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sosteneva era particolarmente influente. Donne liminali queste scienziate,
spesso incoraggiate da parenti di sesso maschile, padri o mariti, ma
assolutamente osteggiate dalla società e dalla comunità scientifica cui
proponevano i loro contributi.
A partire da Ipazia d’Alessandria, importante esponente del
Neoplatonismo, uccisa da una folla di fanatici cristiani, queste donne
ebbero vite con caratteristiche spesso comuni. Anzitutto, come già
accennato, tutte poterono contare sull’appoggio di un uomo che si occupò
della loro istruzione, generalmente il padre. Al di là di alcuni casi ‘felici’,
che trovarono un marito con cui condividere gli interessi scientifici e le
ricerche (emblematico il caso degli astronomi Maria Winkelmann e
Gottfried Kirch o di Marie e Pierre Curie), queste donne pagarono il loro
amore per la scienza e la ricerca con la solitudine e l’isolamento sociale.
Una scelta che spesso assunse i connotati della vita monastica come nel
caso di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, la prima donna a conseguire una
laurea in filosofia nel 1678.
Risalta in queste biografie il carattere profondamente misogino di una
comunità scientifica che, nelle figure di Robert Boyle e Isaac Newton, si
palesa al punto da proporre la creazione di una comunità di scienziati
vestiti con tonache e dediti alla ricerca scientifica e alla castità. In realtà,
l’atteggiamento di diffidenza nei confronti delle donne che si occupano di
scienza ha precise radici culturali che portano, come già accennato, ad
identificare il principio maschile con la razionalità e la cultura e quello
femminile con l’emotività e la natura. Da ciò deriverebbe quella naturale
inclinazione verso la scienza e la tecnologia che distingue l’uomo dalla
donna.
Nel secondo capitolo si analizza il rapporto tra le donne e la tecnologia, in
particolare l’informatica, e i problemi che più spesso si trova ad affrontare
6
una donna che voglia intraprendere degli studi informatici. Un rapporto sul
ruolo delle donne nel mondo della ricerca scientifica, redatto dall’ETAN
(European Technology Assessment Network) per la Commissione Europea,
offre un quadro piuttosto allarmante della realtà europea, data la comune
caratteristica dei paesi comunitari di avere una bassa percentuale di donne
in tutti i livelli del mondo della ricerca scientifica. Esiste un’abitudine
radicata nella cultura occidentale di ritenere le ragazze più portate per le
materie linguistico-letterarie e i ragazzi per quelle scientifiche, al punto che
la competenza tecnologica è diventata un chiaro connotato di mascolinità.
Esiste una suddivisione netta tra le sfere di competenza maschili e
femminili per quanto riguarda le tecnologie e le donne occupano sempre la
nicchia delle competenze meno gratificanti dal punto di vista sociale. Il
fatto è che la competenza tecnica viene collegata alle capacità, che sono
culturalmente definite. La ragione di questa attribuzione ha radici profonde
nella storia occidentale, nella quale il genere femminile ha subito una forte
svalutazione culturale a favore di quello maschile. Esiste un dualismo che
vede nel principio femminile la corporeità e la natura, mentre in quello
maschile il pensiero razionale e la cultura. La prima concettualizzazione
filosofica di questo principio avviene con Aristotele che vede la donna
come mera corporeità, utile al processo di riproduzione dove il maschio ha
il ruolo più importante. La cultura greca assimilava la donna alla parte
selvaggia della natura umana; laddove l’uomo rappresentava l’ordine, la
donna era caos. Questa dicotomia originaria ha ratificato la supremazia di
un genere sull’altro e l’ha estesa a tutti i livelli di vita e a tutti gli aspetti
della conoscenza. Da ciò consegue che il sistema di divisione del lavoro,
che in ogni società vede suddivisi i compiti tra i sessi secondo precise
regole di attribuzione, porta ad affidare agli uomini le competenze
riconosciute come più complesse e socialmente gratificanti. Questa realtà si
7
riflette nel mondo dell’informatica ritenuto da sempre dominio del
maschio. Numerose studiose hanno analizzato il rapporto conflittuale delle
donne con l’informatica. S. Turkle afferma che sin da piccole le bambine
vengono socializzate a temere la macchina, atteggiamento che si tradurrà,
in età adulta, in disagio nei confronti della tecnologia e del computer. Alle
bambine vengono così forniti giochi che rispecchiano la suddivisione dei
compiti per genere, come per esempio pentole e bambolotti, mentre ai
bambini si regalano costruzioni e macchine.
La familiarità con l’informatica comincia per i maschi in età molto bassa,
grazie ai videogame attraverso i quali imparano ad interagire con la
macchina. Già in tenera età perciò si evidenzia una discriminazione di
genere poiché la maggior parte di videogame è destinata ad un mercato
maschile. Alcuni studi hanno analizzato i contenuti di questi videogame
concludendo che i temi prevalenti sono quelli di guerra, competizione e
sport maschili. Tutto ciò porta le bambine a disinteressarsi a questi giochi
e, quindi, a non influenzare il mercato.
Anche la realtà della scuola non è immune dalla discriminazione. Ci sono
pochissime docenti donne nel campo dell’informatica. La mancanza di
modelli di riferimento per le studentesse non le incentiva ad intraprendere
studi e carriere in questo ambito. Un altro dato che emerge dagli studi
esaminati è il diverso atteggiamento nei confronti di maschi e femmine da
parte dei docenti. Nelle classi di informatica gli insegnanti tendono a
rivolgersi ai soli maschi, ignorando le domande delle ragazze. Scoraggiare
le donne dall’intraprendere studi di tipo scientifico e tecnologico non è
un’azione conscia, ma il prodotto di una cultura in cui la distribuzione del
potere tra uomini e donne risulta disuguale. Le teoriche femministe
sottolineano come la persistenza di certi meccanismi discriminatori sia
causata dalla necessità del sistema patriarcale di mantenere un gruppo nella
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condizione di essere sfruttato economicamente e socialmente. La divisione
del lavoro nella cultura alto-tecnologica non solo porta ad affidare all’uomo
le mansioni socialmente più gratificanti, ma quando un certo tipo di
tecnologia diventa di dominio prevalentemente femminile, esso diminuisce
di status o smette di essere considerata tecnologia. Così, in una società
stratificata in base al genere quanto viene fatto dagli uomini, solo perché
fatto da loro, è considerato compito più qualificato o difficile rispetto ai
compiti femminili. Per esempio, in India la raccolta del riso è una mansione
svolta da entrambi i sessi, ma nelle zone in cui questa attività è svolta solo
dalle donne, è considerata un’attività facile, dove invece è una mansione
maschile è ritenuta difficile.
Più in generale si può dire che il controllo della tecnologia come il
monopolio delle armi, sono attività per lo più vietate alle donne poiché
consentono il controllo dell’organizzazione simbolica di una società. Tanto
le caratteristiche ascritte alla scienza quanto quelle di genere si rivelano
così costruzioni culturali modellate in funzione delle scelte di valore e delle
stratificazioni di potere che prevalgono nella società.
Ricostruendo il processo psicologico di formazione dell’identità di genere
nelle primissime fasi della vita, E. Fox Keller mostra che all’iniziale
fusione indifferenziata del bambino con chi si occupa di lui (generalmente
la madre), subentra un processo di individuazione di sé che per i maschi è il
riconoscimento di una diversità irriducibile, mentre per le femmine una
separazione in cui però si prolunga l’identificazione con l’altra. Il canone
dell’oggettività (che discrimina tra scienza e non scienza proprio in base
alla capacità o meno di conoscere i fenomeni esterni prescindendo dal
soggetto) appare segnato da una parzialità intrinseca: quella dell’identità
maschile.
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Esiste secondo alcune studiose, tra cui S. Turkle, un pluralismo
epistemologico nell’apprendimento e nell’elaborazione delle nozioni
acquisite. Esempio emblematico di questo pluralismo è l’attività di ricerca
svolta dalla genetista Barbara McClintock. Per la scienziata lo studio era
essenzialmente una conversazione col materiale col quale bisogna
instaurare un feeling. Il lavoro di Barbara McClintock non fu accettato
dalla comunità scientifica finché non le fu conferito il Premio Nobel,
premio attribuito solo dopo che le sue medesime conclusioni furono
raggiunte con metodi scientifici convenzionali.
Un discorso a parte merita poi la CMC (Comunicazione Mediata da
Computer). Anche in questo ambito si assiste ad un tentativo di
circoscrivere la presenza femminile, svalutandone gli interventi o attuando
aggressioni verbali. È stato notato che quando la percentuale di contributi
femminili alla conversazione supera il 30%, gli uomini assumono un
atteggiamento difensivo ed insultante. Nonostante questi episodi le donne
contribuiscono in modo determinante allo sviluppo della rete. Se da una
parte l’anonimato che consente il mezzo elettronico permette alcuni
comportamenti aggressivi, dall’altra consente a molti di esprimere
liberamente il proprio pensiero e contribuisce alla ricchezza culturale.
L’obiettivo da raggiungere diventa perciò democratizzare l’accesso alla
produzione e alla trasmissione del sapere per costruire una tecnologica che
tenga conto delle differenze individuali più che quelle di genere.
Nel terzo capitolo si sottolinea come l’approccio al sapere tecno-scientifico
non debba necessariamente essere sottoposto al vincolo di una pretesa
oggettività che risulta in realtà essere contaminata dal genere. Ne consegue
che la scienza è un prodotto sociale e quindi soggetta alle pressioni
ideologiche e culturali dell’ambiente in cui si sviluppa. Segue una breve
analisi delle conclusioni dell’epistemologia femminista riguardo la
10
condizione del soggetto conoscente. Questo non è più visto come
imparziale, autonomo e disincarnato, ma piuttosto come inserito in un
preciso contesto culturale dal quale non si può prescindere. Ciò vuol dire
che il sapere che si produrrà non sarà universale ed oggettivo, ma parziale e
relativo ad un contesto circoscritto.
La scienza deve perciò essere costruita su rapporti sociali non fondati sul
dominio. Da ciò deriva un rifiuto di tutte le forme di rivendicazione
ideologica di una oggettività pura, radicate in quella scissione tra soggetto e
oggetto che è valsa a legittimare una logica di dominio sulla natura. Il
concetto che emerge con insistenza in questo dibattito è quello di
nomadismo. Nomade è il soggetto “che ha abbandonato ogni idea,
desiderio di stabilità”, la cui identità non è fissata una volta per tutte, ma
piuttosto si ridisegna interagendo col mondo. La sua realtà biologica non
basta a collocarlo in una sfera precisa poiché anche nell’ambito dello stesso
genere esistono differenze dalle quali non si può prescindere: ad esempio la
razza, la classe e qualunque altra specificità socio-culturale. Il corpo o
‘incarnazione del soggetto’ costituisce l’asse più importante attorno cui si
snoda la riflessione di studiose come R. Braidotti che, nel suo intervento
alla Quarta Conferenza Europea Femminista, definisce la parte corporea
importante tanto quanto quella discorsiva. Lungi dal considerare la
tecnologia come un luogo del sapere disincarnato, ne sottolinea invece il
carattere misogino e auspica quindi un ruolo più attivo da parte delle donne
nello sviluppo delle nuove tecnologie e del cyberspazio. Per questi motivi
bisogna sostenere il cyberfemminismo, movimento di pensiero che intende
utilizzare le nuove tecnologie in favore delle donne, usando il cyberspazio
come luogo privilegiato in cui esprimersi. La caratteristica che deve
contraddistinguere oggi l’agire delle donne è la negoziazione continua tra
soggetti diversi. D. Haraway elabora una definizione della nuova
11
soggettività che si affaccia sulla scena dei saperi tecnologici: il cyborg.
Ibrido, misto di corpo e macchina, il cyborg semina confusione tra
distinzioni dualistiche come umano e meccanico, natura e cultura, maschio
e femmina. Questa nuova figurazione del soggetto diventa l’emblema
dell’assenza del genere, “il luogo in cui cade ogni tipo di confine che ha
strutturato la nostra interpretazione del reale”.
L’analisi termina con uno sguardo sul mondo della net art femminile e
cyberfemminista. Le nuove identità che emergono dalle macerie lasciate
dal soggetto necessitano di nuovi spazi per potersi esprimere. Il
cyberspazio, connotato, come dice S. Stone, da un intenso desiderio della
rappresentazione e dall’assenza di confini tra il sociale e il tecnologico, si
presta ad un uso estetico. Le net artist sovvertono la concezione diffusa di
spazio elettronico come luogo disincarnato, dove il corpo è obsoleto. I loro
lavori sono ‘carnali’, i corpi vengono scansionati e rielaborati
elettronicamente in forme ibride che si ribellano ai modelli estetici cui la
cultura patriarcale ci ha abituati. La tecnologia diventa un’arma per
decifrare tecniche di dominio insite nella cultura high-tech, in modo da
ridimensionare quei connotati maschilisti che hanno finora alienato le
donne dall’uso dei dispositivi tecnologici. Così Linda Dement digitalizza il
corpo femminile, che frammenta e ricompone in figure mostruose per
sottolineare la capacità delle donne di ribellarsi agli stereotipi di una
femminilità sottomessa ed inerme. Mentre la performer Orlan si sottopone
ad interventi di chirurgia estetica per modificare il proprio corpo al punto
da renderlo deforme rispetto ai canoni estetici della nostra cultura. Anche il
corpo, come il soggetto, diventa un concetto fluido, sottoposto a mutazioni
continue grazie alla tecnologia. Anch’esso diventa un mezzo per
rinegoziare la soggettività e si fa luogo di resistenza, di battaglie per
rivendicare il diritto di ogni aspetto della soggettività ad esistere.
12
Attraverso gli interventi della tecnologia il corpo femminile e dunque la
donna stessa ribadiscono la propria ‘culturalità’, rifiutando quello statuto di
presunta naturalità nel quale da sempre sono stati relegati.
13
Capitolo primo
Storia del ruolo femminile nella produzione del sapere tecno-scientifico
“Le donne sono state condizionate a considerare
riprovevole ogni atto che affermi il valore
dell’ego femminile. L’ambizione femminile può
‘passare’ solo quando viene diluita
nell’ambizione vicaria tramite il maschio o per
conto di valori patriarcali.”
Mary Daly, Al di là di dio padre,1990
1.1 Esclusione dal sapere, esclusione dal potere
Date le condizioni storiche che hanno prevalso nell’accesso delle donne al
mondo scientifico, non è possibile, in linea di massima, riferirci alle donne
scienziate come ad esempi di cultura femminile. Necessità vuole che la loro
acculturazione sia stata quasi sempre anomala. Infatti poichè non sono state
educate allo stesso modo degli uomini, e sono state generalmente obbligate
ad occupare posizioni periferiche rispetto alla cultura scientifica dominante,
le loro prospettive e i loro contributi alla scienza mostrano sovente il
marchio della loro marginalità.
La maggioranza degli odierni storici della tecnologia, guardando al passato
con le lenti deformanti dello stereotipo culturale secondo il quale le donne
non inventano, ha trovato, ovviamente, che le donne non hanno mai
inventato nulla.
Da lungo tempo si sarebbe dovuta fare una revisione di quel modo di
presentare la storia, sì da rivalutare pienamente e fedelmente i contributi
delle donne attraverso i secoli. Una volta fatta questa revisione verrebbero
loro riconosciuti la creazione sia gli apporti dati a molte invenzioni
significative nel senso di entrambe o anche di una sola delle definizioni
relative alla tecnologia. “Verrebbero messe in rilievo le conquiste realizzate
dalle donne in epoca preistorica nel settore delll’orticoltura e
dell’agricoltura, quali la zappa, l’aratro, l’innesto, l’impollinazione, le
14
prime forme di irrigazione. Dalla tessitura verrebbe fatta derivare
l’architettura, la chimica dalla cucina e dalla profumeria, la metallurgia
dalla lavorazione del vasellame. In tempi più recenti verrebbero
riconosciuti, ad esempio, i contributi dati da Julia Hall insieme al fratello al
processo di estrazione dell’alluminio dal minerale, la collaborazione fornita
da Emily Davenport al marito nel lavoro sul piccolo motore elettrico, il
contributo di Bertha Lammè alla realizzazione dei primi generatori
Westinghouse e di altre grandi macchine. In breve, se prendiamo in esame
tanto la storia quanto la preistoria, verifichiamo che le donne sorreggono
almeno i due terzi del cielo tecnologico.”
1
L. U. Biagi sostiene che è particolarmente complesso affrontare il tema del
rapporto tra la donna ed una scienza per la quale è andata consolidandosi,
soprattutto negli ultimi quattro secoli, la metafora: scienza = potere =
maschile.
Ad esempio, “le teorie meccanicistiche proposte dalla fisica del XVII
secolo, ancor oggi a fondamento dell'istruzione di base, continuano a far
percepire la natura come una macchina. Sono pochi gli insegnanti di area
scientifica che non dichiarino come fine dell'apprendimento il cosiddetto
"metodo scientifico" poco attenti al fatto che esso risale ai primi fisici del
'600. Il razionalismo scientifico è un metodo che tenta di dare ordine
all'apparente caos delle ricerche, delle scoperte che procedono per
intuizioni, analogie, casualità, sensazioni, credenze legate al proprio
momento storico, stereotipi sociali. (…) La messa in crisi da più di
cinquant’anni del razionalismo scientifico, sembra non aver sfiorato il
mondo accademico e quello docente che viaggiano ancora sulla strada della
cosiddetta "oggettività".”
2
1
Rothschild J. (a cura di), Donne, tecnologia, scienza, Torino, Rosenberg & Sellier, 1986, p.74
2
Biagi L. U., Verso le conquiste di parità in www.eurplace.org/diba/citta/giorcitt/biagi.htm
15
E. Fox Keller in Sul genere e la scienza illustra il concetto del "distacco"
nell'esercizio della conoscenza così come nell'esercizio del potere. Esso ha
trovato interpretazioni in chiave psicoanalitica che fanno risalire alla
costruzione della propria identità sessuata (appartenenza di genere) il modo
di guardare il mondo, che attribuisce quindi alla scienza stessa le
caratteristiche di un genere: quello maschile (oggettività, razionalità,
aggressività nell'indagare, indifferenza etico/emotiva sui risultati...) e anche
per questo l'insegnamento dei fondamenti scientifici assume un aspetto
autoritario che tende a "trasmettere verità consolidate”.
Esemplificativo è il suo testo sul premio Nobel 1983 per la genetica,
Barbara McClintock
3
, emarginata per quarant’anni nei suoi studi sulla
genetica vegetale perché, anziché impostare la propria ricerca sul
"distacco", l'aveva sempre condotta "simpatizzando" con le cellule oggetto
di ricerca, fondando cioè le proprie congetture su basi intuitivo/emotive, e
dunque condannando le proprie scoperte alla inattendibilità o scarsa
significatività. “Nonostante il rispetto e l’ammirazione dei colleghi, la sua
opera più importante è rimasta fino a non molto tempo fa poco apprezzata,
incompresa e assolutamente non integrata nel sempre più vasto corpus del
pensiero biologico. (…) Ancor oggi, premio Nobel e con altri premi e
onorificenze, la McClintock si considera fondamentalmente una fuorilegge
nel mondo della biologia moderna, non perché donna, ma perché deviante
sul piano filosofico e metodologico.”
4
La storia degli ultimi quattro secoli, da un lato, ha attribuito alla scienza il
compito di soggiogare la natura, dall’altro, ha costruito lo stereotipo
misogino secondo cui le donne, nella loro emotività irragionevole,
3
Biografia di Barbara McClintock in http://crux.astr.ua.edu/4000ws/mcclintock.htm
4
Fox Keller E., Sul genere e la scienza, Milano, Garzanti, 1987, pp.188-189
16
sarebbero più vicine alla natura e per ciò stesso incapaci di conoscere e di
agire all'insegna delle necessità oggettive.
Secondo C. Merchant alla radice dell'identificazione delle donne con una
forma di vita umana inferiore c'è la distinzione fra natura e cultura. Questo
dualismo è un fattore chiave nel progresso della civiltà occidentale a spese
della natura. “La cultura occidentale si fonda sull'assunto implicito della
superiorità della cultura sulla natura. Gli antropologi hanno sottolineato che
tanto la natura quanto la donna vengono percepite a un livello inferiore
rispetto alla cultura, la quale è stata associata simbolicamente e
storicamente all'uomo. Poichè le funzioni fisiologiche, proprie delle donne,
della procreazione, dell'allattamento e dell'allevamento dei figli sono
considerate più vicine alla natura, il ruolo sociale della donna è inferiore
sulla scala culturale, a quello del maschio. Le donne sono svalutate dai
loro compiti e ruoli, dalla loro esclusione dalle funzioni della comunità da
cui si deriva il potere, e da motivi di ordine simbolico.”
5
E. Badinter afferma, citando F. Héritier, che nessuna società riesce a fare in
modo che uomini e donne siano assolutamente simmetrici. Il principio
sembra applicarsi con esattezza al caso delle società patriarcali. Qui i miti
di origine e numerosi sistemi di filosofici sono basati su un sistema di
categorie binarie, che contrappongono il maschile al femminile, come il
superiore all’inferiore. “Situata al margine delle conoscenze, delle relazioni
e delle pratiche che sono più valorizzate, collocata dalla parte degli
strumenti o delle cose, delle attività disprezzate, dei comportamenti di
dipendenza, per l'uomo la donna è l'altro più che il partner complementare;
e questa alterità si dice e si rinforza, mediante il ricorso a sistemi di
5
Merchant C., La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, Milano, Garzanti,
1988, pp.192-193
17
rappresentazioni, di simboli, di proiezioni immaginarie, di modelli di
comportamento.”
6
Il fatto stesso che la popolazione scientifica sia ancora oggi
prevalentemente maschile è la conseguenza, non già la causa,
dell’attribuzione della mascolinità al pensiero scientifico. “Un tempo era
normale sentire scienziati, insegnanti e genitori affermare tranquillamente
che le donne non potessero e non dovessero farsi scienziate, mancando loro
la forza, il rigore e la chiarezza di idee indispensabili a un’occupazione che
ben si conviene agli uomini. Adesso che il movimento delle donne ha
puntato il dito su tali asserzioni nude e crude, sta passando di moda l’aperta
professione di fede nella maschilità intrinseca del pensiero scientifico.
Eppure tale credenza trova ancora quotidiana espressione nel linguaggio e
nelle metafore di cui ci si serve per definire la scienza. Possiamo fare il
caso dei due aggettivi che in inglese significano “duro” e “morbido” (hard
e soft). Quando battezziamo come hard le scienze oggettive, opponendole
alle branche più morbide (cioè più soggettive) del sapere, implicitamente
evochiamo la metafora sessuale in cui hard è ovviamente maschile e soft
femminile. (…) Di una donna che ragiona scientificamente o
obiettivamente si dice che “ pensa come un uomo” e, per converso, di un
uomo che si lascia andare ad argomentazioni non razionali e non
scientifiche si dice che “discute come una donna”. Questo è ciò che si
intende per radicamento linguistico di uno stereotipo.”
7
La critica femminista alla scienza ha operato una forte evidenziazione delle
distorsioni che sottendono una pretesa oggettività e universalità, e tuttavia
il problema oggi non è quello di inventare una scienza al femminile: "se si
analizzano dall'esterno le figure di donne scienziate si evidenzia un modo
6
Badinter E., L’uno e l’altra. Sulle relazioni tra uomo e donna, Milano, Longanesi, 1993 p.124
7
ibidem p.95
18
di porsi diverso rispetto al metodo di ricerca o alla conquista di
riconoscimento accademico, ma la rimozione della propria identità è già
stata una necessità attuata, l'essere scienziata prevale sull'essere donna e
nessuna intende fare scienza al femminile.”
8
Il controllo del fuoco costituisce una delle più importanti conquiste
tecnologiche della preistoria. Introdotto in Europa alla metà dell’era
glaciale, in un periodo che va da 75.000 a 50.000 anni or sono, esso
consentì all’uomo di Neanderthal di competere con i grandi animali per il
possesso delle caverne e in esse sopravvivere durante gli inverni dell’era
glaciale. “Quali che siano le origini del fuoco in diverse culture, è indubbio
che le donne nel loro lavoro, vi fecero ricorso più degli uomini: se ne
servirono per proteggere i bambini dalle belve, riscaldare l’ambiente in cui
vivevano, indurire la punta del bastone da scavo, cucinare, eliminare le
sostanze tossiche dal cibo e provvedere alla sua conservazione, scavare nel
legno tazze ed altre stoviglie, cuocere l’argilla, bruciare la vegetazione per
gli orti.”
9
Le testimonianze mitologiche collegano strettamente le donne
con il dominio del fuoco. “Le divinità e le guardiane del focolare sono
spesso donne, da Isis ed Hestia alle Vergini vestali alle custodi della sacra
fiamma di Brigit in Irlanda. Un inno ad Artemide ci racconta come la Dea
realizzò la prima torcia staccando un ramo di pino sul monte Olimpo ed
accendendolo alle braci d’un albero colpito dal fulmine. Un mito Yahi
(Indiani americani) narra d’una anziana donna che rubò pochi carboni al
Popolo del Fuoco e li portò a casa nascondendoli nel cavo dell’orecchio.”
10
8
Rothschild J. (a cura di), op. cit., p.26
9
ibidem., p.78
10
Rothschild J. (a cura di), op. cit., p.75