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società musulmane contemporanee è quella della segregazione della donna per quanto riguarda la
vita pubblica e di subordinazione nell’ambito privato-familiare? Nonostante sia doveroso ricordare
come queste idee, molto diffuse nell’immaginario occidentale, siano state alimentate anche da una
concezione orientalista dell’Islam,
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tuttavia la distanza che separa la lettera e lo spirito generale che
impronta il Corano – il testo sacro dell’Islam e fonte prima di diritto - e le condizioni di vita di
molte donne dei paesi a maggioranza musulmana è evidente. Ciò è riconducibile al fatto che
l’ermeneutica dei testi sacri dell’Islam – e non solo – è sempre stata appannaggio esclusivo degli
uomini, i quali hanno letto e interpretato il Corano e la Sunna in termini patriarcali, ossia spesso
misogini.
La Sunna, letteralmente “consuetudine”, quindi “tradizione”, è la raccolta dei detti e dei fatti
del Profeta (ahadith, pl. di hadith), dotati di valore normativo, che ha ricevuto un processo di
sistematizzazione terminato circa nell’IX secolo d.C.. Durante questo processo sono stati racchiusi
all’interno della Sunna anche ahadith ritenuti spuri, ma rispecchianti la mentalità prevalente nei
primi secoli dell’Islam, necessariamente patriarcale.
Secondo la maggioranza delle femministe islamiche la shari‘a o legge islamica è stata mal
compresa o comunque applicata in modo erroneo. Essa è frutto dello sforzo interpretativo (ijtihad)
degli ulama dei primi secoli dell’Islam che l’hanno elaborata a partire dalle fonti del diritto (‘usul
al-fiqh).
Le esponenti del femminismo islamico attuano, quindi, una re-interpretazione e una rilettura
dei testi sacri, che nell’Islam hanno un valore giuridico fondante, mantenendosi sempre all’interno
della tradizione islamica.
Molte studiose limitano la loro opera ermeneutica al Corano, mentre altre si concentrano
anche sulla Sunna e sulla shari‘a, senza tralasciare l’analisi della storia dei primi secoli dell’Islam
(VII – IX), che vedono la codificazione delle fonti, tra cui anche quelle del diritto.
Le femministe islamiche con la loro opera elaborano una nuova esegesi, alternativa a quella
tradizionale, rivendicando in questo modo il loro diritto all’ijtihad, da sempre di fatto prerogativa
maschile. Infatti l’ijtihad che mettono in pratica nella ri-lettura dei testi sacri è un ijtihad al
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Per “concezione orientalista” si intende la modalità peculiare attraverso cui gli studiosi europei – e anche il gusto
comune – hanno rappresentato e rappresentano, ma prima di tutto concepiscono l’Oriente. La rappresentazione
dell’Oriente frutto dell’Orientalismo è una “geografia immaginaria”, un costrutto culturale occidentale in cui l’Oriente
non è descritto in modo oggettivo ma stereotipato e semplificato in pochi tratti immutabili quali la diversità,
l’irrazionalità e il pericolo. Tale rappresentazione è volutamente inverosimile, poiché il suo obiettivo è dare un
immagine dell’Oriente come una realtà estranea, “altra”, ma allo stesso tempo comprensibile per l’Occidente. In questo
senso l’Orientalismo svolge una funzione identitaria importante: l’Occidente si concepisce come tale solo in
opposizione ad un Oriente lontano ed estraneo. Per questo motivo l’Orientalismo rispecchia maggiormente la cultura in
cui si è sviluppato piuttosto che il suo presunto oggetto d’indagine. (Edward Said, Orientalismo, Torino: Bollati-
Boringhieri, 1991)
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femminile, cioè comprensiva della prospettiva di genere, che permette di restituire al Corano, parola
universale di Dio, la sua completezza originaria.
A partire dalla sua stessa definizione, il femminismo islamico è un fenomeno complesso e perciò
argomento di numerosi dibattiti. È guardato con fiducia quale strumento per l’emancipazione della
donna tanto dagli ambienti accademici quanto a livello degli organismi internazionali, ma talvolta è
oggetto di critiche sia a proposito della sua effettiva portata libertaria sia per la sua stessa natura
“ibrida”.
La denominazione di “femminismo islamico” pone, infatti, qualche problema e non solo a livello
terminologico. Accostare i termini “femminismo” e “islamico” presuppone di per sé che fra Islam e
movimento di emancipazione della donna non vi sia contraddizione. Infatti, utilizzare l’aggettivo
“islamico” significa contestualizzare il problema della liberazione della donna all’interno del
mondo musulmano e, quindi, parlare di un femminismo che si propone di raggiungere la parità di
genere attraverso un ripensamento generale dell’Islam e delle sue fonti. Tuttavia non tutti
concordano su questa premessa, come dimostra il fatto che una delle domande ricorrenti nel
dibattito sul femminismo islamico è appunto se il femminismo sia compatibile con gli insegnamenti
islamici e con i contesti sociali e legali sviluppatisi nelle società musulmane.
Le domande a cui il dibattito sul femminismo islamico cerca di rispondere sono anche altre:
a che tipo di Islam si fa riferimento con la parola “islamico”, visto che l’Islam si è declinato in modi
diversi a seconda delle culture che ha incontrato nel suo processo di formazione? Il femminismo
islamico è un’arma contro il fondamentalismo oppure una minaccia per il discorso femminista
secolare? Quali sono i limiti del femminismo islamico?
Nel tentare di dare risposta a questi interrogativi mi sono soffermata a descrivere, nel
capitolo I, il femminismo islamico e la teologia femminista islamica inserendoli nel contesto dei
movimenti più generali, al fine di evidenziarne analogie e differenze. La mia analisi in seguito si è
focalizzata sulla teologia femminista, corrente del femminismo islamico di cui costituisce il
fondamento teorico, e di questa ho descritto brevemente i vari approcci possibili.
Al fine di garantire alla donna e all’uomo gli stessi diritti, le teologhe femministe hanno
dimostrato che il principio di uguaglianza ontologica e morale fra uomo e donna è un valore
fondante per l’Islam e che – al contrario di quanto sostiene l’esegesi coranica classica o quella
conservatrice - tale principio deve necessariamente essere rispettato anche nell’ambito sociale e
politico. Ad impedire la traslazione del principio di uguaglianza dal piano ontologico e morale a
quello sociale vi è la concezione della complementarietà dei generi – ritenuta dall’esegesi
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tradizionalista intrinseca all’Islam-, di cui ho analizzato, nel capitolo II, le implicazioni sulla
condizione femminile per quanto riguarda l’ambito del lavoro e della politica.
La teologhe femministe si oppongono alle restrizioni imposte alle donne da questa
concezione dei generi e soprattutto da una lettura patriarcale dei testi sacri attraverso svariati
strumenti ermeneutici. Nel capitolo III ho scelto di soffermarmi su tre di essi, quali la ricerca dei
diritti della donna nel Corano e nella Sunna, la confutazione – dimostrandone l’origine extra-
coranica - dei miti che danno una caratterizzazione negativa della donna e infine la de-costruzione
dei versetti coranici che affermano la disuguaglianza o l’inferiorità di questa rispetto all’uomo.
Infine nelle riflessioni conclusive ho cercato di dare una visione d’insieme del fenomeno
della teologia femminista islamica, analizzando il modo in cui viene accolto sia dal mondo
accademico sia dagli organismi internazionali, mettendone in luce i punti di forza e gli aspetti
considerati meno efficaci e tentando di dare qualche risposta – necessariamente parziale e
temporanea - agli interrogativi principali del dibattito.
Prima di concludere l’introduzione, mi soffermo brevemente sui motivi per cui in questo
lavoro compaiono dei riferimenti anche ad esponenti dell’Islam conservatore: gli shuyukh (pl. di
shaykh) Muhammad al-Ghazali (m. 1996) e Yusuf al-Qaradawi.
Il richiamo a queste figure potrebbe sembrare fuori luogo in una tesi dedicata al femminismo
islamico, ma, come spiego anche in seguito, le opere che cito rappresentano una svolta significativa
nel percorso dottrinale di questi autori.
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La studiosa Barbara Stowasser sostiene nell’articolo “Old
Shaykhs, Young Women and the Internet”, che le ultime pubblicazioni di questi autori, entrambe
risalenti agli anni ’90, esprimono un cambiamento importante delle loro posizioni a proposito della
questione femminile e fanno presupporre l’inizio di un discorso di genere nuovo anche nell’ambito
dell’Islam tradizionale.
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Infatti, secondo la Stowasser, al-Qaradawi e al-Ghazali potrebbero essere
considerati gli ‘iniziatori’ di un nuovo modello di ulama il cui obiettivo è formulare un paradigma
di genere più equo e favorevole alla donna.
Inoltre, personalmente non ritengo un fatto negativo che voci a sostegno della causa
femminile provengano anche dalle aree più conservatrici dell’Islam. Potrebbe essere un segnale di
quanto profondamente venga sentito il tema della lotta per l’emancipazione della donna nelle
società islamiche odierne, visto che è diventato un argomento che l’Islam conservatore non può non
affrontare.
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Le opere di cui parlo sono: Muhammad al-Ghazali, Women’s Issues (1990) e Yusuf al-Qaradawi, Contemporary Legal
Opinions, edita in due volumi (inizio degli anni ’90 e più volte ristampata durante il decennio).
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Barabara Stowasser, “Old Shaykhs, Young Women and the Internet: The Re-writing of Woman’s Political Rights in
Islam”, da The Muslim World vol. 19, 2001; 101-102 e ss).
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Infine non è secondario sottolineare che il parere di questi eruditi ha una notevole capacità di
influenzare l’opinione pubblica non solo perché possiedono entrambi la duplice legittimità
dell’islam ‘ufficiale’ (in quanto ulama formatisi all’università di al-Azhar) e di quello islamista
(poiché un tempo membri dei Fratelli Musulmani), ma anche per la grande notorietà di cui godono
nei media arabi.
D’altro canto bisogna ammettere che talvolta questi studiosi non sono mossi da convinzioni
femministe profonde, ma innalzano la bandiera dei diritti della donna per scopi utilitaristici, come fa
ad esempio al-Qaradawi a proposito del diritto di voto, auspicando cioè la partecipazione delle
donne alla competizione elettorale anche al fine di scongiurare il successo dei partiti laici.
Nonostante l’integrità ideologica del femminismo possa risultare in questo modo un po’ incrinata,
questo, a mio parere, è un compromesso che in molti paesi islamici odierni si è costretti ad accettare
in nome del riconoscimento dei diritti della donna.
Infine ho scelto di non escludere dalla trattazione questa via ‘non femminista’ ai diritti della
donna anche perché alcune delle argomentazioni usate, per esempio da al-Qaradawi, sono molto
efficaci, come dimostra il fatto che sono state utilizzate, se pur in modo autonomo, anche dalle
teologhe femministe.
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CAPITOLO PRIMO
1. Femminismo Islamico e Teologia femminista islamica.
1.1. Introduzione.
Il femminismo è un movimento sociale prima che teorico finalizzato al miglioramento delle
condizioni della donna in ogni sfera della vita. Il termine è stato coniato in Francia nel 1880 da
Hubertine Auclert nella sua rivista “La Citoyenne”, ma in Occidente ha raggiunto l’apice come
movimento d’emancipazione negli anni ’60. L’intento fondamentale era quello di scardinare la
divisone tradizionale dei ruoli presente in ogni settore della società rivendicandone una
distribuzione più egalitaria tra i sessi.
All’interno del femminismo occidentale di stampo secolare si distinguono due correnti: il
femminismo dell’uguaglianza che si propone di rimuovere ogni ostacolo al raggiungimento della
parità uomo-donna, e il femminismo della differenza, nato a fine anni ’70, che concependo il
pensiero femminile come differenza, riconosce e valorizza la differenza sessuale piuttosto cercare di
annullarla.
Da questo breve accenno potrebbe trasparire l’idea che il femminismo sia un fenomeno
occidentale. In realtà non è affatto così. La stessa denominazione ‘occidentale’ a ben vedere non è
nulla di più di una definizione di comodo visto che il femminismo dei paesi del cosiddetto
‘Occidente’ non costituisce un blocco monolitico: il femminismo italiano e quello americano, ad
esempio, sono e sono stati differenti. Il femminismo, come qualsiasi altro fenomeno di dimensione
globale, si declina in modi diversi a seconda dei luoghi dove nasce, dando vita ad una pletora di
femminismi particolari. Laddove il femminismo è presentato come un fenomeno occidentale,
spesso viene fatto con l’intento di delegittimarlo e diminuire la sua portata potenzialmente
destabilizzante. Questa è la strategia scelta dai movimenti islamisti o dagli ulama tradizionali che
accusano il femminismo islamico, ma soprattutto quello secolare, di essere un’importazione
dell’occidente imperialista.
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L’idea della connessione fra femminismo e imperialismo non è nuova poiché già durante la Conferenza Islamica del
Cairo del 1952 era stata presentata una pubblicazione (edita però solo nel 1978) intitolata The Feminist Movements and
their Connection with Imperialism, che proponeva la tesi del complotto imperialista per distruggere la società
musulmana minando le sua fondamenta, cioè la donna e la famiglia. (Valerie J. Hoffman-Ladd, “Polemics on the
Modesty and Segregation of Women in Contemporary Egypt”, da International Journal of Middle East Studies, vol. 19
n. 1, 1987).