5
pongono al centro dell’attenzione le condizioni di sviluppo duraturo delle piccole
imprese, si propongono pubblicazioni contenenti modelli e strumenti interpretativi,
si progettano corsi universitari e seminari formativi mirati sulle problematiche di
governo delle imprese di minori dimensioni.
Le Pmi, da molti considerate l’asse portante del sistema economico italiano,
costituiscono un insieme estremamente variegato e complesso, certamente soggetto
a mutamenti anche significativi, continuamente capace di giocare un ruolo
determinante in un contesto caratterizzato da dinamiche intense e talora
imprevedibili: fenomeni, già da tempo in atto in diversi settori, quali
globalizzazione, deindustrializzazione, concentrazione, da più parti ritenuti una
minaccia per le piccole imprese in quanto tali, si rivelano spesso, per queste ultime,
fonte inattesa di opportunità: inattesa, in verità, solo per coloro che non conoscono,
o conoscono solo superficialmente, la capacità di adattamento delle Pmi, la velocità
di risposta ai cambiamenti, la capacità in alcuni casi sorprendente di molti
imprenditori di modificare l’impostazione imprenditoriale della loro azienda,
rendendola più articolata e complessa, e di avviare significativi processi di crescita
qualitativa prima ancora che quantitativa.
Dopo una breve introduzione alla strategia d’impresa e alla difficoltà a
rinvenire nelle piccole imprese una strategia pianificata, il secondo capitolo intende
sottolineare l’importanza che hanno assunto negli ultimi dieci anni, le modalità di
crescita per linee esterne come valida strategia per il perseguimento dello sviluppo
di medio-lungo periodo della piccola impresa. Tra queste, la subfornitura
rappresenta un’opportunità molto vantaggiosa per le piccole imprese specializzate
che operano nel settore cosmetico, poiché l’evolversi delle formulazioni e l’impiego
6
di nuovi e sempre più innovativi ingredienti cosmetici, nonché la formidabile
quantità e assortimento di prodotti di bellezza, diversi per composizione, packaging
e funzionalità, rendono estremamente onerosa e complessa l’autonoma gestione in
ogni singola azienda di tutte le referenze che le moderne case cosmetiche vantano in
listino.
Il terzo capitolo intende sottolineare il positivo andamento del mercato
cosmetico italiano, che ancora non conosce segni di saturazione e che contribuisce in
maniera decisamente positiva all’andamento dell’economia nazionale e
all’immagine del “Made in Italy” all’estero.
L’ultimo capitolo è dedicato all’analisi di un caso aziendale: la Mavi Sud S.r.l,
azienda produttrice per conto proprio e di terzi di prodotti di dermo-cosmesi venduti
attraverso il canale della farmacia. Un ringraziamento particolare va al professore
Pierfrancesco Morganti, amministratore delegato e direttore tecnico-scientifico
dell’azienda e alla Dr. Maria Luisa Nunziata, responsabile dell’area marketing,
senza la cui preziosa e fattiva collaborazione questo lavoro sarebbe stato incompleto.
Criteri di classificazione delle Pmi. Il poliformismo organizzativo.
Ad una definizione di piccola impresa si può pervenire sia utilizzando criteri
quantitativi sia criteri qualitativi
2
: nel primo caso si farà riferimento a parametri
relativi alla dimensione strutturale dell’impresa (numero di occupati, capacità
produttiva installata, capitale investito) e alla dimensione operativa (volume d’affari,
2
Se da un lato i criteri quantitativi, come un certo livello di fatturato o un certo numero di dipendenti,
vengono spesso utilizzati, per altro opportunamente, quando si tratta ad esempio di individuare le Pmi
destinatarie di agevolazioni (fiscali, finanziarie, ecc.) stabilite a livello nazionale o comunitarie,
dall’altro, i criteri qualitativi sono preferibili quando si vogliono analizzare le specificità delle
strategie delle Pmi.
7
valore aggiunto, quota di mercato). Nel secondo caso la distinzione tra piccola,
media e grande impresa sconterà elementi come la composizione del team di vertice,
le relazioni tra famiglia proprietaria e impresa, le scelte e le azioni di strategia
competitiva
3
.
A sua volta, all’interno del vasto mondo delle Pmi, individuato attraverso il
ricorso all’uno e/o all’altro criterio, è possibile ritrovare profili strutturali e
comportamenti strategici estremamente differenziati, in relazione tanto a variabili
esterne (i caratteri del settore d’appartenenza, le dimensioni del mercato di
riferimento, il ruolo assunto dalla tecnologia, l’appartenenza a distretti industriali e
via dicendo), quanto a scelte ed azioni attuate dagli imprenditori (in merito, ad
esempio, alla crescita dimensionale, alla collaborazione con altre imprese,
all’organizzazione interna, ai rapporti famiglia-impresa, ecc).
Per l’attuale trattazione si ricorre ad una definizione “quantitativa” di Pmi,
indicata nella Nota della Commissione Europea del 28 Agosto 1997, recepita in
Italia col decreto del Ministero dell’Industria n. 229/97. Un’impresa sarà quindi
medio-piccola nel caso abbia meno di 250 addetti, il volume d’affari annuo non sia
superiore a 40 milioni di euro o il totale dello Stato Patrimoniale non superi i 27
3
Da un punto di vista qualitativo, nella maggior parte dei casi, ciò che differenzia la piccola dalla
grande impresa è la centralità della figura dell’imprenditore-proprietario, il quale:
• è preposto alla direzione aziendale ed è, al contempo, direttamente coinvolto nello
svolgimento di attività operative di gestione corrente;
• si avvale dell’attività lavorativa dei propri familiari;
• non è facilmente propenso a delegare il proprio potere decisionale;
• raramente si avvale di un management e anche nei casi in cui l’azienda disponga di uno staff
direzionale, tende ad evocare a sé tutte le decisioni di maggiore importanza;
• adotta spesso delle decisioni di tipo “intuitivo”, spesso essenzialmente basate sulla sua
esperienza e sul “fiuto per gli affari”;
• formula le proprie decisioni sulla base di una logica incrementale e adattiva, che conduce
spesso ad un comportamento di tipo imitativo o opportunistico, volto a sfruttare condizioni –
più o meno contingenti − di particolare vantaggio;
• è chiamato a bilanciare due esigenze non sempre tra loro compatibili: lo sviluppo aziendale e
quello della propria famiglia.
8
milioni di euro e non sia partecipata per il 25% o più del capitale sociale o dei diritti
di voto da una o congiuntamente da più imprese che superino i parametri di Pmi.
Il criterio dimensionale, tuttavia, se da un lato permette di distinguere la
piccola-media dalla grande impresa, dall’altro non consente di individuare
all’interno di quell’universo dimensionalmente indistinto tratti caratterizzanti sotto il
profilo della strategia e del posizionamento nel sistema competitivo
4
.
Lo schema che si va a presentare si fonda sulla rappresentazione dell’esistenza
di un “poliformismo organizzativo”
5
che caratterizza, differenziandole, imprese che
mantengono come comune denominatore la piccola dimensione.
Questa concettualizzazione è costruita sull’impiego di due variabili come unità
di misura: la situazione strategico-competitiva in cui opera l’azienda e la criticità del
profilo professionale aziendale medio. Per quanto riguarda la prima variabile, si
possono riconoscere due situazioni opposte e dunque caratterizzanti: un contesto
competitivo favorevole, per la ridotta concentrazione del settore e per la bontà della
formula strategica maturata dall’azienda, che consente di mantenere posizioni di
vantaggio rispetto ai concorrenti nel medio/lungo periodo; un contesto difficile
connotato dall’operare in settori strutturalmente turbolenti e in continua evoluzione
per innovazioni di prodotto e/o di processo, in assenza di una combinazione
prodotto/mercato/tecnologia distintiva e difendibile.
4
Il mondo delle Pmi si presenta con un grado di eterogeneità elevato e crescente nel tempo: operano
in una gamma estremamente ampia di settori, definiti non solo e non tanto in termini merceologici,
ma piuttosto di livello tecnologico, di presenza più o meno rilevante di grandi imprese, di ampiezza
dei mercati di sbocco; detengono posizioni competitive talora marginali ma non di rado di leadership
e non solo a livello nazionale; hanno un grado di autonomia strategica in certi casi completa, in altri
limitato di fatto dalla dipendenza da un’unica grande impresa cliente; si caratterizzano per un grado
di articolazione e di complessità dell’impostazione strategica, a sua volta definita da una pluralità di
variabili relative a prodotti e processi produttivi, assetto organizzativo e distributivo, assetto tecnico e
istituzionale, che può essere completamente assente o fortemente sentito.
5
P.Preti, L’organizzazione della piccola impresa, EGEA, 1991.
9
La seconda variabile tende a misurare l’importanza del contributo delle
persone nei processi produttivi, individuando, anche in questo caso, due situazioni
limite: bassa criticità del profilo professionale aziendale quando l’organico,
mediamente, si caratterizza per un’elevata esperienza nell’azienda svolgendo la
medesima attività, per un’elevata anzianità anagrafica e una bassa scolarità;
all’opposto la criticità è elevata in situazioni connotate da professionalità in crescita,
bassa anzianità anagrafica e livelli di istruzione mediamente alti.
L’articolazione delle due variabili definisce quattro situazioni alternative, cui
corrispondono, secondo una logica contingente, assetti
6
organizzativi differenti, ma
ugualmente ideali, denominati elementare, collaborativo, innovativo e diffuso.
L’assetto elementare. Esistono, più di quanto si possa immaginare, situazioni
competitive favorevoli anche per le piccole imprese. Sono i casi in cui l’azienda
opera in settori poco turbolenti o poco concentrati; quelli in cui il settore per il suo
ciclo di vita può dirsi in una fase d’introduzione e crescita; o ancora quelli in cui
l’impresa è riuscita a ritagliarsi una nicchia di mercato profittevole in sé, ma poco
interessante rispetto a potenziali entranti, per esempio costruendo una leadership di
marchio oppure approfittando degli interstizi lasciati liberi dalle grandi imprese.
Quando tali situazioni competitive sono alimentate da un organismo personale
la cui complessità è bassa, l’assetto ideale è quello elementare, che, anzitutto, si
caratterizza per un ridotto investimento organizzativo. L’imprenditore assurge a
figura centrale dell’azienda, in quanto depositario della combinazione strategica e in
quanto unico punto di riferimento per gli interlocutori dentro e fuori l’azienda.
6
Il termine “assetto” non deve essere inteso come sinonimo di struttura o schema organizzativo, né
tantomeno deve essere considerato equivalente al termine organigramma. Il concetto di assetto
comprende la struttura e l’organigramma, ma va anche oltre, definendo implicitamente il ruolo
imprenditoriale, le modalità di gestione del personale, le caratteristiche delle risorse umane interne.
10
Egli decide e comanda e realizza il coordinamento e l’integrazione necessaria
tra le diverse attività; la pianificazione strategica, la programmazione e il controllo, i
sistemi informativi, la gestione del personale esistono solo in quanto “agiti”
soggettivamente dall’imprenditore, la strategia è “intuito”, il controllo di gestione è
“navigazione a vista”, la gestione del personale si fonda sul rapporto diretto e sulla
conoscenza personale.
L’assetto collaborativo. Quando il contesto competitivo è sfavorevole, ovvero
caratterizzato da un numero elevato di concorrenti che lottano esclusivamente sul
prezzo, diventato unico vero discriminante per la sopravvivenza, e l’organismo
personale presenta, per il tipo di business in cui si opera o per la storia dell’azienda,
caratteristiche di bassa complessità, l’assetto organizzativo più coerente è quello
definito collaborativo, che, anzitutto, si caratterizza per un’attenta gestione dei
confini aziendali.
Il ruolo imprenditoriale è soggetto a continue tensioni dovendo essere
contemporaneamente demiurgo dell’organizzazione interna e stratega orientato ad
accordi ed alleanze esterne. Poiché la competizione sul prezzo spinge ad una
strategia di riduzione dei costi, l’imprenditore deve saper valutare quali attività
aziendali mantenere all’interno e quali esternalizzare; deve riuscire ad individuare
opportunità di collaborazione a monte o a valle della filiera produttiva; deve saper
coagulare gli interessi dei concorrenti attorno ad un progetto comune; “deve saper
scegliere in maniera opportuna le modalità gestionali delle relazioni in essere,
spaziando dalle forme sociali a quelle burocratiche e proprietarie”
7
.
7
A.Grandori, Reti inter-organizzative: progettazione e negoziazione, in Economia&Management,
vol. 7, marzo 1989.
11
Queste aziende potrebbero operare secondo lo slogan del “cooperare per
competere”. L’assetto collaborativo è sicuramente tra i più diffusi nella realtà delle
piccole imprese italiane – l’Italia dei distretti è l’esempio più citato − anche se non
sempre è di facile attuazione: gli imprenditori, pur essendo coscienti della necessità
di costruire relazioni interaziendali per la sopravvivenza delle loro organizzazioni,
pretendono la collaborazione mediante l’esercizio di autorità oppure la valutano
sulla base della convenienza economica immediata.
La fiducia, la persuasione, la condivisione di valori comuni, la disponibilità ad
attendere ritorni di lungo respiro iniziano e finiscono entro i contorni della loro
azienda. Al di fuori c’è solo concorrenza.
L’assetto innovativo. In un contesto competitivo sfavorevole o difficoltoso e
con una criticità elevata del profilo professionale aziendale
8
, l’assetto organizzativo
più idoneo è quello innovativo. Il ruolo imprenditoriale è molto diverso dai due casi
precedenti: si assiste alla separazione tra imprenditorialità e managerialità, la prima
intesa come attività di definizione della combinazione prodotto/mercato/tecnologia,
la seconda assunta come modalità realizzativa della strategia.
La separazione nei fatti è molto meno semplice di quanta possa apparire a
parole, avendo impatto diretto su tutti gli aspetti che definiscono l’organizzazione
dell’azienda. La struttura organizzativa è articolata sia in senso verticale, sia in senso
orizzontale. I livelli gerarchici sono almeno due: quello imprenditoriale e quello
manageriale, che può prevedere responsabilità di funzione o di prodotto. In ragione
di ciò le aziende aventi assetti innovativi presentano organigrammi che
8
In questo caso l’anzianità anagrafica media si situa nell’intorno dei trent’anni, la scolarità è elevata
con una prevalenza di persone diplomate e laureate che hanno maturato la loro esperienza in ambiti e
funzioni aziendali differenti.
12
schematizzano strutture funzionali o divisionali. I responsabili, indipendentemente
dalla qualifica di dirigente, che può anche non essere presente, sono dei veri decisori
rispetto alle modalità di raggiungimento di determinati obiettivi assegnati loro
dall’imprenditore. Quest’ultimo è preposto al controllo dei risultati raggiunti e
all’istituzione di strumenti d’integrazione per coordinare l’azione, altrimenti
divergente, dei vari responsabili.
L’assetto innovativo può essere sintetizzato nello slogan “da un uomo solo al
comando al gruppo dirigente”; quest’assetto può degenerare, laddove “l’uomo solo
al comando” è di nuovo solo per aver dato vita ad un apparato manageriale così
consistente da rendergli impossibile l’accesso al funzionamento dell’azienda.
L’assetto diffuso. Quando l’azienda, per la natura del suo business, si avvale
di professionalità complesse, operando in un contesto competitivo favorevole,
l’assetto organizzativo più coerente è quello denominato diffuso. La presenza di
entrambi i caratteri evoca, di per sé, imprese operanti in settori innovativi, in fase di
introduzione o in quelli definiti brain intensive, ove il maggior capitale è insito nelle
competenze professionali delle persone.
L’imprenditore perde la sua centralità e ad egli si sostituisce un gruppo
dirigente che, indipendentemente dall’avere o meno la proprietà, esprime la
strategia. Il potere è equamente diviso tra i partner che lo esercitano mediante
influenza piuttosto che sulla base dell’autorità, le informazioni circolano secondo
uno schema circolare piuttosto che a cascata lungo la piramide aziendale, la gestione
del personale diventa un’attività da monitorare continuamente e attentamente per
evitare la perdita del principale capitale dell’azienda, a causa dell’incapacità di
trattenere le persone all’interno.
13
L’attenzione a queste risorse umane, il cui lavoro si traduce in attività creative,
intellettuali o di servizio, si può esprimere solo attraverso modalità di gestione
vicine al clan: allineamento ad obiettivi comuni, condivisione di norme e valori,
controllo di gruppo, diffusione di fiducia, formazione permanente, sistemi di
ricompensa basati su equità anche differita nel tempo, non immediata. In uno slogan,
gli assetti diffusi sono quelli in cui “le persone e non i prodotti fanno l’azienda”.
Anche questo assetto ideale, come quello innovativo, mostra un suo alter-ego
deteriore. Sono le forme anarchiche, in cui ognuno cerca di imporre il proprio
volere.
Il fenomeno Pmi in Italia – dimensione statistica
La composizione del tessuto produttivo italiano è caratterizzato da una
presenza predominante di piccole e medie imprese. I dati statistici più aggiornati
disponibili sono quelli elaborati dall’INAIL, sfruttando le informazioni registrate
negli archivi gestionali circa le aziende assicurate, che considerano tutte le posizioni
assicurative relative a datori di lavoro che hanno svolto attività nei tre anni
precedenti. In conclusione l’INAIL indica come la situazione italiana sia
caratterizzata da una pesante polarizzazione verso la piccola dimensione
(consideriamo esclusivamente il parametro dimensionale come variabile
discriminante: classi di addetti da 1 a 250), nel 1999 il 99,87% è rappresentato da
imprese artigiane
9
e non di piccole dimensioni (Tabella I).
9
Sono considerate dall’INAIL Aziende Artigiane quelle in possesso dei requisiti di cui agli art. 2
(imprenditore artigiano), 3 (definizione d’impresa artigiana) e 4 (limiti dimensionali) della Legge
Quadro per l’Artigianato (legge 8 Agosto 1985, n. 443). Le imprese artigiane vengono classificate in
classi dimensionali di dipendenti: da 1 a 15, da 16 a 30 ed oltre i 30 addetti; per le finalità di questo
lavoro si considerano tutte le imprese artigiane come imprese di piccole dimensioni visto che la
14
I dati INAIL permettono un confronto con i dati del Censimento Intermedio
dell’Industria e dei Servizi del ’96-’97 prodotto dall’ISTAT (Tabella II); secondo
l’istituto di statistica nel 1996 le Pmi erano il 99,4% per salire al 99,9% l’anno
successivo, tenuto conto delle differenze conseguenti alla diversità dei metodi
d’indagine e alla differenza dell’articolazione dimensionale (l’ISTAT prevede le
classi: 1-9, 10-19, 20-49, 50-249, oltre 250; l’INAIL invece: 1-15, 16-30, 31-100,
101-250, oltre 250).
Inoltre il tessuto produttivo italiano presenta numerose specificità rispetto a
quello degli altri paesi dell’Unione Europea. La dimensione media delle imprese è
nettamente inferiore, con circa quattro addetti contro i sei della media UE; il peso
dell’occupazione nelle grandi imprese industriali non è percentualmente rilevante
poiché rappresenta il 25,4% contro il 47,2% dell’UE e si registra una notevole
presenza delle micro-imprese di servizi: il 61,1% contro il 42,3% dell’UE.
Anche nel settore delle imprese industriali, l’Italia evidenzia una struttura
tendente alla piccola dimensione come dimensione cardine della nostra economia,
come dimostra la tabella successiva; la classe delle imprese di piccole e medie
dimensioni, rispettivamente fino a 49 addetti e da 50 a 249 addetti, corrisponde al
99,7% del totale delle imprese (Tabella III).
rilevanza delle imprese con oltre 30 dipendenti nel 1996 era dello 0,004% sul totale delle aziende
artigiane.
15
Tabella I
(Fonte: INAIL, dati scaricati dal sito http://www.inail.it)
Tabella II
Composizione dimensionale delle imprese italiane 1997
Classi di addetti Industria Servizi totale
1996 1997 1996 1997 1996 1997
1− 9
881.269 872.226 2.457.442 2.483.539 3.338.711 3.355.765
10− 19
71.386 70.891 43.636 43.383 115.022 114.274
20− 49
32.965 33.258 15.772 16.652 48.737 49.910
50− 249
11.131 11.393 5.514 5.816 16.645 17.209
250− oltre
1.597 1.580 1.042 1.082 2.639 2.662
Totale 998.348 989.348 2.523.406 2.550.472 3.521.754 3.539.820
Totale Pmi 996.751 987.768 2.522.364 2.549.390 3.519.115 3.537.158
Pmi sul totale % 99,84 99,84 99,96 99,96 99,93 99,92
(Fonte: ISTAT, Censimento Intermedio dell’Industriae dei Servizi 1997)
Aziende assicurate per classe di addetti
Anno 1996 1999
Aziende Artigiane 1.376.525 1.434.686
Aziende non Artigiane
1− 15
1.476.404 1.660.971
16− 30
48.526 50.029
31− 100
32.124 32.664
101− 250
7.622 7.523
Classi di addetti
oltre 250 4.091 4.029
Totale Aziende non Artigiane 1.568.767 1.755.216
Totale Aziende Artigiane e non Artigiane 2.945.292 3.189.902
Totale Pmi 1.564.676 1.751.187
Totale Pmi+Aziende Artigiane 2.941.201 3.185.873
Pmi su Totale % 53,12 54,90
Pmi+Aziende Artigiane su Totale % 99,86 99,87
16
Tabella III
(Fonte: elaborazioni IPI su dati Eurostat e OCSE)
Numero di imprese industriali per dimensione
Paesi partecipanti alla Conferenza di Bologna 13-15 Giugno 2000
Dimensione impresa Valori assoluti Valori percentuali
Paesi Piccola Media Grande Totale Piccola Media Grande Tot
Austria 27.885 1.836 461 30.182 92,4 6,1 1,5 100
Belgio 44.305 1.336 468 46.109 96,1 2,9 1 100
Danimarca 23.754 1.158 265 25.177 94,3 4,6 1,1 100
Finlandia 26.989 825 280 28.094 96,1 2,9 1 100
Francia 233.250 8.530 2.200 243.980 95,6 3,5 0,9 100
Germania 302.056 16.112 5.929 324.097 93,2 5 1,8 100
Gran Bretagna 316.370 9.106 2.712 328.188 96,4 2,8 0,8 100
Grecia 32.251 932 171 33.354 96,7 2,8 0,5 100
Irlanda 3.477 689 200 4.366 79,6 15,8 4,6 100
Italia 557.752 9.689 1.488 568.929 98 1,7 0.3 100
Lussemburgo 839 70 27 936 89,6 7,5 2,9 100
Paesi Bassi 41.106 2.589 712 44.407 92,6 5,8 1,6 100
Portogallo 90.903 3.299 475 94.677 96 3,5 0,5 100
Spagna 230.934 5.434 1.006 237.374 97,3 2,3 0,4 100
Svezia 27.671 1.473 440 29.584 93,5 5 1,5 100
Totale Paesi UE 1.962.610 63.250 16.792 2.042.652 96,1 3,1 0,8 100
Giappone 342.924 13.539 1.783 358.246 95,7 3,8 0,5 100
Stati Uniti 864.997 22.051 6.324 893.372 96,8 2,5 0,7 100
17
1. LA STRATEGIA D’IMPRESA
1.1. Definizione di strategia.
Il termine “strategia” deriva dal greco “στρατηγια ” che significa “condurre le
forze armate” da cui deriva comando nell’esercito e perizia nell’arte militare;
all’inizio dell’800 il generale Karl Von Clausewitz definì la strategia quale attività
che consente di regolare e coordinare le operazioni belliche per raggiungere lo scopo
della guerra, distinguendola dalla tattica definita l’arte di predisporre e dirigere il
combattimento quale unità autonoma.
La strategia militare determina dunque gli obiettivi da assegnare alle forze
armate affinché lo scopo finale sia raggiunto con il massimo rendimento, nel
minimo tempo e con il minimo sacrificio.
La strategia d’impresa presenta grosse analogie con la strategia militare, infatti
la gestione d’impresa può venire facilmente paragonata alla conduzione di un
esercito, ed il management che guida l’impresa nell’agone competitivo allo stratega
che deve portare alla vittoria le sue schiere
10
.
10
Mark Mc Neilly, marketing strategist all’IBM, ha pubblicato, nel 1996, un libro, Sun Tzu and the
art of business: six strategic principles for managers, in cui, riprendendo l’antichissimo manuale
sull’arte della guerra del leggendario saggio cinese Sun Tzu del sesto secolo a.C., ha riproposto in
chiavi strategica i 6 principi per essere vincenti sul mercato:
• capture your market without destroying it;
• avoid your competitor’s strength and attack their weakness;
• use foreknowledge and deception to maximize the power of business intelligence;
• use speed and preparation to swiftly overcome the competition;
• use alliances and strategic control points in the industry to “shape” your opponents and
make them conform to your will;
• develop your character as a leader to maximize the potenzial of your employees.
18
Oggi con il termine “strategia d’impresa” “intendiamo le caratteristiche
fondamentali dell’interazione che essa [l’azienda] stabilisce con il suo ambiente. La
strategia è quindi uno dei principali strumenti a disposizione dell’alta direzione per
rispondere sia ai cambiamenti esterni sia a quelli interni”
11
.
Con il termine “azienda” ci si riferisce ad un’entità strutturata in un insieme
ordinato di elementi che la compongono (l’assetto istituzionale, le combinazioni
economiche, l’organismo personale, il patrimonio, l’assetto organizzativo e l’assetto
tecnico), che attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi, si trova in
continua relazione economica, sociale e culturale con il mondo circostante.
Il termine “ambiente” si riferisce sia al micro-ambiente o ambiente competitivo
(definito dall’insieme delle forze che determinano l’intensità della concorrenza e
influenzano le prospettive di redditività del settore), sia al macro-ambiente o
ambiente generale (definito dall’insieme delle variabili che condizionano e
influenzano le scelte e i comportamenti dell’impresa e indistintamente di tutti gli
attori del sistema di business in cui l’impresa stessa si colloca. Queste variabili sono
l’economia, la demografia, la politica e la legislazione, la socio-cultura, la tecnologia
[di base] ).
Secondo questa definizione, con la strategia l’azienda cerca di stabilire un
orientamento prospettico di fondo da seguire nelle scelte riguardanti la struttura
interna e le relazioni che essa intesse con l’ambiente circostante ed in particolare con
il settore di diretta attività.
11
C.W.Hofer, D.Schendel, La formulazione della strategia aziendale, F.Angeli, 1984.