità precisa, con identità e culture specifiche, che fosse
fissata a priori; tale definizione rappresenta infatti una mera espressione numerica che vuole però
invitare a riflettere sulla rilevanza dell’impatto e della presenza della disabilità nelle nostre società,
pur nella pluralità ed eterogeneità del fenomeno. E non solo perché numerose sono le forme di
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3
L.J. Davis, The Disability studies reader, New York: Routledge 1997
4
L.J. Davis, The Disability studies reader, (2a ed.), New York: Routledge 2006
5
M. Schianchi, La terza nazione del mondo - i disabili tra pregiudizio e realtà, Feltrinelli 2009
9
menomazione, ma soprattutto perché numerose sono le dimensioni individuali e collettive,
ovvero sociali, culturali, politiche, psicologiche della disabilità, le quali coinvolgono sia la platea dei
diretti interessati, sia quella dei “normodotati”. Numeri enormi che se confinati in un algido spazio
statistico non sono in grado di restituire appieno il significato e la portata di questo fenomeno, la
quotidianità di queste esistenze, le difficoltà di accesso a spazi e risorse che dovrebbero essere
garantiti a tutti. Insomma, non possono essere le sole scienze biologiche o statistiche ad occuparsi
della disabilità, ma se ne devono occupare anche e soprattutto le scienze sociali, le quali devono farsi
carico di raccogliere e restituire esperienze, limiti, sconfitte, disagi ma anche obiettivi, desideri e
successi di un’alterità così ampia e diffusa, spesso percepita come remota, quasi impalpabile. Eppure
senza nemmeno “percepirla”, la disabilità fa inevitabilmente irruzione nella quotidianità, e non solo
attraverso gli individui che la vivono direttamente, ma anche attraverso coloro che la condividono
indirettamente. La disabilità costituisce una condizione che altera gli equilibri mentali,
nell’accezione freudiana essa rappresenta infatti il perturbante imprevisto:
quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da tempo, a ciò che ci è familiare […] a
molti uomini appare perturbante in sommo grado ciò che ha rapporto con la morte […] il nostro
inconscio si rifiuta di accogliere l’idea della propria mortalità […] L’effetto perturbante del mal
caduco, della pazzia ha la stessa origine. Il profano vede qui la manifestazione di forze che non
aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di percepire oscuramente il
moto in angoli remoti della propria personalità […] membra staccate dal corpo, una testa
mozzata, una mano recisa dal braccio […] hanno in sé qualcosa di perturbante [S. Freud, Il
perturbante, Theoria, Roma-Napoli 1993, p.14]
La disabilità è la pietra d’inciampo che si preferirebbe non “calpestare”, al punto che spesso si ritiene
preferibile la morte, evento che è culturalmente accettato, poiché pur nel dolore che essa genera,
risulta comunque essere definita e definitiva. La morte infatti nella sua postliminalità consegna
l’individuo al suo naturale destino e la comunità al superamento della crisi, mentre la disabilità si
situa nell’alveo dell’indefinito, di un’inaccettabile quanto inintelligibile “liminalità” che costringe
l’individuo ad una “innaturale” esistenza e la comunità ad una sofferta convivenza, ad
un’accettazione spesso forzata. Tutto ciò risulta essere un problema decisamente culturale, un
assunto sociale che può essere scalzato solo affrontando la disabilità da ogni angolazione possibile,
trattandola come qualsiasi altro argomento che faccia parte della nostra esistenza, restituendola
etnograficamente come fece l’antropologo Robert Murphy attraverso la toccante quanto lucida
monografia Il silenzio del corpo:
Dire che sarebbe meglio morire piuttosto che essere disabile non è che l’ultimo insulto a chi ha
problemi fisici, perché mette in questione il valore della loro vita e il loro diritto a esistere. Ma
continueremo a esistere, perché se tutti gli altri valori sono arbitrari e relativi alla cultura, il solo
valore trascendente è la vita stessa. La vita è a un tempo il suo mezzo e il suo fine, un dono che
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non deve essere rifiutato o negato, tranne forse ai suoi limiti estremi. La vita è meno uno stato
che un processo, una rappresentazione teatrale con un epilogo inevitabile, perché ogni cosa è
votata alla sua dissoluzione. Ma l’essenza di una vita vissuta pienamente è la negazione della
negatività, dell’inerzia e della morte. La vita è una liturgia che deve essere continuamente
celebrata e rinnovata, è una ricorrenza il cui sacramento è consumato nell’uscita del paralitico
dalla sua prigione di carne e ossa e nella sua affermazione dell’autonomia [R.F. Murphy, Il
silenzio del corpo, Ed. Erikson, Trento 2022, p.297]
Questo testo è considerato fondativo di un approccio antropologico ai temi della disabilità, Robert
Murphy si fece infatti antropologo di se stesso, osservatore e soggetto direttamente coinvolto,
etnografo del mondo che lo circondava dal momento in cui gli venne diagnosticato un tumore ad
alto effetto disabilitante, il quale lo avrebbe condotto alla paraplegia prima, alla tetraplegia poi, ed
infine alla morte:
La crescita massima del tumore, il mio neurologo mi aveva informato, era al culmine della sezione
toracica della colonna vertebrale, più o meno tra le scapole. «Interessante», esclamai, «è
esattamente dove i Munduruku credono sia collocata l’anima!» [R.F. Murphy, Il silenzio del
corpo, Ed. Erikson, Trento 2022, p.65]
Robert Murphy si trovò ad attraversare, suo malgrado, tutti gli stadi della disabilità motoria, dalla
“zoppia” iniziale fino alla tetraparesi, condizioni delle quali coglie, descrive e restituisce ogni aspetto
in modo puntuale, ogni dettaglio sia personale che sociale, elementi che lo spingono a definire lo
status di persona disabile attraverso quattro mutamenti sostanziali: l’autostima ridotta, l’invasione
e occupazione del pensiero da parte del deficit fisico, una forte sensazione di rabbia che l’autore
divide in esistenziale e situazionale, e l’acquisizione di una nuova quanto indesiderabile identità. È
proprio nelle pagine di questa auto-etnografia che emerge il paradigma della «liminalità» applicato
alla condizione di disabilità:
I disabili rappresentano l’umanità ridotta all’essenziale, cosa che li rende soggetti meravigliosi
per la ricerca antropologica […] Come gli indiani di Lévi-Strauss, le persone disabili sono
«marginali», e lo studio della loro posizione precaria ai margini della società ci dirà molto sul
complesso della vita sociale [R.F. Murphy, Il silenzio del corpo, Ed. Erikson, Trento 2022, p.35]
Robert Murphy non accettò di ricorrere ai soli concetti di oppressione, esclusione e sfruttamento per
affrontare la disabilità come tradizionale questione sociale. Certamente non negò simili assunti, ma
li ritenne parziali ed impropri poiché inadatti a misurarsi con la specificità antropologica della
disabilità. Pose dunque la disabilità come condizione di «liminalità», la persona disabile è infatti
situata in una zona intermedia, di confine, è su un crinale, ha abbandonato lo statuto di “normale”,
ma non è alieno al mondo, non è perfettamente sano, ma non è neanche un malato, non è morto, ma
non fa pienamente parte del mondo dei vivi, non è pienamente umano, ma non è neanche un
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animale, non è completamente rifiutato, ma non è neanche pienamente accettato. Queste
qualità producono, secondo Robert Murphy: «un distacco esistenziale dalla normalità [che]
contribuisce alla diffusa avversione per i disabili riportata dai ricercatori»
6
. Come scrisse
l’antropologa Mary Douglas, la realtà convenzionale è messa in forma dal simbolismo culturale in
categorie ordinate, e dunque come il maiale costituisce un tabù ebraico per la sua anomalia, esso
infatti non rispetta la norma la quale vuole che un animale con gli zoccoli divisi sia ruminante, così
la stessa mancanza di chiarezza colpisce colui il quale è permanentemente disabile, condizione che
lo fa ricadere nella categoria del “contaminato”. A partire da tale condizione antropologica di
liminalità, Robert Murphy scrisse che la persona disabile deve dunque tenere una postura davvero
difficile, ovvero cercare di essere come gli altri ed introdursi nel loro mondo “normale”, ma nello
stesso tempo deve restare al suo posto, continuare a essere un “non normale” distinto dai normali,
un rapporto convenzionale prescritto che è sottolineato dalle parole di Pier Paolo Pasolini:
Fin che il «diverso» vive la sua «diversità» in silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli viene
assegnato, tutto va bene: e tutti si sentono gratificati della tolleranza che gli concedono. Ma se
appena egli dice una parola sulla propria esperienza di «diverso», oppure, semplicemente, osa
pronunciare delle parole «tinte» dal sentimento della sua esperienza di «diverso» si scatena il
linciaggio, come nei più tenebrosi tempi clerico-fascisti. Lo scherno più volgare, il lazzo più
goliardico, l’incomprensione più feroce lo gettano nella degradazione e nelle vergogna [P.P.
Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano 2010, p.38]
Robert Murphy, al fine di spiegare questo status, ricorre all’antropologo Victor Turner il quale scrive
che le persone durante il loro cambiamento rituale di stato: «sono al contempo “non più classificate”
e “non ancora classificate”»
7
; tale mancanza di classificazione produce incertezza sul
comportamento da tenere con essi, ovvero la stessa difficoltà che insorge quando si deve interagire
con le persone disabili. Robert Murphy scrive infatti che: «Questa indeterminatezza può essere
risolta dalla segregazione o dall’evitamento di tali persone in stato liminale, che diventano
“ritualmente inquinate” (M. Douglas, Purezza e pericolo, Il Mulino, Bologna 2003)»
8
. Un’altra
dimensione che Robert Murphy mette in evidenza è quello di essere disembodied
9
, termine che risulta
centrale nel testo, ovvero un’estraniazione dal proprio corpo, uno stato che vive soprattutto colui
che “incontra” la disabilità nel corso della propria esistenza. Essere disembodied, oppositivo
_____________________________
6
R. Murphy, Il silenzio del corpo, Ed. Erikson, Trento 2022, p.183
7
V. Turner, La foresta dei simboli: aspetti del rituale ndembu, Morcelliana, Brescia 2001, p.96
8
R. Murphy, Il silenzio del corpo, Ed. Erikson, Trento 2022, p.185
9
Trad.: «Disincarnato», tratto da O. Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano
12
semantico di embodiment
10
, racconta di un corpo che diventa altro dal vecchio sé, una nuova
condizione che costringe a chiedersi se è possibile riadattarsi al vecchio ambiente, il quale invece è
rimasto immutato. L’individuo che ad un certo punto della propria esistenza si scopre disabile, vive
lo stesso sconcerto e la stessa angoscia di Gregor Samsa, una “metamorfosi” che al pari del
personaggio kafkiano costringe a chiedersi: «Che cosa mi è capitato?». Un interrogativo che
denuncia una sensazione di smarrimento, accade infatti che nel perdere una parte o una funzione
del proprio corpo, la persona che si ritrovi nella disabilità perda anche la capacità di riconoscersi, di
riconoscere una domesticità che gli apparteneva, ma anche il rischio di non essere riconosciuto da
coloro che lo circondano. La persona disabile, a differenza del vecchio pastore di Marcellinara
restituito da Ernesto de Martino, non può correre verso il campanile per ritrovarsi e placare così la
propria angoscia, deve invece ricostruire un nuovo campanile, un nuovo axis mundi per mezzo del
quale egli possa ri-centrarsi, e dunque ricollocarsi perché possa ancora esserci-nel-mondo, poiché la
disabilità non è solo una questione di natura fisica, ma è soprattutto una questione di carattere
ontologico. Nella filosofia fenomenologica di Edmund Husserl l’unità di mente e corpo costituisce
un assioma fondamentale, una relazione diadica che consente di conoscere il mondo. Anche la
filosofa francese Simone de Beauvoir afferma che il corpo non costituisce una “cosa” separata dalla
mente e dal resto del mondo in cui è situato; il filosofo Maurice Merlau-Ponty va oltre e nella
Fenomenologia della percezione afferma come il corpo rappresenti il punto di partenza della nostra
apprensione e costruzione del mondo, un insieme di relazioni che integrano il mondo esterno e la
mente in sistema. Merlau-Ponty utilizzando in modo paradigmatico la sindrome dell’arto fantasma
scrive:
Quello che in noi rifiuta la mutilazione e la deficienza è un Io impegnato in un certo mondo fisico
e interumano, che continua a protendersi verso il suo mondo nonostante le deficienze o le
amputazioni, e che, in questa misura, non le riconosce de iure (apertamente e razionalmente) [M.
Merlau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani 2003, p.81]
Dunque emerge come la persona amputata abbia “perso” molto più che un arto, questi: «ha perso
uno dei suoi collegamenti concettuali con il mondo, un’àncora per la sua esistenza»
11
. Diversamente
i soggetti paraplegici o tetraplegici subiscono una disattivazione dei gesti e delle posture, parziale
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10
Trad.: «Incorporazione». Teoria antropologica che punta a superare la visione dicotomica natura/cultura in virtù del fatto che le
esperienze sono animate, materializzate e situate nel mondo attraverso il corpo.
11
R.F. Murphy, Il silenzio del corpo, Ed. Erikson, Trento 2022, p.146