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INTRODUZIONE
La presente trattazione intende analizzare il meccanismo d’azione e l’efficacia del
Training Autogeno, una tecnica ampiamente utilizzata come metodo di cura, come
strumento di rilassamento e come pratica di meditazione in numerosi ambiti clinici e
non clinici, in particolar modo nei paesi di lingua tedesca. Ideato dallo psichiatra
Johannes Heinrich Schultz all’inizio del secolo scorso, esso è caratterizzato
dall’apprendimento di determinati atteggiamenti psichici e specifiche formule mentali,
concepiti in modo tale da promuovere un rivolgimento verso l’interno e l’interiorità, un
maggior contatto con il proprio corpo e un aumento dell’equilibrio neurovegetativo e
psicologico. La mobilitazione delle risorse e delle energie psicofisiologiche necessarie
a conseguire gli obiettivi di cambiamento sono resi possibili dalla natura stessa degli
esercizi, in grado di procurare all’individuo che li pratica uno stato alterato di
coscienza autoindotto di quieta vigilanza (restful alertness state). In questo modo, da
un lato, il soggetto può beneficiare delle caratteristiche tipiche del sonno, le quali
permettono il distacco dagli stimoli esterni e dall’intensa emotività, la sospensione
delle azioni comportamentali, il restringimento del campo di coscienza e delle funzioni
cognitive, il rilassamento psicofisico e il recupero energetico. Dall’altro lato, può
invece trarre i vantaggi della veglia rilassata, ovvero il mantenimento di una minima
quota di vigilanza, la concentrazione sulle funzioni mentali e corporee (esplicata dalle
specifiche formule degli esercizi) e la memoria degli accadimenti interni. Gli esiti
fondamentali procurati dallo stato autogeno sono: un maggiore equilibrio omeostatico,
un miglioramento dell’attività di base del sistema vegetativo, grazie all’aumento del
tono parasimpatico, e un ampliamento della conoscenza di sé e dello schema corporeo,
nonché un profondo senso di calma e di benessere. Alla luce dei cambiamenti ottenibili
attraverso la sua pratica abituale, il Training Autogeno può essere utilizzato sia come
tecnica rivolta al miglioramento della qualità della vita e alla prevenzione, sia come
strumento terapeutico rivolto alla cura di disturbi psicologici. Se impiegato in senso
terapeutico, il Training Autogeno può costituire parte integrante di un metodo
psicoterapeutico, sia che si tratti di quello proposto da Schultz stesso – la Psicoterapia
Bionomico - Autogena – sia che si opti per quelli propri di altri orientamenti, come
quello psicoanalitico o quello cognitivista, ai quali è spesso stato abbinato. In questo
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contesto, tuttavia, verrà presa in esame esclusivamente la tecnica tout court con
l’obiettivo principale di enuclearne il meccanismo d’azione e i cambiamenti psicofisici
soggettivamente esperibili e di giustificarne l’ampio utilizzo nei diversi ambiti. A tal
fine sarà analizzata la letteratura scientifica classica e quella più aggiornata riguardo al
Training Autogeno.
Nel primo capitolo, verrà così descritto il contesto storico - culturale da cui trae
origine il Training Autogeno: saranno brevemente illustrate le dottrine formulate agli
albori della tecnica dagli autori più significativi come Vogt, Kretschmer, Schultz e
Luthe. In un secondo momento, verranno mostrate le affinità e gli elementi di contrasto
di questa tecnica rispetto ad altre considerate, tuttavia, affini ad essa, ovvero il
rilassamento progressivo di Jacobson, l’ipnosi e la meditazione Yoga.
Nel secondo capitolo, la tecnica sarà descritta in senso teorico e in senso
pratico: a tal fine, saranno illustrati i suoi principali fondamenti teorici, soffermandosi
in modo particolare sui concetti di autogenia, suggestione, concentrazione passiva e
commutazione. Una volta chiarite le basi concettuali, sarà fornita una descrizione
dell’allenamento specifico di entrambi i cicli del Training Autogeno.
Nel terzo capitolo, invece, saranno analizzati i correlati neurofisiologici della
tecnica esaminando gli studi neuroscientifici più recenti sul tema: in particolare,
saranno oggetto di indagine i processi neuropsicologici dell’ideoplasia e della
generalizzazione, considerati la conditio sine qua non della riuscita degli esercizi. In
seguito, sarà approfondito l’altrettanto fondamentale processo di autoinduzione dello
stato alterato di coscienza grazie al quale è possibile giungere a un riequilibrio nel
funzionamento del sistema nervoso autonomo. Infine, verranno illustrati due effetti del
Training Autogeno che rendono questa tecnica applicabile in numerosi ambiti: la
riduzione dello stress e la facilitazione della gestione del dolore.
Nel quarto capitolo, saranno spiegate le numerose modificazioni psichiche e
fisiologiche soggettivamente esperibili a seguito di un sistematico allenamento
autogeno: questi cambiamenti sono gli effetti manifesti prodotti dalla regolazione del
funzionamento neurovegetativo. Inoltre, verrà anche fornita una sintesi delle
indicazioni e delle controindicazioni del Training Autogeno.
Nel quinto capitolo, infine, verrà fornita un’ampia rassegna degli ambiti di
applicazione di questa tecnica, giustificati dai risultati ottenuti dalle più recenti
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ricerche scientifiche. Sarà così valutata l’efficacia del metodo autogeno in ambito
clinico per la cura dei disturbi psicosomatici e psicovegetativi, in quelli neurologici e
in quelli psicologici; in seguito sarà esaminata l’efficacia della tecnica nell’ambito
prestazionale sportivo, scolastico e lavorativo.
Al termine della trattazione, sarà così evidente che questa tecnica, lungi dal
rappresentare un semplice metodo palliativo, può al contrario costituire un solido
strumento di incremento del benessere, sia che esso venga affiancato a terapie mediche
o psicoterapie consolidate, sia che esso venga utilizzato in ambito non clinico.
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CAPITOLO PRIMO
PERCORSI STORICI E TECNICHE AFFINI
1.1. Cenni storici.
Il Training Autogeno è una tecnica terapeutica elaborata da Johannes Heinrich
Schultz nel primo decennio del 1900 che mira a promuovere il raggiungimento di uno
stato suggestivo e cambiamenti somatici e psichici, analoghi a quelli indotti dalle
metodologie ipnotiche, mediante determinati esercizi mentali e fisici. La fondamentale
differenza di metodo rispetto all’ipnosi è, tuttavia, ravvisabile già a partire dallo stesso
termine «autogeno» (dal greco α ὐτός e γεννάω), il quale fa riferimento, letteralmente, a
«qualcosa che si genera da sé», in contrapposizione all’ipnosi che, tipicamente, è
definibile come «eterogena», essendo artificialmente eteroindotta (Peresson, 1980;
Peresson, 1979; Brancaleone, 2010). Se, da un lato, il Training Autogeno affonda le
proprie radici proprio nell’ipnosi, dall’altro, sorge a seguito degli studi scientifici
condotti a cavallo tra il 1800 e il 1900, sia in ambito psicologico che in ambito
neurofisiologico: Schultz stesso, infatti, afferma (1966a; 1966b) di essere stato
influenzato dagli psichiatri contemporanei, in particolar modo dal neurofisiologo
Oskar Vogt e dallo psichiatra Ernst Kretschmer.
Oskar Vogt ha condotto importanti studi sul sonno e sul fenomeno ipnotico
riscontrando una certa analogia tra due eventi apparentemente dissimili, ma attivati
dallo stesso «centro del sonno» operante per via riflessa (Hoffmann, 1977): sia il sonno
che l’ipnosi sono in grado di attivare lo stesso stato psicofisiologico, il quale inibisce i
meccanismi centrali e periferici tipici dello stato di veglia. A partire dai suoi studi, il
neurofisiologo ha ideato e proposto il metodo dell’Ipnosi Frazionata, il cui fine è
raggiungere appunto uno stato di coscienza simile al sonno e all’ipnosi attraverso un
procedimento differente: inizialmente, durante le prime sedute, il paziente viene
ipnotizzato nelle stesse condizioni ambientali tipiche dell’addormentamento, tramite
esercizi verbali molto semplici, successivamente viene riportato allo stato di veglia e
invitato a raccontare tutto ciò che ha provato durante lo stato alterato di coscienza,
mediante la stesura di un protocollo (Peresson, 1980; Brancaleone, 2010). In
quest’ultimo aspetto si sostanzia una reale svolta rispetto alla pratica ipnotica: il
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paziente è ora messo nelle condizioni di apprendere il metodo e giungere ad applicarlo
in completa autonomia, attraverso l’esplicitazione degli accadimenti interni, grazie agli
esercizi verbali e alla concentrazione passiva. Si sancisce, così, il passaggio dall’ipnosi
all’autoipnosi (Hoffmann, 1977). Ispirandosi a questo metodo, che, in definitiva, è alla
base del Training Autogeno, Schultz promuove, fin dagli albori della tecnica, un buon
addestramento all’autoipnosi per realizzare uno stato di rilassamento, di calma e di
recupero energetico (Schultz, 1966a). Il paziente, «trovandosi in una situazione
particolarmente critica dal punto di vista fisico o psichico, sarebbe [così] in grado […]
di evitare che le eccitazioni possano raggiungere livelli tali da divenire dannose. Con
tali modalità l’autoipnosi diventa un mezzo per ottenere ciò che O. Vogt definisce
pause profilattiche» (ibi, p. 4).
Kretschmer, psichiatra impegnato soprattutto nell’ambito della psicopatologia,
mostrò grande interesse nei confronti del Training Autogeno, tanto da avere dei
proficui scambi con Schultz: ritenne infatti che il metodo appena inaugurato fosse in
grado di promuovere la commutazione necessaria per riportare l’equilibrio interno
della personalità del nevrotico (Brancaleone, 2011). A questo riguardo, Masi (1993)
sottolinea che, secondo Kretschmer, la commutazione rende possibile modificare la
personalità del paziente attraverso una decorticazione funzionale, intervenendo sugli
strati arcaici della Tiefenperson (la personalità profonda). Questi strati arcaici sono
denominati «iponoici» in quanto appartengono a un livello di pensiero primitivo che si
esprime in una modalità immaginativa affettivamente connotata, e «ipobulici», ossia
legati a un’attività motoria arcaica, una psicomotricità involontaria connessa
all’emotività, di matrice tanto psichica quanto biologica, fortemente dipendenti
dall’equilibrio interno e che tendono a estremizzarsi in assenza di esso, producendo le
tipiche sintomatologie nevrotiche (tanto psichiche quanto somatiche). Attraverso il
Training Autogeno quotidiano è possibile, secondo Kretschmer, ottenere un
riequilibrio delle strutture nervose e dei sistemi regolatori dell’intero organismo,
raggiungendo così l’omeostasi psicofisica (Masi, 1993; Brancaleone, 2011).
Kretschmer approfondisce inoltre la concentrazione passiva, un aspetto del Training
Autogeno considerato centrale e, peraltro, in comune con la meditazione: l’autore
sottolinea che il termine «passivo» non ha la medesima accezione che riveste nella
teoria dell’ipnosi – laddove il paziente è considerato passivo, appunto, rispetto
all’ipnotista – bensì va inteso come «disponibilità al lasciar accadere in sé; in quanto,
invece di volgere intenzionalmente sul mondo, la coscienza del soggetto si fa docile