VI
decisamente abbandonato, essendo il legislatore riuscito a completare il lento,
ma costante, processo di avvicinamento tra le due suddette discipline.
L’aggregazione dei due regimi, secondo le indicazioni fornite dallo stesso
legislatore (articolo 1 del decreto legislativo n. 29 del 1993, primo comma), è
stata realizzata proprio allo scopo di accrescere, quanto più possibile,
l’efficienza delle amministrazioni e razionalizzare il costo del lavoro pubblico.
Ma vediamo ora in cosa sono consistiti quei due momenti – accennati in
precedenza ed in cui, seppur convenzionalmente, è possibile ripartire la prima
privatizzazione del 1993 – attraverso i quali si sono di fatto concretizzati gli
interventi statali fondamentali per il perseguimento della riforma.
Il principale elemento caratterizzante la prima fase è da ricondursi ad
un evento di estrema importanza, che ricalca parzialmente ciò che sin qua è
stato riassunto: ovvero il conferimento, da parte della legge delega n. 421 del
1992, di un mandato al legislatore delegato, al fine di disporre che i rapporti
di impiego con le pubbliche amministrazioni fossero ricondotti sotto l’unica
disciplina del diritto civile e che venissero regolati attraverso le figure dei
contratti individuali e collettivi di lavoro.
Attraverso questa legge delega si disponeva, inoltre, di riservare alla
legge – o ad atti normativi o anche amministrativi, da quest’ultima derivati –
un elenco di sette materie esterne alla gestione del rapporto di lavoro in senso
stretto, sebbene ad esso potessero comunque risultare strettamente avvinte.
Durante la seconda fase, invece, sia per chiarire definitivamente la
qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, sia per rendere più flessibile
l’intera attività organizzativa delle pubbliche amministrazioni, il legislatore
delegante ha disposto che il legislatore delegato completasse l’integrazione
della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato. Si trattava,
in sostanza, di estendere anche al pubblico impiego quelle stesse
disposizioni – della legge e del Codice Civile – che da sempre delineavano la
cornice normativa propria del rapporto di lavoro privato nelle imprese.
VII
In aggiunta a ciò che già si è detto, va poi precisato che un efficace
modello organizzativo capace di assicurare, da una parte, l’utilizzo del lavoro
umano e, dall’altra, le esigenze di tutela degli interessi del lavoratore – che in
quella stessa organizzazione era inserito – non avrebbe potuto necessitare di
diversificazioni solo per il fatto che l’attività lavorativa fosse destinata al
perseguimento di fini pubblici, ovvero di interessi privati.
Così, fatta eccezione per le categorie escluse (articolo 2 del decreto
legislativo n. 29 del 1993, comma 4) a ragione della particolare rilevanza che
si è voluto continuare ad assegnare alle funzioni pubbliche da esse svolte, si
deve ritenere che il presupposto alla base di questa nuova disciplina consista
nel fatto che le modalità con le quali i dipendenti pubblici eseguono la loro
prestazione lavorativa – anche quando, come accade soprattutto per i
dirigenti, questa comporti l’esercizio di pubblici poteri – non presentino, di
fatto, differenze di rilievo rispetto a quelle che invece da sempre
caratterizzano la posizione dei lavoratori privati.
Del resto, qualora anche dovessero esistere differenze di questo tipo, esse
non sarebbero comunque tali da giustificare il mantenimento di regimi
diversi ispirati a logiche differenziate.
Che poi tale aggregazione di regimi sia avvenuta semplicemente a
seguito dell’estensione, anche ai lavoratori pubblici, di quel ramo del diritto
valido nella sfera relativa al rapporto di lavoro privato, si spiega con la
ritenuta maggiore idoneità della disciplina dettata per quest’ultimo a
realizzare un equilibrato contemperamento dei contrapposti interessi di chi
lavorava, da un lato, e dell’organizzazione in cui il lavoro stesso veniva svolto,
dall’altro.
D’altra parte, proprio la concezione tradizionale, alla quale era ancora
in gran parte ispirato il vecchio regime del lavoro pubblico, imponeva di
assegnare allo Stato una posizione preminente nel rapporto con i suoi
dipendenti; tutto ciò quasi esclusivamente in ragione dell’attribuzione a
questi ultimi dell’esercizio di pubbliche funzioni.
VIII
Quindi si può dire che organizzazione del lavoro pubblico ed
organizzazione del lavoro privato siano oramai destinate a trovare
realizzazione mediante rapporti giuridici aventi lo stesso contenuto di diritti e
di obblighi.
Naturalmente posto che, nelle materie non specificamente regolate da
particolari disposizioni di legge o da atti autoritativi, le amministrazioni
pubbliche operino con i poteri propri del privato datore di lavoro, ovvero
adottando tutte le misure inerenti all’organizzazione ed alla gestione dei
rapporti di lavoro.
Infatti, restano tutt’oggi sottoposte al diritto pubblico solamente le linee
fondamentali per quanto attiene il profilo organizzativo degli uffici,
l’individuazione nonché le modalità di conferimento degli uffici stessi di
maggiore rilevanza, le dotazioni organiche complessive; per definirli con una
locuzione tecnica: gli “atti di micro–organizzazione”.
Quando, al contrario, le pubbliche amministrazioni pongono in essere i
cosiddetti “atti di micro–organizzazione” – ovvero di gestione dei rapporti
lavorativi – esse agiscono con i poteri propri del privato datore di lavoro.
Insomma, perfino la dirigenza pubblica – cui la riforma ha attribuito i
poteri gestionali spettanti alla pubblica amministrazione – adesso non opera
più compiendo atti di natura amministrativa, bensì ponendo in essere
semplicemente atti negoziali di stampo privatistico; questo sia durante
l’espletamento della propria attività organizzativa minore, sia in quella
relativa alla gestione del personale.
Tuttavia – secondo il più severo giudizio di un numero ancora non
trascurabile di esperti – attribuire al dirigente pubblico i poteri organizzativi,
rifacendosi così al modello privatistico ma allo stesso tempo stravolgendone,
per certi aspetti, la logica e le regole, significa produrre conseguenze
esattamente opposte rispetto agli obiettivi proclamati e perseguiti dalla
riforma.
IX
Interessante diviene, allora, verificare se sia davvero possibile trasferire
concretamente nel settore pubblico un modello di dirigenza costruito sulla
falsariga di quello privatistico; il nocciolo del problema – oramai appare
perfettamente evidente – non risiede tanto nella separazione funzionale tra
politica ed amministrazione, bensì, piuttosto, nel tentativo di far convergere
gli interessi delle due parti.
L’esperienza, purtroppo, attualmente non induce né a rafforzare il ruolo
dei vertici politici, né a fare troppo affidamento sui meccanismi politico–
istituzionali; sin quando non si elimineranno definitivamente gli “steccati”
tra pubblico e privato, questa situazione non muterà.
In conclusione, comunque, oggi risulta possibile affermare che il
rapporto di pubblico impiego si configura come una relazione giuridica
lavorativa fondata su un contratto di diritto privato, che mostra ancora il suo
carattere di specialità per l’esistenza, nel diritto positivo, di deroghe legali
alla disciplina generale.
Si tratta sempre di quei famosi rapporti specificati dall’articolo 3 del
decreto legislativo n. 165 del 2001 (definito anche “Testo Unico sul pubblico
impiego”), i quali restano disciplinati secondo il più tradizionale statuto
pubblicistico.
CAPITOLO I
La privatizzazione del pubblico
impiego
SOMMARIO: 1. Un profilo storico: dalla “legge quadro” n. 93 del 1983 al decreto legislativo n. 29
del 1993. – 2. I perché della privatizzazione del pubblico impiego. – 2.1. Attivazione del-
le responsabilità, al fine di superare la rigidezza del rapporto d‟impiego ed attribuirgli
così un‟adeguata flessibilità. – 2.2. Necessità che la privatizzazione avvenga per sfatare
il mito “pubblico–inefficiente, privato–efficiente”. – 2.3. Esigenza sia di una continuità
di svolgimento dei pubblici servizi, sia di una realizzazione del costo del lavoro pubblico.
– 2.4. Urgenza di superare l„inerzia dell‟amministrazione pubblica e la sua mancanza di
incentivi. – 3. La privatizzazione, quale strumento per realizzare se stessa. – 4. I limiti
e gli ostacoli al raggiungimento di un‟effettiva privatizzazione. – 4.1. Finalità inconci-
liabili della riforma e difficoltà del processo riformatore. – 4.2. Impossibilità di giungere
ad una privatizzazione generalizzata: inadeguatezza della privatizzazione formale ma
non sostanziale. – 4.3. Le problematiche in termini di costituzionalità. – 4.3.1. Rispetto
alla riserva di legge in materia di organizzazione dei pubblici uffici. – 4.3.2. Rispetto ai
principi di imparzialità e di buon andamento dell‟amministrazione.
1. Un profilo storico: dalla “legge quadro” n. 93 del 1983
al decreto legislativo n. 29 del 1993
Sessant‟anni dopo la riforma Stefani del 1923, è stata emanata la co-
siddetta “legge quadro“ sul pubblico impiego (legge 29 marzo 1983 n. 93) (1)
(1) «Due grandi fenomeni ricorrono nella storia del nostro Paese, il fenomeno delle pubbli-
cizzazioni ed il fenomeno delle privatizzazioni, il fenomeno delle pubblicizzazioni, grosso mo-
do è iniziato dopo la fine della prima guerra mondiale ed è durato cinquant‟anni; inizia con
gli anni ‟90 il fenomeno delle privatizzazioni; che senso ha pubblicizzare e privatizzare. Non è
facile capirlo, perché queste formule finiscono per essere nell‟astrazione che determinano
formule di filosofia del diritto prima che di diritto positivo, perché attenzione il diritto positi-
vo può attribuire soprannomi privatistici a fenomeni tutt‟ora pubblicistici; occorre stare molto
attenti ai soprannomi giuridici; dico senza riferimenti concreti, è veramente un fenomeno di
privatizzazione? Od un soprannome, la costruzione di strutture societarie azionarie in mano
al potere pubblico. O si tratta di un soprannome giuridico, di un fenomeno che resta sostan-
zialmente quello originario?». GESSA CARLO, La problematica della dirigenza, in “La sfida del-
la privatizzazione – Atti del VI Convegno Nazionale di Studi regionali, Consiglio Regionale
CAPITOLO I
______________________________________________________________________________________
2
nell‟intento di dare una risposta alla sindacalizzazione del settore pubblico e
alla diffusione della contrattazione collettiva in via di fatto, ed altresì, nel
tentativo di realizzare l‟omogeneità dei trattamenti attraverso una regola-
zione centrale dello stato giuridico ed economico delle diverse categorie di di-
pendenti pubblici.
La “legge quadro” sul pubblico impiego è una riforma organica, applica-
bile a tutte le pubbliche amministrazioni, che ha stabilito alcune rilevanti
novità in coerenza con l‟evoluzione dei rapporti di lavoro nella società italia-
na, pur confermando la natura speciale del pubblico impiego ed introducendo
nuovi ed inediti elementi di specialità.
Con tale riforma, infatti, il rapporto di pubblico impiego ha conservato
la tradizionale natura di ordinamento speciale ed è restato assoggettato alla
giurisdizione del giudice amministrativo. Del resto, la destinazione dell‟am-
ministrazione a fini di pubblico interesse è sempre stata intesa dal legislato-
re in maniera molto rigida (2), come determinante della pubblicizzazione del
rapporto impiegatizio.
È stato, dunque, profondamente innovato il regime delle fonti ed il ruo-
lo delle organizzazioni sindacali dei dipendenti: la disciplina dei rapporti di
lavoro è stata semplicemente affidata ad accordi collettivi nazionali (3) nego-
della Liguria 30 – 31 ottobre 1992”, di AA.VV., Edizioni Scientifiche italiane, Napoli, 1994, p.
120
(2) Sull‟argomento Virga ha scritto: «Il modello a cui si ispirava la legislazione in materia
di pubblico impiego, quale risultava principalmente dallo statuto sugli impiegati civili dello
Stato (T.U. del 10 gennaio 1957 n. 3), si fondava su una disciplina imposta autoritativamente
dal legislatore, disciplina nettamente differenziata da quella sull‟impiego privato. Tale mo-
dello, nella più recente evoluzione legislativa, è stato abbandonato, sia perché è stata intro-
dotta la contrattualizzazione nel pubblico impiego, sia perché è stata riconosciuta la esigenza
di applicare anche al rapporto di pubblico impiego i principi propri del diritto del lavoro».
VIRGA PIETRO, Il pubblico impiego dopo la privatizzazione, Giuffrè, Milano, 2002, p. 11
(3) A proposito del sistema delle fonti «[…] nel corpo normativo inteso in senso stretto, oc-
corre ancor oggi distinguere, da un lato, tra le norme generali e speciali sui pubblici impieghi
vigenti al momento dell‟entrata in vigore del d.lgs. n. 29, non ancora abrogate e quanto alle
parti, ambiti di riferimento, oggetti o materie proprie degli istituti del rapporto di lavoro e
non già ridisciplinate dai primi contratti collettivi che ad esse si applicano; e d‟altro lato, in-
vece, quelle norme del codice civile o comunque appartenenti alla legislazione sul lavoro
nell‟impresa che si reputino già ora direttamente riferibili al rapporto di lavoro con le pubbli-
La privatizzazione del pubblico impiego
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3
ziati tra una delegazione di Governo ed i sindacati maggiormente rappresen-
tativi.
Pertanto, sembra evidente che un fenomeno tipico del lavoro privato
quale la contrattazione collettiva, è stato rielaborato dal diritto amministra-
tivo, secondo le categorie del diritto pubblico: il contratto collettivo è diventa-
to una sorta di fase negoziale di un procedimento che, in tal modo, è sfociato
così in un atto normativo unilaterale, cioè il regolamento del Governo.
Ancora, dall‟analisi della “legge quadro” n. 93 del 1983 sono emersi due
tratti peculiari, che hanno influenzato anche la fase successiva al supera-
mento di questa legge. La prima connotazione specifica consiste nell‟i-
dentificazione, nella figura governativa nazionale, del ruolo di “regolatore
centrale” dei rapporti di lavoro con tutte le pubbliche amministrazioni assun-
to dal Governo che, attraverso lo strumento del negoziato diretto con le
grandi confederazioni, è divenuto l‟arbitro degli assetti generali economico–
normativi del lavoro pubblico.
Il secondo elemento peculiare riguarda la visione deformata della con-
trattazione collettiva (4), intesa non più come libera attività esercitata in vir-
tù di una generale capacità negoziale degli enti pubblici, ma piuttosto come
una fonte dell‟ordinamento speciale pubblicistico caratterizzata, essenzial-
mente, dal necessario consenso del sindacato.
che amministrazioni». GHEZZI GIORGIO, Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pub-
bliche e la ridefinizione delle fonti, in “Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il
sistema delle fonti – Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, L’Aquila, 31 maggio – 1
giugno 1996”, Giuffrè, Milano, 1997, p. 94
(4) «Dalla nuova legislazione c‟è da aspettarsi di certo una semplificazione ed accelerazio-
ne della procedura contrattuale, ma anche una flessibilizzazione ed articolazione della strut-
tura, con una modifica del contenuto del contratto di comparto (reso più leggero e vario) e
dell‟equilibrio fra livello compartimentale e decentrato (spinto decisamente verso il basso).
Tutto questo richiederà una contestuale risposta sul chi, come e quando dovrà dire la parola
fine alla trasformazione della disciplina “sostanziale”, con caducazione irreversibile del “vec-
chio”: cioè, fuori di metafora, se toccherà al contratto di comparto che eventualmente si limi-
tasse ad offrire delle indicazioni rispetto un certo istituto, ovvero a quello decentrato, che tali
indicazioni traducesse in regole specifiche». CARINCI FRANCO, L’impianto normativo della
prima tornata contrattuale, in “Il nuovo assetto del lavoro pubblico – Bilanci della prima tor-
nata contrattuale, nodi problematici, prospettive” a cura di Gian Candido De Martin, Franco-
Angeli, Milano, 1999, pp. 35 – 36
CAPITOLO I
______________________________________________________________________________________
4
In sostanza, si può affermare che la “legge quadro”, anziché trasferire
nel pubblico alcune virtù del privato, in realtà non ha fatto altro che accen-
tuare quegli elementi che già prima si presentavano come i maggiori difetti
strutturali del pubblico impiego (5). Per di più, trasformando la contrattua-
lizzazione collettiva in un negoziato politico istituzionalizzato tra sindacati e
Governo, ha decisamente contribuito a spingere la spesa per il personale
pubblico fuori controllo.
Paradossalmente, la prima legge generale sul pubblico impiego – tale si
deve considerare la “legge quadro” n. 93 del 1983, a differenza di tutte quelle
precedenti che invece riguardarono fondamentalmente soltanto gli impiegati
civili dello Stato ed un numero variabile di altri rapporti di lavoro a questi
assimilati – è stata anche l‟ultima (6). La crisi finanziaria degli anni novanta
ha, infatti, drammaticamente creato le condizioni per l‟abbandono del model-
lo del pubblico impiego.
Fortunatamente però, la legge delega n. 421 del 1992, ad opera del go-
verno Amato – che fece seguito al blocco delle retribuzioni dei dipendenti
pubblici –, conteneva misure straordinarie per riportare sotto controllo la
spesa pubblica (7). Tra queste, vi fu proprio il superamento del pubblico im-
piego come ordinamento speciale.
(5) A questo proposito, risulta altresì corretto chiarire che «[…] il grado di successo (o di
insuccesso) e la capacità di tenuta del decreto legislativo n. 29 dipenderà, come è già accaduto
nella precedente esperienza della legge quadro del 1983, da come interpreteranno il proprio
ruolo i vari attori del sistema». CLARICH MARCELLO – IARIA DOMENICO, La riforma del pubbli-
co impiego, Maggioli, Rimini, 1994, p. 41
(6) «Qualche cambiamento in senso migliorativo c‟è stato sicuramente, ma in molti casi
sono rimaste del tutto inalterate numerose abitudini e comportamenti tipici “della vecchia
pubblica Amministrazione”. […] Numerosi vezzi della vecchia Amministrazione, ance se in
misura meno marcata, tuttora permangono». BUSICO LUCA, Riflessioni sul pubblico impiego
privatizzato, in “Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza”, aprile 2003, p.
778
(7) A tal proposito Zucaro definisce l‟indirizzo seguito dal Governo nell‟intera vicenda co-
me «[…] l‟utilizzazione della proposta di privatizzazione e piena contrattualizzazione del rap-
porto di pubblico impiego per garantire prioritariamente il blocco della spesa per il personale
pubblico e secondariamente un recupero di efficienza nel funzionamento delle PP.AA. Per re-
alizzare ciò, si è mantenuta la centralizzazione dei meccanismi di governo del pubblico im-
La privatizzazione del pubblico impiego
______________________________________________________________________________________
5
La legge delega prevedeva, in particolare, l‟applicazione graduale delle
norme codicistiche e delle leggi sul lavoro nell‟impresa anche al pubblico im-
piego, la creazione di un‟Agenzia tecnica per la rappresentanza delle pubbli-
che amministrazioni nella contrattazione collettiva, il passaggio della giuri-
sdizione sulle controversie dei dipendenti al giudice ordinario entro tre anni.
Prevedeva altresì la separazione tra indirizzo politico e gestione amministra-
tiva, quest‟ultima affidata ai dirigenti, che in tal modo assunsero definitiva-
mente una autonoma legittimazione nonché una diretta responsabilità per
gli atti gestionali (8).
Risulta evidente a questo punto come, con il decreto legislativo n. 29 del
1993 (9), si sia avuta una svolta significativa, consistita essenzialmente nella
contrattualizzazione del rapporto di lavoro, che ha ridotto la pubblica ammi-
nistrazione alla veste paritaria di parte contrattuale e ne ha riqualificato –
in termini privatistici, e dunque neutri rispetto all‟interesse pubblico – la po-
sizione rispetto alle vicende dei rapporti di lavoro.
In questo modo è caduta anche la supremazia speciale della pubblica
amministrazione nel rapporto di lavoro con i propri dipendenti, principio
cardine questo della teoria dell‟ordinamento speciale. Al datore di lavoro
piego, rafforzando la posizione centrale del Governo ed in particolare della Presidenza del
consiglio. Col che, s‟è innestata nel corpo della riforma una contraddizione latente ma forte
col significato stesso della “privatizzazione”, intesa come liberazione delle PP.AA. e degli altri
soggetti in campo dalle pastoie della regolamentazione pubblicistica, sia pure in un quadro di
rigorosa certezza delle quantità di spesa». ZUCARO ANTONIO, Il governo del pubblico impiego –
Dalla legge quadro n. 93/1983 al decreto delegato n. 29/1993, FrancoAngeli, Milano, 1993, p.
212
(8) «La nuova norma sul pubblico impiego si propone sette obiettivi: di separare la politica
dall‟amministrazione; di formare un corpo di dirigenti; di fare accedere i migliori alla dirigen-
za; di unificare i concorsi; di assicurare la mobilità del pubblico impiego; di valutare i carichi
di lavoro; infine, di affidare la giurisdizione in materia di lavoro con la pubblica amministra-
zione al giudice ordinario». CASSESE SABINO, Il sofisma della privatizzazione del pubblico im-
piego, in “Il corriere giuridico”, 1993, pp. 404 – 405
(9) Clarich sottolinea, a questo proposito, che «[…] il decreto legislativo n. 29 apre una
partita che è ancora tutta da giocare. Le forze in campo, in bilico tra il vecchio e il nuovo, so-
no molteplici e di diversa natura. È difficile prevedere gli esiti nel medio e lungo periodo. Cer-
to è che se la riforma del pubblico impiego non dovesse decollare, fallirebbe inevitabilmente
anche il progetto più ampio di risanamento di un sistema amministrativo che è ancora per
molti versi arretrato e che rappresenta un freno per l‟intero sistema–Paese». CLARICH MAR-
CELLO – IARIA DOMENICO, La riforma del pubblico impiego, Maggioli, Rimini, 1994, p. 44
CAPITOLO I
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6
pubblico vennero estesi i medesimi poteri di competenza del datore di lavoro
privato, compreso il potere disciplinare e di licenziamento; analogamente,
vennero estese al pubblico le stesse situazioni soggettive proprie del privato,
nelle quali rimanevano fissate le vicende del rapporto di lavoro.
Naturalmente, però, l‟abrogazione dell‟ordinamento speciale di fonte
pubblicistica, nonché il passaggio al Codice Civile ed alla legislazione sul la-
voro nell‟impresa, sono stati molto graduali. In effetti, quella del decreto le-
gislativo n. 29 del 1993 si è rivelata una svolta ancora condizionata dal peso
della tradizione pubblicistica, che si è fatta sentire in particolare sui temi
cruciali della natura del potere di organizzazione (10) e dell‟incidenza della ri-
serva di legge.
Facevano parte della consolidata tradizione pubblicistica anche alcune
vere e proprie distorsioni concettuali, generate dall‟esperienza di quella stes-
sa “legge quadro” del 1983, ed in particolare la concezione della contrattazio-
ne collettiva come vincolo del previo consenso del sindacato, anziché come li-
bertà negoziale delle pubbliche amministrazioni.
Conseguentemente, celata sotto il manto del principale strumento di di-
screzionalità (11) nelle mani dello Stato – la riserva di legge – venne stabilita,
(10) «[…] la “funzione organizzatrice delle pubbliche amministrazioni” e il “pubblico im-
piego” non esistono più, almeno nella forma in cui erano stati costruiti. Esistono, oggi, il pote-
re di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, in parte pubblico e funzionalizzato, in
parte espressione di attività amministrativa di diritto privato, e i rapporti di lavoro alle di-
pendenze di pubbliche amministrazioni, retti dal diritto comune del lavoro e da qualche di-
sposizione di diritto privato speciale. Non viene meno, però, la finalizzazione di tutto il potere
organizzativo – sia di quello in regime pubblicistico, sia di quello in regime privatistico, e in-
clusa la disciplina collettiva e la gestione individuale dei rapporti di lavoro – al pubblico inte-
resse, ossia all‟unitario vincolo di scopo rappresentato dal buon andamento e imparzialità
dell‟amministrazione». CARINCI FRANCO – D‟ANTONA MASSIMO, Il lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, tomo I°, Giuffrè, Milano, 2000, p. 175
(11) A questo proposito Carinci sostiene: «È una riforma che incorpora una forte dote di
compromesso, c‟è un forte compromesso contenutistico, perché in verità […] sembra una ri-
forma totalitaria per l‟ambito che copre ma è abbastanza parziale per il contenuto, copre tut-
to ma quel tutto che copre o quasi tutto, lasciando fuori alcune categorie, il tetto a quel tutto
che copre è un‟ampia riserva di legge, rispetto a quel tutto che copre c‟è un diritto civile con
delle forti previsioni specialistiche, rispetto a quel tutto che copre c‟è una giurisdizione am-
ministrativa che intanto rimane ferma e che per il futuro si prospetta perlomeno invadente;
c‟è anche un compromesso cronologico, perché i decreti escono subito, ma entro un anno pos-
La privatizzazione del pubblico impiego
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7
di fatto, una discutibile saldatura concettuale tra l‟autonomia organizzativa
della pubblica amministrazione, l‟esclusione della contrattazione collettiva
ed il regime pubblicistico degli atti organizzativi.
In sintesi, è possibile affermare che, alla luce dei suoi effetti concreti, la
riforma indotta dal decreto legislativo n. 29 del 1993 ha generato una situa-
zione rovesciata rispetto alla “legge quadro” n. 93 del 1983. Più precisamen-
te, alla “contrattualizzazione” del rapporto individuale di lavoro – nella quale
il primigenio tentativo di “privatizzazione” essenzialmente si era risolto – si
accompagnava successivamente una iperlegificazione della contrattazione
collettiva (12).
Infine, sebbene tale argomento esuli dall‟oggetto specifico della presen-
te dissertazione, si reputa ugualmente doveroso, quanto meno per comple-
tezza storico–temporale (13), accennare brevemente ad un ulteriore fenome-
no: la cosiddetta “seconda privatizzazione” del pubblico impiego.
sono essere modificati e comunque c‟è questa provvisorietà della giurisdizione». CARINCI
FRANCO, Privatizzazione: problemi e prospettive, in “La sfida della privatizzazione – Atti del
VI Convegno Nazionale di Studi regionali, Consiglio Regionale della Liguria, 30 – 31 ottobre
1992” di AA.VV., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994, p. 61
(12) «Privatizzazione o contrattualizzazione del pubblico impiego. […] Oggi, a bocce ormai
ferme, sembra preferibile continuare a ragionare in termini di privatizzazione, pur con la
consapevolezza che trattasi di espressione ideologicamente carica: essa suona più consona al-
la storia e alla portata della riforma, sia con rispetto alla fase iniziale, quando la mera e
semplice contrattualizzazione, individuale e collettiva, pur se accompagnata dal rinvio al Co-
dice civile e alle leggi del lavoro, dovette apparire dotata di una non sufficiente resistenza a
fronte della ben collaudata abilità della dottrina e della giurisprudenza amministrativa a
panpubblicizzare e panfunzionalizzare tutto […] sia con riguardo alla fase successiva, quando
c‟è stata una accelerazione, tradotta e realizzata soprattutto tramite l‟estensione dell‟ex pri-
mo comma, primo capoverso (ora secondo comma) di quell‟art. 4, con una sorta di risalita a
monte della privatizzazione, dalla gestione del personale verso l‟organizzazione cosiddetta
micro o bassa». CARINCI FRANCO, Le fonti della disciplina del lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni, in “Argomenti di diritto del lavoro”, 2000, p. 57
(13) «Se la legge n. 93 del 1983 ha tenuto per quasi un decennio, la legge n. 421 del 1992,
con la sua decretazione delegata, ha resistito per molto meno, circa un quadriennio, peraltro
con un importante distinguo. Allora, ci fu un autentico “salto” dalla legge quadro del pubblico
impiego alla cosiddetta privatizzazione; ora, c‟è un chiaro ed esplicito continuum fra la vec-
chia e la nuova legge delega n. 59 del 1997». CARINCI FRANCO, «Costituzionalizzazione» ed
«autocorrezione» di una riforma – La c.d. privatizzazione del rapporto di impiego pubblico, in
“Argomenti di diritto del lavoro”, 1998, p. 44
CAPITOLO I
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8
Con questa seconda stagione della riforma, introdotta dalla legge dele-
ga n. 59 del 1997, il legislatore compì un ulteriore passo in avanti: prendendo
atto dell‟intreccio, talvolta decisamente inestricabile, tra l‟autonomia orga-
nizzativa dell‟apparato amministrativo in generale e la gestione dei rapporti
di lavoro, venne in sostanza intensificata la privatizzazione. In altre parole,
subì un notevole incremento l‟introduzione dei modelli privatistici all‟interno
dell‟organizzazione delle pubbliche amministrazioni.
In via di prima approssimazione (14), sembra possibile affermare che il
nuovo confine tra regime pubblicistico e regime privatistico degli atti di or-
ganizzazione abbia permesso di porre una netta separazione tra la cosiddetta
“alta organizzazione”, intesa come la definizione delle linee fondamentali di
assetto degli uffici, e la “bassa organizzazione”, vista invece quale insieme
omogeneo di tutte le decisioni di competenza dei dirigenti miranti a gestire
l‟assetto organizzativo.
Nondimeno, non si può tacere che in realtà un‟inevitabile distanza tra i
due modelli rimase, se non altro perché un ente pubblico economico opera
sempre in regime di diritto privato, non solo per la gestione dei mezzi e del
personale (15) ma anche per l‟esercizio dell‟attività economica e produttiva
che la legge gli assegna.
(14) «A dire il vero, le due leggi delega in materia di riforma del pubblico impiego riguar-
dano tematiche più articolate: tant‟è che la prima (n. 421 del 1992) è rubricata “delega al Go-
verno per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico
impiego, di previdenza e finanza territoriale”, con un‟attenzione particolare sul contenimento
della spesa pubblica; e la seconda (n. 59 del 1997) è intitolata “delega al Governo per il confe-
rimento di funzioni a Regioni e ad Enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione
e per la semplificazione amministrativa”, con un‟enfasi peculiare sul cosiddetto federalismo
amministrativo». CARINCI FRANCO, Le fonti della disciplina del lavoro alle dipendenze delle
pubbliche amministrazioni, in “Argomenti di diritto del lavoro”, 2000, p. 58
(15) Al riguardo D‟Antona ci tiene a precisare che: «La contrapposizione logica tra auto-
nomia organizzativa e contrattazione collettiva si rivela un retaggio concettuale di una fase
superata del diritto positivo. Nel quadro normativo della seconda privatizzazione, la negozia-
zione e la sottoscrizione di contratti collettivi rappresenta, esattamente come avviene per i
datori di lavoro privati, un mezzo per esercitare autonomia organizzativa attraverso la capa-
cità di diritto privato». D‟ANTONA MASSIMO, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda
privatizzazione del pubblico impiego nelle «leggi Bassanini», in “Il lavoro nelle pubbliche am-
ministrazioni”, 1998, p. 63
La privatizzazione del pubblico impiego
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In ogni modo, il processo evolutivo della seconda privatizzazione com-
portò necessariamente la riformulazione delle disposizioni del decreto legi-
slativo n. 29 del 1993 (16).
(16) «Assistiamo quindi ad un duplice processo di divaricazione: il primo all‟interno del
mondo del lavoro, dove accanto al lavoro tipico, relativamente stabile, emergono i lavori ati-
pici o temporanei; il secondo all‟interno della popolazione non attiva (o supposta tale), dove
dalla massa delle attività svolte di fatto emergono alcune attività che ottengono un ricono-
scimento sociale. In entrambi i casi è possibile vedere aspetti conformi al processo storico di
individualizzazione. Nel primo, si apre la possibilità di favorire […] l‟autorealizzazione pro-
fessionale dei lavoratori. Nel secondo, si valorizza la scelta dell‟individuo di impegnarsi in
sfere di attività prima socialmente misconosciute, nelle quali anch‟egli può desiderare di e-
sprimere se stesso». PACI MASSIMO, Nuovi lavori, nuovo welfare – Sicurezza e libertà nella so-
cietà attiva, Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 182 – 183