5
Introduzione
Cartagine fu distrutta nella primavera del 146 a.C., alla fine di un
assedio durato quattro anni. Né scontri navali, né battaglie in campo
aperto: la terza guerra punica si risolse in un reiterato, faticoso
tentativo di isolare la metropoli, guidato da quattro consoli inviati da
Roma ad infrangere le antiche e solide mura che difendevano ancora
i concittadini di Annibale.
Per spiegare le ragioni di una decisione così drastica, la
responsabilità unilaterale dell’iniziativa militare e la prospettiva
pressoché parziale degli autori che ne parlano impongono un esame
dall’interno della città che si rese scientemente responsabile di
questa distruzione e, dunque, un quesito più aderente alla storia
politica della Repubblica: quali personalità e quali fazioni, a Roma, a
metà del II secolo a.C., individuavano un vantaggio nella distruzione
della metropoli punica?
Per comprendere gli interessi messi in campo dall’ultimo scontro
con Cartagine, l’unica ottica possibile è quella che si avvii dalle
circostanze che indussero il Senato alla dichiarazione di guerra.
Analizzarle significa condurre un esame diacronico dei vincoli
diplomatici intercorsi fra Roma e Cartagine, durante gli anni che
divisero il successivo dal conflitto vinto dall’Africano Maggiore,
senza trascurare il ruolo recitato da Massinissa, sovrano dell’altro
6
grande stato in grado di contendere alla città punica il controllo
dell’Africa centro-settentrionale. E significa anche osservare,
parallelamente, la sincronia degli eventi che condizionarono la
politica estera di Roma intorno al 150 a.C., con una peculiare
considerazione degli scontri in Spagna contemporanei all’acceso
dibattito che in Senato precedette la votazione a favore dell’azione
militare. Inserito nella prospettiva più ampia dei conflitti simultanei,
quello punico si palesa non semplicemente come uno dei diversi
fronti su cui Roma impegnò le sue legioni nella ininterrotta guerra
per il dominio del Mediterraneo, ma piuttosto come una naturale
estroflessione delle dinamiche interne al suo nucleo dirigente,
intimamente connesse proprio a quella politica estera sempre più
spregiudicata, aggressiva ed autocratica. Le cause più profonde della
terza guerra punica possono chiarirsi, perciò, solo alla luce delle
potenzialità politiche ed economiche che, nel quadro più ampio della
rapida espansione della prima metà del secondo II a.C., la vittoria
schiudeva alla rinnovata società romana. Quadro in cui assumono
un valore significativo le relazioni e le analogie evidenti col conflitto
che segnò il tracollo dell’altra rivale storica di Roma che, solo dopo
l’ultimo scontro con la monarchia macedone, raggiunse quella
dimensione di supremazia internazionale che le avrebbe permesso di
arrogarsi il diritto di decidere della sorte di Cartagine.
La terza guerra punica si protrasse per meno di un quinto della
prima (264-241 a.C.) e per neppure un quarto della seconda (218-
201 a.C.), suscitando minore interesse da parte degli storici antichi.
Di quelli sottrattisi al buio dei secoli, solo Appiano vi si sofferma con
maggior cura, descrivendo le circostanze in cui Cartagine vi giunse.
Per penetrare lo stato della città alla vigilia del conflitto, non si può
trascurare, quindi, quello che lo scavo stratigrafico ha permesso di
rintracciare e ricostruire sulla collina di Byrsa e, soprattutto,
7
nell’antico porto, cuore della vita economica della metropoli
marinara e suo centro di irradiazione verso l’esterno, dove,
emblematicamente, ebbe inizio la sua distruzione. Gli esiti delle
ricerche archeologiche permettono di intuire le condizioni di
Cartagine nella tarda epoca punica e di provare a comprendere,
laddove le fonti letterarie non siano sufficienti, se la sua tradizionale
rivalità nei confronti di Roma fosse allora puramente nominale e
pretestuosa, o rispecchiasse invece una minaccia così grave da
imporre al Senato un’azione estrema.
Quasi tutta la tradizione della terza guerra punica risale a Polibio,
che probabilmente si accorse dell’importanza che la distruzione di
Cartagine acquisiva nel panorama politico della Repubblica, se
decise di estendere il progetto iniziale dell’opera finalizzata ad
analizzarne l’evoluzione storica, anche nell’intento di narrare quella
catastrofe, di cui era stato diretto testimone. Polibio modificò il
piano, ma non la filosofia alla base delle Storie: pertanto, un estremo
punto di osservazione, singolare ma complementare, sui moventi e i
motori della tragedia punica, può essere suggerito da un’analisi degli
elementi di discontinuità tra la metamorfosi biologica prefigurata, e
la res publica descritta dallo storico, a ridosso degli anni in cui il
Senato approvò la distruzione di Cartagine.
Questo avvicendarsi ed intrecciarsi di punti di vista trova una
sintesi per nulla casuale in Scipione Emiliano: amico di Polibio,
nipote predestinato dell’Africano che aveva sconfitto Annibale e
dettato le condizioni della pace del 201 a.C., promotore e
protagonista della guerra in Spagna, fedele al patronato che lo legava
a Massinissa e ai suoi successori, formatosi alla politica negli anni in
cui la società e i valori repubblicani subivano la rapida metamorfosi
accelerata dalla vittoria di Pidna conseguita dal padre, Scipione
guidò le legioni che penetrarono le mura e distrussero una delle
8
metropoli più potenti che avessero solcato la storia del
Mediterraneo. Raccontando il successo che ne segnò la carriera e
l’abilità politica e militare con cui lo raggiunse, si apre e si chiude la
mia opera.
9
I
Il successo di Scipione:
ambizione e tradizione
Primavera del 146 a.C.
Publio Cornelio Scipione Emiliano aveva trentasette anni ed era
già proconsole, quando, tra marzo e aprile (α ρχομένου δ’ η ρος)
1
del
146 a.C., ordinò l’assalto definitivo a Cartagine, partendo dal
terrapieno davanti al porto, conquistato e fortificato da mesi. La
notte precedente Asdrubale, l’unico generale al comando della città,
2
pensando che Scipione attaccasse soltanto il porto commerciale,
aveva incendiato i bastimenti e le darsene lignee del bacino
quadrangolare del Cóthon,
3
concentrando non lontano il grosso della
1
Appiano, Libyké, 127.
2
Tutti gli organi costituzionali della repubblica punica erano stati sovrastati e calpestati
dall’autorità di Asdrubale che, forte del controllo dell’esercito e del sostegno popolare, dal 148
a.C. governava Cartagine col dispotismo di un tiranno (Appiano, Libyké,111). Il rapido
consolidarsi del suo potere gli aveva permesso, approfittando dei momenti di maggior crisi, di
sbarazzarsi, tacciandoli di tradimento, dei più tenaci oppositori del suo regime (Appiano,
Libyké,118).
3
L’imponente struttura portuale di Cartagine, che si articolava in due bacini all’interno delle
mura: uno a forma di quadrilatero (il porto mercantile), l’altro di forma circolare (il porto
militare).
10
sua armata
4
. Riparato da una testuggine difesa da lastre di pietra,
l’Emiliano guidò la carica ad una delle porte che si aprivano sul
muro a protezione dell’emporio
5
. Tra i primi ad arrampicarsi sul
bastione anche il cognato sedicenne, Tiberio Sempronio Gracco con
l’amico Fannio
6
Figura 1. Il sito di Cartagine all’inizio del II secolo a.C.
7
.
4
Appiano, Libyké, 127; Zonara IX.30 (469 A). Pensando che, una volta caduto il muro
meridionale, non avrebbe avuto forze sufficienti a reggere l’impatto con le truppe di Scipione,
Asdrubale aveva incendiato i magazzini dell’emporio, nella speranza di arrestarne l’avanzata ed
avere il tempo di apprestare la difesa delle vie che salivano alla cittadella (cfr. Stéphane Gsell,
Histoire Ancienne de l’Afrique du Nord, tomo III, Librairie Hachette, Parigi, 1928, p. 397, nota
5).
5
Ammiano Macellino, XXIV.2.16 .
6
Plutarco, Tiberius, 4.
7
Ricostruzione topografica tratta da S. Lancel, Carthage, p. 158 .
11
Caio Lelio intanto si dirigeva
8
coi suoi soldati verso il doppio muro
circolare del porto militare, superandolo su dei ponti improvvisati.
Le sentinelle sorprese, affamate e demoralizzate cedettero
facilmente. Preso il Cóthon, i legionari occuparono subito la piazza
che si apriva nella grande spianata vicina (figura 1); qui, al calare
della notte, Scipione fece accampare le truppe.
Il giorno dopo, appena arrivati, quattromila fanti penetrarono nel
tempio del dio chiamato Apollo dai Greci
9
. La statua dorata della
divinità si ergeva in un tabernacolo del valore di mille talenti,
completamente rivestito di placche d’oro, che alcuni soldati,
nonostante gli ordini contrari, staccarono con la punta dei gladii per
poi dividersele. Bottino di guerra, il simulacro del dio sarebbe stato
collocato a Roma non lontano dal Circo Massimo, dove Plutarco, nel
I secolo d.C., lo vide e lo descrisse come il « grande Apollo di
Cartagine »
10
.
A custodire l’agonia della città punica restava soltanto la collina di
Byrsa: la conquista dell’acropoli catalizzò le energie del proconsole
che resse, per sei giorni, una cruenta battaglia “casa per casa”. Sul
ciglio delle tre vie che dall’agorà salivano alla cittadella, sorgevano
case di sei piani: di lì gli invasori furono investiti da una grandinata
8
È probabile che Lelio raggiungesse il bacino circolare percorrendo la cortina delle
fortificazioni, conquistata dai suoi in un assalto precedente portato dal terrapieno (settore 4c
della figura 1), distante soltanto quattrocento metri dal porto militare. Si può presumere che a
questo scontro preliminare risalga il suggerimento di Polibio, ricordato da Plutarco (Scipionis
Minoris Apophthégmata 200a), di cospargere la spiaggia di ferri a quattro punte e di riempire il
fondale di tavole acuminate per evitare che i nemici assalissero il terrapieno, dopo aver
attraversato il poco profondo braccio di mare che lo separava dalla riva. Consiglio che Scipione
disattese, sicuro che i suoi legionari, occupate le mura e penetrati nella parte bassa della città,
difficilmente avrebbero permesso ai nemici di arrivare al lido (cfr. St. Gsell, Histoire Ancienne
de l’Afrique du Nord, III, p. 398 nota 1).
9
Appiano, Libyké,127.
10
Werner Huss ( Cartagine, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 92) ha riconosciuto nell’« Apollo
Cartaginese » Reshef, il dio fenicio che governa le forze atmosferiche e la guerra; una differente
ipotesi, condivisa da M’hammed Hassine Fantar (Carthage, Approche d’une Civilisation, Alif,
Tunis, 1993, p. 147) lo identifica col dio africano Baal Hammon. Gli studiosi concordano
invece sul fatto che il ricchissimo tempio consacrato a questa divinità sorgesse nelle vicinanze
dell’agorà pubblica di Cartagine.
12
di proiettili. Occuparono ugualmente le abitazioni più vicine alla
piazza e dalle terrazze, tramite ponteggi di travi e tavolacci,
irruppero in quelle attigue. Tra grida e gemiti si combatteva e si
moriva per i vicoli e le viuzze, sotto la pioggia dei corpi che
piombavano ancora vivi dai tetti, schiantandosi al suolo o
infilzandosi nelle lance, nei giavellotti, nelle spade. Scipione giunse
quando i suoi erano appena arrivati alle soglie della cittadella.
Ordinò di incendiare i quartieri conquistati e di liberare le strade dai
cadaveri per consentire un rapido ricambio di legionari. Fino a quel
momento i suoi non avevano osato appiccare il fuoco alle case, per
pietà verso i compagni che vi giacevano
11
.
Byrsa, preda dei romani e del fuoco, offriva ora un macabro
spettacolo di orrori. Le urla disumane di chi era ferito o arso si
confondevano col cupo fragore del crollo degli edifici incendiati, che
inghiottiva, assieme ai cadaveri, vecchi, donne e bambini ancora vivi,
nascosti nei recessi delle case. Altri corpi precipitando, travolti dai
massi, dalle travi, dal fuoco, ne erano mutilati e fatti a pezzi. Per
facilitare il transito lungo le strade, i soldati addetti a sgomberare i
massi ( λιθολόγοι), servendosi di scuri e di aste uncinate, come se
trascinassero sassi o legna, spazzavano via indistintamente morti e
moribondi, gettandoli in fosse comuni. Le gambe di quelli caduti,
ancora vivi, a testa in giù, continuavano ad agitarsi in aria negli
spasmi dell’agonia; come becchi di uccelli, gli zoccoli dei cavalli al
galoppo picchiettavano e foravano ( ε κόλαπτον)
12
il viso e il cranio di
chi vi sprofondava col capo fuori dal suolo. Era la « mietitura
selvaggia » di un odio che altri avevano seminato
13
: quando, l’anno
prima, furioso per l’incursione nel sobborgo di Megara, Asdrubale
11
Appiano, Libyké, 128; Zonara IX.30 (469 A) .
12
Appiano, Libyké, 129.
13
Cfr. Serge Lancel, Carthage, Fayard, Parigi,1992, p. 445.
13
aveva ordinato di mutilare e scuoiare i prigionieri romani sull’alto
muro dell’istmo, sotto lo sguardo impotente dei loro compagni,
l’aveva fatto nella consapevolezza di acuire all’eccesso un rancore
secolare
14
.
Affaticati dalla furia degli scontri e smaniosi di assolvere gli
incarichi ricevuti, tribuni e legionari correvano freneticamente per la
città: invasati dall’impresa che stavano realizzando, non si
accorgevano delle scene feroci di cui erano, ad un tempo, attori e
spettatori. Assiduo, il ricambio delle truppe impediva che gli sforzi,
le veglie, le carneficine e l’immagine desolante del tracollo della
gloria punica ne minassero l’efficienza.
Durante i sei giorni e le sei notti in cui fu distrutta,
15
Scipione
continuò a percorrere Byrsa senza tregua, finché, spossato, cercò
riposo su un’altura
16
, che gli consentiva di controllare i movimenti
dei suoi. Il settimo giorno, gli si presentarono, supplici, alcuni
Cartaginesi coronati dei rami d’ulivo sacri all’Asclepio
17
venerato nel
ricco santuario vicino, lo stesso che un tempo aveva ospitato le
sedute della gherousía
18
: lo implorarono di risparmiare la vita di
coloro che avessero abbandonato la città. Il proconsole accolse la
preghiera, ma negò la salvezza ai disertori ancora vivi del suo
esercito. Una breccia angusta, aperta nella possente cinta muraria,
consentì a cinquantamila superstiti, scortati dai legionari, di sfilare
14
Appiano, Libyké, 118.
15
Appiano, Libyké, 130; Orosio, IV.23.2.
16
Si trattava forse della collina dove sorgeva il tempio di una dea, cui gli storici latini
attribuiscono il nome di Giunone, ma che si può probabilmente identificare con Tanit o Ashtart.
17
Livio (XLII.24) e Strabone (XVII.314) attribuiscono il teonimo latino di Esculapio, Appiano
(Libyké, 129 e ss.) quello greco di Asclepio alla divinità bellica che i Cartaginesi veneravano col
nome Eshmoun, protettore dei minatori e degli artigiani, e nume tutelare della salute dai privati
(cfr. M’hammed Hassine Fantar, Carthage, Approche d’une civilisation, p. 146; W. Huss,
Cartagine, p. 92).
18
Livio, XLII.24.
14
via dall’acropoli
19
. All’interno di Byrsa, insieme alle coorti, restavano
quattordicimila morti e novecento disertori romani. Questi ultimi,
consci dell’atroce patibolo
20
su cui sarebbero stati issati, si
arroccarono nel santuario di Asclepio (Eschmoun), protetto da un
ripido pendio inciso da sessanta gradini; con loro Asdrubale, la
moglie
21
e i due figli maschi.
Il tempio di Eschmoun era uno dei più importanti e celebri di
Cartagine, innalzato, secondo alcuni studiosi, nel punto in cui oggi
sorge a Tunisi l’odierna cappella di San Luigi
22
. La terrazza del
santuario occupava l’angolo di Byrsa che guardava il porto e il lido;
di lì si arrivava direttamente alla piazza pubblica, scendendo i
sessanta gradini dell’imponente scalinata, che i naviganti,
avvicinandosi alla costa, scorgevano già dal mare. Monumento
ammirato nei periodi di pace, la gradinata poteva essere facilmente
19
Appiano, Libyké, 130; Zonara IX.30 (469 B); Floro, I.31.16 (che stima ventiseimila profughi);
Orosio IV. 23.2-3 (il quale, invece, ci attesta che dalla città uscirono venticinquemila donne e
trentamila uomini).
20
Nel 202 a.C. i disertori romani consegnati dai Cartaginesi, in ossequio ad una norma del
trattato di pace, furono crocifissi (Livio, XXX, 43); alla fine della terza guerra punica, quelli
catturati vivi saranno gettati in pasto alle fiere durante i ludi celebrativi della vittoria (Livio,
Periocha LI).
21
Secondo quanto documentatoci da Livio (Periocha LI), la moglie di Asdrubale, fino a pochi
giorni prima aveva cercato di convincere il marito a consegnarsi a Scipione; Zonara (IX.30. 468
C), invece, fa risalire a qualche mese addietro il tentativo della donna di avviare degli accordi
privati con l’Emiliano, scoperto il quale, il marito l’aveva rinchiusa e fatta sorvegliare nella
cittadella. Queste tuttavia potrebbero essere delle semplici illazioni, destinate a sminuire i tratti
epici di una donna in grado rinnovare, nella mente di alcuni storici, il coraggio di Elissa (la
Didone di Virgilio), la leggendaria fondatrice di Cartagine.
22
Sebbene Gsell, Barreca e Moscati lo collochino proprio lungo la direttrice dell’attuale basilica
di San Luigi e Picard ritenga invece, che il tempio di Eshmoun sorgesse nella zona in cui i
Romani avrebbero, più tardi, costruito il teatro, nessuna delle due ipotesi ha ricevuto un
riscontro sicuro dagli scavi successivi condotti sulla collina di Byrsa (cfr. M.H. Fantar,
Carthage, p. 147). E forse non lo riceveranno mai, dal momento che ogni possibilità di ritrovare
questo straordinario edificio, nucleo religioso e anima dell’acropoli, si sbriciolò già un secolo
dopo la distruzione della città punica, assieme ai centomila metri cubi di terra asportati nella
gigantesca opera di smantellamento della superficie sommitale della collina (tre o quattro ettari),
sostituita da un terrapieno rettangolare, lungo il quale doveva orientarsi, nella classica struttura
ortogonale, il centro monumentale della nuova colonia Julia concordia Karthago (zona in
grigio della figura 2), fondata all’inizio dell’impero di Augusto (cfr. St. Lancel, Carthage,
Fayard, Parigi,1992, pp. 169-170).
15
distrutta in caso di minaccia: la collina allora riacquistava tutta la
sua asprezza, ed il tempio che svettava sull’orlo di un precipizio, si
aggiungeva alle fortificazioni della cittadella
23
.
Da questa sacra vedetta, stremati e già vinti dalla fame, dalle
veglie, dal terrore, i disertori compresero l’inutilità di ogni
resistenza: abbandonarono il recinto del santuario e si rifugiarono
all’interno del tempio. Nella confusione Asdrubale fuggì. Ed essi,
saliti sul tetto, lo videro coronato di ramoscelli d’ulivo, implorare
pietà a Scipione che mostrava sprezzante il trofeo avvinghiato alle
sue ginocchia. Chiesero allora ai legionari di astenersi per poco
dall’assalto: ottenuta una breve tregua, ruppero il silenzio con ogni
genere d’improperio contro l’ultimo condottiero di Cartagine. Poi
appiccarono il fuoco e arsero col tempio.
Dal tetto in fiamme, fiera e vestita a festa, la moglie di Asdrubale
si rivolse Scipione augurandogli di diventare strumento di vendetta
( νέμεσις) contro un comandante ed un marito che aveva tradito
( προδότης) la patria e i suoi dèi, lei e i suoi figli. Parlò quindi ad
Asdrubale: lo accusò di empietà, di infedeltà e di effeminatezza, e gli
predisse il misero destino di fregio del trionfo romano sulla città che
aveva dominato. Poi sgozzò i figli e si gettò coi loro corpi nel rogo del
tempio
24
. Cartagine esalò il suo ultimo alito dalla bocca dei suoi
eredi più giovani.
23
Cfr. Claude Nicolet (per la direzione di), Rome et la Conquête du Monde Méditerranéen, II
volume (Genèse d’un empire), Presses Universitaires de France, Parigi, p. 81.
24
Appiano, Libyké, 130-131; Polibio, (frammento) XXXVIII.20; Diodoro, XXXII.23; Strabone,
XVII.3.14; Zonara IX.30 (469 B-C); Valerio Massimo, III.2 e 8; Floro, I 31.17; Orosio, IV 23.4;
Livio, Periocha LI (seguendo la sintesi di Livio - cito St. Gsell, Histoire de l’Afrique du Nord,
III, p. 401, nota 2 - « la femme d’Asdrubal in medium se flafrantis urbis incendium cum duobus
liberis ex arce praecipitavit. C’eût été un saut prodigieux: Tite-Live n’est sans doute pas
responsable de cette bévue >>). Ha scritto S. Lancel (Carthage, p. 446): « Nell’ultimo giorno
della città, questo olocausto raggiunse nella leggenda quello di Didone, la regina fondatrice ».
16
Le fonti
Due storici contemporanei videro cadere Cartagine: Fannio,
25
che
assieme a Tiberio Gracco fu tra i primi a scalarne le mura, e Polibio
di Megalopoli,
26
che nel 147 a.C. aveva seguito Scipione Emiliano in
Africa, assistendo all’ultima fase dell’assedio e al crollo della secolare
potenza punica. Per la cronaca dei primi due anni di guerra, durante
i quali si trovava in Grecia, Polibio poté sicuramente attingere a
testimoni attendibili (benché non eccessivamente obiettivi), quali
l’amico Publio, che aveva recitato un ruolo di rilievo pure durante il
primo anno del conflitto, ed i tanti romani conosciuti sotto le mura
assediate
27
.
Polibio descrisse gli eventi della terza guerra punica nel
trentaseiesimo e nel trentottesimo libro delle sue Storie (
‘
Ιστορίαι): i
brevi stralci che ci sono giunti consentono di appurare che l’amico di
Scipione Emiliano fu la fonte principale tanto della ricostruzione di
Diodoro di Agirio,
28
quanto di quella di Appiano di Alessandria
29
(che cita esplicitamente lo storico greco come suo referente
30
). Se,
tuttavia, il testo di Diodoro, in cui nessuna traccia, tuttavia, sembra
rimandare a una fonte complementare, segue quello di Polibio
perfino nell’uso di termini analoghi, l’assenza di una palese
25
Plutarco, Tiberius, IV. Non è tuttavia certo che gli Annali descrivessero nello specifico la
conquista della città punica, visto che Fannio potrebbe anche averne narrato l’ultimo assalto,
parlando di Tiberio (cfr. St. Gsell, Histoire de l’Afrique du Nord, III, p. 337).
26
Polibio, figlio di Licorta, più volte stratega della lega achea, faceva parte dei mille ostaggi
achei di nobile estrazione sociale, deportati a Roma dopo la vittoria di Pidna (168 a.C.) per
essere sottoposti, anche su istigazione del partito filoromano, ad un processo che nei fatti non
ebbe mai luogo. Ma una volta nell’Urbe, Polibio fu ammesso a frequentare l’alta nobilitas
amica dei greci, ed anzi fu accolto nella casa del trionfatore di Pidna, Lucio Emilio Paolo, dove
una profonda amicizia lo legò ai suoi due figli, Quinto Fabio Massimo Emiliano (adottato dalla
gens dei Fabii) e Publio Cornelio Scipione Emiliano (adottato dai Cornelii).
27
Cfr. St. Gsell, Histoire Ancienne de l’Afrique du Nord, III, p. 336
28
Sopravvissuta negli esigui lacerti del trentaduesimo libro della Biblioteca ( Βιβλιοθήκη).
29
Il racconto di Appiano ci è pervenuto in forma pressoché integrale nell’ottavo libro ( Λιβυκή)
della Storia Romana (
‘
Ρομαϊκά), di cui occupa i capitoli dal settantaquattresimo al
centotrentacinquesimo.
30
Appiano, Libyké, 132.
17
concordanza letterale (che ha fatto supporre la mediazione di un
cronachista romano) in quello di Appiano può essere considerata
indizio di una sua personale ricerca di originalità, quale si rivela a
pieno nelle grandi scene drammatiche e nei discorsi lungamente
articolati, assenti nelle Storie, ma ai quali l’oratore alessandrino
indulge volentieri per mero gusto retorico
31
. Appiano omette alcuni
episodi narrati da Polibio, come l’incontro, nell’autunno del 147 a.C.,
tra Asdrubale ed il re numida Gulussa (forse per non distogliere il
lettore dal precipitare del conflitto verso la tragedia conclusiva) e, in
uno sforzo interpretativo (o creativo), che talora svicola
dall’esattezza della fonte, arriva ad interpolare dettagli inediti
32
che,
dal suo punto di vista, dovrebbero aggiungere maggiore chiarezza
33
alla narrazione. Questa occasionale rilettura resta comunque
ancorata al suo riferimento cardinale, senza mai far pensare all’uso
di una fonte diversa: sicché, se è vero che Appiano « si è servito dello
storico greco, senza intermediari e di lui solo »,
34
è altrettanto vero,
per conseguenza, che le sue parole, integre, ci conducono ad
osservare, con gli occhi di Polibio, Cartagine che cade.
Tanto più che mentre la foga del corpo a corpo, del ricambio
incessante delle truppe, degli ordini urlati, del fragore delle trombe,
immergeva i soldati romani in una sorta di ebbrezza bellica,
rendendoli ciechi alla ferocia che si consumava sotto i loro occhi,
uno dei pochi ad accorgersi degli orrori perpetrati sotto il comando
di Scipione sembra proprio lo storico suo fraterno amico. Come ha
31
Cfr. St. Gsell, Histoire Ancienne de l’Afrique du Nord, III, p. 337.
32
Verosimile senza il supporto di una precisa documentazione archeologica, l’interpretazione
della fortificazione tripartita (fossato, palizzata e muro) sull’istmo di Cartagine (Appiano,
Libyké, 95), alla stregua di tre successivi bastioni murari, è stata accettata anche da storici
autorevoli (cfr. André Piganiol, Le conquiste dei Romani, Est, Milano, 1997, p. 319).
33
Cfr. U. Kahrstedt Geschichte der Karthager von 218-146 (volume III di O. Meltzer
Geschichte der Karthager) Berlino, 1913, p. 626, nota 1 (citato in St. Gsell, Histoire de
l’Afrique du Nord, III, p. 338, nota 2).
34
St. Gsell, Histoire Ancienne de l’Afrique du Nord, III, p. 338.
18
scritto Tissot
35
: « Bisogna leggere in Appiano l’intero racconto degli
ultimi giorni di Cartagine. Si tratta certamente della cronaca di
Polibio, ed il testimone oculare di questa spaventosa rovina ne aveva
rintracciato tutte le circostanze con la sua consueta esattezza,
potremmo dire con la sua fredda ed impietosa precisione. Queste
case che si accartocciano con chi le sta difendendo, i sopravvissuti,
donne, bambini, anziani, trascinati con dei ganci, ammucchiati alla
rinfusa coi morti, e seppelliti ancora vivi sotto i cocci che gli
assedianti livellano alla bell’e meglio; le membra ancora palpitanti
che escono dalle macerie, e che i cavalieri percuotono con gli zoccoli
dei loro cavalli; il vai e vieni delle coorti che si danno il cambio in
quest’opera di distruzione, gli squilli di tromba, le istruzioni portate
dagli aiutanti di campo, gli ordini precipitosi dei tribuni e dei
centurioni, nessun dettaglio viene tralasciato, e il racconto è uno dei
quadri più emozionanti e veri che l’antichità ci abbia trasmesso.
Diciamo “uno dei più veri,” perché lo spesso strato di cenere, di
pietre annerite, di legna carbonizzata, di frammenti di metallo
ritorto e fuso dal fuoco, che ancora si ritrovano a cinque o sei metri
di profondità, sotto le rovine della Cartagine romana, testimoniano
molto di ciò che fu quest’orribile distruzione ».
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<<Il faut lire dans Appien le récit tout entier de ces derniers jours de Carthage. Cette narration
est certainement celle de Polybe, et le témoin oculaire de cette épouvantable ruine en avait
retracé tous les incidents avec son exactitude ordinaire, nous allions dire avec sa froide et
impitoyable précision. Ces maisons qui s’écroulent avec leurs défenseurs, les survivants,
femmes, enfants, vieillards, traînés par des crocs, entassés pêle-mêle avec les morts, en
ensevelis touts vifs sous les débris que les assiégeants nivellent à la hâte; les membres encore
palpitants qui sortent des décombres, et que les cavaliers heurtent du sabot de leurs chevaux ; le
va-et-vient des cohortes qui se relayent dans cette œuvre de destruction, les sonneries des
trompettes, les ordres que portent les aides de camp, les commandements précipités des tribuns
et des centurions, aucun détail n’est oublié, et ce récit est une des tableaux les plus émouvants et
les plus vrais que nous ait légués l’antiquité: nous disons << des plu vrais >>, car la couche
épaisse de cendres, de pierres noircies, de bois carbonisé, de fragments de métaux tordus ou
fondus par le feu, qu’on retrouve encore, à cinq ou six mètres de profondeur, sous les
décombres de la Carthage romaine, témoigne assez de ce que fut cette horrible destruction.>>
Tissot, citato in Claude Nicolet (per la direzione di), Rome et la Conquête du Monde
Méditerranéen, II volume, pp. 80-81.