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INTRODUZIONE
Questo lavoro muove dall’interesse e dalla curiosità che nutro nei confronti della Teoria
dell’Attaccamento da quando, durante questo percorso di studi, ho avuto modo di
affrontarla e di scoprire che ci sono numerose e recenti evidenze, provenienti dal campo
della neuropsicologia e delle neuroscienze, che sostanziano e avvalorano le intuizioni di
Bowlby, formulate ormai quasi mezzo secolo fa.
La Teoria dell’Attaccamento avvalora l’esperienza reale che un bambino fa dell’ambiente
che lo circonda e mette in luce l’importanza che le prime relazioni hanno, per la vita di una
persona, nell’influenzare il suo successivo sviluppo, le competenze sociali e relazionali.
Oggi è noto che determinate aree cerebrali, il sistema neuroendocrino ed alcuni sistemi
neurotrasmettitoriali, che svolgono un ruolo chiave nel mediare tali competenze sociali e
relazionali, si sviluppano e prendono forma durante l’infanzia e che è proprio l’esperienza
precoce con le principali figure di attaccamento a determinare lo sviluppo funzionale o
meno di questi aspetti.
La “capacità di amare” (Odent, 2001) si sviluppa nel corso della crescita e solo un bambino
che ha avuto delle figure genitoriali sensibili e disponibili ad accogliere i suoi bisogni (non
solo fisiologici, come già sosteneva Bowlby), e a rispondervi con prontezza, potrà in
seguito mettere in atto modelli comportamentali positivi simili a quelli che ha acquisito,
vivendoli nella relazione. Viceversa, se durante l’infanzia si è stati vittima di abuso o
maltrattamento, se si è subito un abbandono, o in casi di grave trascuratezza, le
conseguenze possono risultare evidenti nella neuroanatomia cerebrale ed alcuni sistemi
neurotrasmettitoriali possono essersi sviluppati in maniera deficitaria, tale da non garantire
la capacità di relazionarsi in modo “sano” dapprima coi pari e successivamente coi propri
figli.
Questo lavoro si articola in tre parti principali.
Nel primo capitolo si intende offrire una panoramica sulla Teoria dell’Attaccamento,
contestualizzando il contesto in cui fu originariamente formulata da John Bowbly nel 1969,
e successivamente ampliata dai suoi collaboratori. Si delineano le caratteristiche del
legame di attaccamento e il modo in cui l’esperienza relazionale viene interiorizzata sotto
forma di modelli operativi interni.
Vengono inoltre descritti i principali pattern di attaccamento, la procedura della Strange
Situation, utilizzata per la classificazione dei bambini nei diversi pattern, e la Adult
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Attachment Interwiew, impiegata invece per la categorizzazione degli adulti in base al loro
stato mentale relativo alle esperienze di attaccamento.
Nel secondo capitolo una prima parte è dedicata ad esaminare il ruolo svolto dal sistema
neuroendocrino nelle condotte di accudimento e del “prendersi cura”, sia negli animali che
nell’uomo. Viene dedicato ampio spazio alla descrizione della funzione che i due
neurormoni ossitocina e vasopressina hanno nel determinare l’attivazione del
comportamento materno; si esaminano anche i mediatori chimici del legame tra pari e di
coppia e i marcatori fisiologici della paternità.
Si evidenzia poi come sia lo sviluppo dei sistemi dell’ossitocina e della vasopressina, che
la distribuzione a livello cerebrale delle neurotrofine, siano influenzati dall’esperienza
precoce e la deprivazione materna incide in maniera negativa su entrambi.
Nella seconda parte si prendono in esame i circuiti neuroanatomici del parenting che
possono essere indagati grazie alle recenti tecniche di neuroimaging e vengono messe in
evidenza le aree maggiormente coinvolte nelle condotte di accudimento.
Nel terzo capitolo viene esposto il “moderno aggiornamento” della Teoria
dell’Attaccamento in quella che Allan N. Shore definisce Teoria della Regolazione (2007).
Dapprima viene descritto il sistema diadico di regolazione omeostatica proprio della
relazione madre-bambino per poi passare alla più matura regolazione emotiva. In questa
sede vengono esposte le scoperte di Shore relative alla funzione espletata dall’emisfero
cerebrale destro nel sistema di attaccamento.
Dopo aver descritto quelle che dovrebbero essere caratteristiche presenti in una relazione
di attaccamento funzionale e “sana”, che promuove lo sviluppo di determinate abilità e
acquisizioni nel piccolo, si prende in esame il trauma relazionale e le conseguenze che esso
ha a livello neurofisiologico: iperarousal e dissociazione, che, nella maggior parte dei casi
possono predisporre a psicopatologia nell’età dello sviluppo o adulta.
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CAP. 1. LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO: DA JOHN BOWLBY
A NUOVE PROSPETTIVE
Questo capitolo pur non avendo pretese di esaustività, intende offrire una panoramica sui
concetti principali della Teoria dell’Attaccamento, così com’è stata formulata da John
Bowlby e integrata negli anni dai suoi collaboratori, per consentire di apprezzare le recenti
scoperte neuroscientifiche esposte nei successivi due capitoli, che hanno avvalorato e
ampliato le conoscenze in quest’ambito. Benché i dati provenienti dalla letteratura
scientifica degli ultimi anni non partano sempre da queste premesse, mettono a
disposizione risultati che sostanziano e arricchiscono le idee di Bowlby, confermando
l’importanza delle prime relazioni di attaccamento, per uno sviluppo funzionale che si
mantenga lontano dalla psicopatologia (Maunder & Hunter, 2008; Beech & Mitchell,
2004) e, inoltre, offrono conferme all’ipotesi della trasmissione intergenerazionale dei
pattern di attaccamento, così come li definisce Bowlby, o di caratteristiche che si ripetono
di generazione in generazione, trasmesse per via non genomica, come si legge in letteratura
(Francis et al., 1999).
1.1 Le premesse
La Teoria dell’Attaccamento si è sviluppata a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo
dal pensiero maturo di John Bowlby, che secondo quanto afferma Mary Ainsworth (1982),
sviluppò l’idea dell’attaccamento “in un lampo”, quando nel 1952 lesse, dopo che ne aveva
sentito parlare, i lavori etologici di Lorenz e Tionbergen (1935) sull’imprinting degli
anatroccoli.
Bowlby aveva avuto una formazione biologica ed etologica, oltre che medica, e si servì
proprio dell’etologia per dare un fondamento scientifico all’aggiornamento che intendeva
proporre per la teoria psicoanalitica (Holmes, 1993).
Durante la metà del secolo scorso la relazione madre-bambino era principalmente studiata
in termini psicoanalitici che privilegiavano il contenuto della fantasia sull’esperienza reale
e vedevano, come collante di questa relazione, da un lato, una pulsione o un bisogno da
soddisfare (il nutrimento o la sessualità), dall’altro una relazione d’oggetto (Cassidy &
Shaver, 2002). Entrambe le prospettive non soddisfacevano ciò che emergeva dai dati
derivanti dalle osservazioni di Bowlby stesso. Neanche potevano trovare un accordo con
gli studi di Lorenz, che evidenziava come gli anatroccoli appena nati seguissero la madre,
che in questa specie non nutre i suoi piccoli, tanto meno con quelli di Harlow (1958), che
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aveva dimostrato che i cuccioli di scimmia Rhesus preferivano un surrogato materno
peloso e morbido rispetto ad uno metallico che forniva loro cibo, dal quale si recavano solo
per mangiare (Bowlby, 1988). Bowlby aveva quindi trovato una dimostrazione etologica
del legame che prescinde dal nutrimento (le oche), e del nutrimento senza legame (le
scimmie), ma doveva ancora formulare una teoria che giustificasse e descrivesse il legame
madre-bambino.
Le sue ricerche ebbero inizio anni prima, quando si trovò a lavorare alla Child Guidance
Clinic con bambini disagiati che avevano alla loro spalle una situazione di abbandono, e
nello studio “Fourty-four jouvenile thieves” (1944) trovò delle correlazioni tra delinquenza
giovanile e privazione materna (Cassidy & Shaver, 2002). Successivamente si occupò dei
bambini che dovevano trascorrere lunghi periodi di ospedalizzazione e indagò, insieme a
Robertson (1952b), con l’osservazione diretta, gli effetti sui bambini della temporanea
separazione dai genitori, distinguendo delle fasi che vanno dalla protesta attiva, al ritiro in
se stessi e al distacco vero e proprio. Queste esperienze furono importati per la futura
formulazione della Teoria dell’Attaccamento soprattutto perché, contrariamente a quel che
faceva la psicoanalisi, e cioè risalire alla storia infantile tramite il racconto della persona in
terapia e rintracciare retrospettivamente le origini della problematiche attuali, Bowlby si
affidava all’osservazione diretta del comportamento dei bambini per tracciarne le sequele
in prospettiva, dando spazio a ciò che è realmente accaduto, oltre che alla rappresentazione
soggettiva di ciascun agente.
1.2 Bowlby e la Teoria dell’Attaccamento
Non condividendo le teorie convenzionali, che vedevano l’attaccamento strettamente
connesso alla nutrizione, Bowlby, in accordo con colleghi appartenenti all’ambito della
biologia evoluzionistica, dell’etologia, della psicologia dello sviluppo, della scienza
cognitiva e della teoria dei sistemi di controllo, sostenne che il legame che si instaura tra
una madre e il suo bambino è la risultante di un pre-programmato sistema di
comportamenti che si sviluppa nei primi mesi di vita ed ha l’effetto di mantenere il
bambino in stretta prossimità con la figura materna (Cassidy & Shaver, 2002). Le sue
teorizzazioni sono quindi basate in parte sull’etologia, in parte sulla critica alla psicoanalisi
(Holmes, 1993; Bowlby, 1979).
Stabilì che funzione biologica del comportamento di attaccamento è la protezione, che si
consegue mantenendo la prossimità con una figura chiaramente identificata e ritenuta in
grado di affrontare il mondo in modo adeguato (Bowlby, 1988); se per l’uomo primitivo la