LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
questi autori la BCE ha come primario obiettivo la stabilità dei prezzi, e, come
obiettivo secondario, la difesa del prestigio dell’euro nei confronti soprattutto del
dollaro, senza tenere in nessuna considerazione gli andamenti dell’economia
reale.
Altri autori
3
criticherebbero la strategia di politica monetaria
dell’Eurosistema: un obiettivo di crescita dell’aggregato monetario con un
obiettivo indiretto di crescita dei prezzi non risulta molto trasparente e
comprensibile ai mercati e al pubblico. Inoltre in questo modo non è possibile
attribuire delle responsabilità certe alla politica della BCE: in caso d’inflazione al
1% o al 2,5% non si capirebbe se gli obiettivi sono stati centrati o meno. Altre
critiche sono rivolte all’attribuzione della fissazione del tasso di cambio
all’Ecofin, organismo diverso dalla BCE: la politica monetaria è una sola, le
decisioni sono tra loro correlate e quindi non possono essere prese da organi
diversi
4
.
Nei capitoli successivi sono illustrate: la politica monetaria dell’eurosistema
con le differenze rispetto a quelle della Svezia e del Regno Unito, alcune
proposte della Commissione europea in tema di ripresa dell’occupazione, il Patto
di stabilità e crescita che stabilisce i vincoli alle politiche di bilancio dei paesi
membri dell’Unione europea e che secondo alcuni autori è collegato alla scarsa
crescita dell’economia in quanto si è tolto l’ultimo strumento a disposizione dei
singoli paesi per le manovre di politica economica, la visione della BCE sulla
disoccupazione nell’Eurosistema e sul suo eventuale rapporto con la politica
monetaria: nella versione ufficiale della BCE l’unico obiettivo della Banca
Centrale è il mantenimento della stabilità dei prezzi ed è questo l’unico modo per
3
Feldstein (2000), Svensson (1999) e Bagg (1998).
4
Svensson (1999).
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
dare fiducia ai mercati e portare sviluppo e benessere a tutta l’economia,
compresa la ripresa dell’occupazione. Sarà poi analizzato il problema della
flessibilità additato dalla maggior parte della letteratura e dalla BCE come
maggior responsabile dell’alta disoccupazione in Europa. Infatti, questa visione
ritiene che la differenza di performance tra Stati Uniti ed Europa sia dovuta alla
scarsa flessibilità del mercato dei beni e del lavoro, che invece è presente negli
USA. Secondo chi critica questa visione
5
viceversa, le riforme sono sì necessarie,
ma non risolverebbero completamente il problema: è necessaria anche
l’espansione della domanda che permetta all’economia di liberare risorse
necessarie per la ripresa dell’occupazione e quindi per far diminuire la
disoccupazione.
Nell’ultimo capitolo, infine, si è tentato di vedere le diverse posizioni dei
membri del Consiglio direttivo della BCE sulla politica monetaria
nell’Eurosistema e sul problema della disoccupazione. È emerso che tutti i
membri hanno posizioni abbastanza allineate con quella ufficiale, mentre l’unico
membro che se ne distacca in parte, almeno come visione personale, è il membro
italiano Tommaso Padoa-Schioppa. Secondo lui, infatti, la stabilità dei prezzi è
obiettivo fondamentale, ma una buona banca centrale non può non tenere
d’occhio le situazioni dell’economia in generale e della disoccupazione; questo
deve accadere per non creare tensioni sociali e per far in modo che la politica
monetaria della neonata Banca Centrale Europea non incontri, in futuro,
resistenze da parte di quei governi che più hanno a cuore il problema della
disoccupazione.
5
Ball (1999), Modigliani (1998), Solow (2000), …
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
Capitolo 1
IL FENOMENO DISOCCUPAZIONE
1.1. Cenni introduttivi
Innanzi tutto si cercherà di dare una collocazione spazio temporale al
fenomeno della disoccupazione partendo da una breve introduzione storica per
comprenderne le radici. Il testo di riferimento in questo caso è di Rodano (1998).
Riusciti finalmente a controllare l’inflazione, un nuovo grosso obiettivo si è
presentato nel panorama europeo: la disoccupazione. Ma la disoccupazione non
costituisce una novità dei moderni sistemi economici. Si tratta invece di un
problema che ha radici antiche: si può dire che esso sia nato insieme con il
capitalismo.
Tornando all’inizio della rivoluzione industriale nel settecento in
Inghilterra, si assiste all’affermazione di nuovi metodi di produzione, basati sul
lavoro salariato e sulla manifattura e dei mercati che sostituiscono
l’organizzazione economica basata sull’autoconsumo. L’affermazione del nuovo
assetto economico non avviene però in modo indolore, perché vengono messi in
crisi equilibri consolidati ed emergono problemi sociali drammatici quali la
povertà e la disoccupazione ad essa collegata. Sia chiaro che la povertà era un
fenomeno già noto anche nel Medio Evo, ma in questo periodo i poveri erano
inseriti in un assetto sociale che, pur perpetuandone la situazione, ne assicurava
la sussistenza: i ricchi (pochi privilegiati per nascita) dovevano averne cura.
Nel capitalismo, invece, la mobilità sociale è potenzialmente massima:
chiunque può diventare ricco, ma i poveri sono abbandonati a se stessi, sono
proletariato. Questo è il “regno” della libera iniziativa, o per usare
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un’espressione più dura, “dell’egoismo”. Tutto ciò è testimoniato da molti autori
dell’epoca come Jonathan Swift che descrive, in un breve saggio del 1729 (“una
modesta proposta”), situazioni di miseria sconvolgente dove persino i bambini
sono abbandonati a se stessi.
Smith ne “La ricchezza delle nazioni” (1776) sosteneva che bisogna lasciar
fare al mercato (mano invisibile), che renderà massima la ricchezza del paese e
risolverà i problemi posti dall’avvento del capitalismo. L’unico aiuto che si
poteva anzi dare al mercato era quello di liberarlo da tutte le barriere e i
regolamenti che potevano ostacolarlo. La cosa interessante è che la mano
invisibile ottiene i suoi risultati proprio facendo leva sull’egoismo. La congettura
di Adam Smith si rivelò lungimirante perché fino ad oggi il capitalismo e il
mercato hanno creato una massa enorme di posti di lavoro (e continuano a
crearne) e le persone che oggi lavorano sono non solo in grado di mantenersi, ma
vivono assai meglio dei loro antenati. Il capitalismo ha sì accresciuto la ricchezza
e il benessere, ma la disoccupazione è rimasta. Di volta in volta è diminuita o
cresciuta, ma non è mai scomparsa.
Negli anni ’30 si assistette al momento più critico del capitalismo: la
disoccupazione aumentò a livelli socialmente insostenibili perché un terzo delle
persone che volevano lavorare non riuscivano a trovare un posto di lavoro. In
quegli anni Keynes sostenne che per arrivare alla piena occupazione e, di
conseguenza, per sconfiggere la disoccupazione, non bastava il mercato con le
sue sole forze, ma c’era bisogno di sostenere la domanda aggregata
6
con politiche
monetarie e di bilancio. Secondo Keynes, nulla garantisce che il mercato attivi
una domanda aggregata sufficiente ad assorbire tutta la forza lavoro disponibile:
infatti, il mercato può trovare l’equilibrio in corrispondenza di qualsiasi livello di
6
Intesa come richiesta complessiva di prodotti.
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domanda aggregata e solo in uno di questi equilibri la disoccupazione è minima.
Negli anni ‘50-’60 ci fu la cosiddetta golden age in cui si affermarono le
idee di Keynes. La secolare guerra contro la disoccupazione sembrava vinta e in
via di estinzione. Poi tutto è cambiato un’altra volta: nei venti anni successivi la
disoccupazione, invece di sparire, ha ripreso a crescere. La situazione attuale
potrebbe essere sintetizzata con le parole di un famoso economista, Edmund
Phelps
7
:
Il sistema non è più in grado di offrire a oltre un quinto dei suoi membri in età attiva
opportunità economiche sufficienti per essere integrati nella società. Nel Regno Unito e negli
USA, il salario della manodopera generica (il gradino più basso della scala del lavoro) è ormai
troppo basso perché quest’ultima sia in grado di sostentarsi da sola o possa sviluppare
attaccamento al posto di lavoro. Nell’Europa occidentale e in Canada il salario viene stabilito in
misura variabile dal governo o da organismi per la definizione dei salari, ma questa pratica
blocca la manodopera dall’accesso ai posti di lavoro. La disoccupazione, l’emarginazione, la
tossicodipendenza e la criminalità che risultano da questo fenomeno generano costi e pericoli
per tutti.
Anche in questo brano si ritrovano i temi della povertà e della
disoccupazione, ma ora si può essere occupati e poveri come in America, oppure
disoccupati se, come avviene in Europa, le istituzioni fissano dei limiti salariali
più dignitosi di quelli fissati dal mercato.
Oggi i disoccupati non sono più lasciati a se stessi ma, in misura differente
da paese a paese, sono aiutati con sussidi, assicurazioni e altri strumenti.
In Europa, nel luglio 2000
8
, i disoccupati erano 11,826 milioni pari al 9,1%
della forza lavoro; in Italia la situazione, stando ai dati ufficiali
9
, è ancora più
grave.
7
Tratto da “La Repubblica – Affari e finanza” (Al lavoro il liberismo non basta, 19 maggio 1997).
8
Bollettino mensile della BCE, settembre 2000.
9
Bisogna tenere conto della particolare situazione italiana in cui esiste una realtà (quella meridionale)
dove il tasso di disoccupazione ufficiale è estremamente elevato, ma esiste un’economia sommersa molto
estesa che dà lavoro a una gran parte dei disoccupati
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La disoccupazione ha dei costi altissimi di ordine economico, psichico,
sociale, di deterioramento del capitale umano, dequalificazione e così via; tali
costi sono tanto maggiori quanto più elevato è il livello di disoccupazione.
Un’elevata disoccupazione può addirittura ostacolare il progresso (introduzione
di metodi di produzione più moderni e produttivi) perché i lavoratori, per non
diventare disoccupati con poche aspettative di nuovi impieghi, cercano in tutti i
modi di bloccare la riorganizzazione aziendale. In questo modo si può parlare
anche di deterioramento della qualità del lavoro occupato. Questa perdita di
qualità può arrivare anche a livelli altissimi, per esempio quando si tengono in
vita imprese “decotte” solo per non pregiudicare i posti di lavoro da esse attivati,
o quando si fanno assunzioni o si evitano licenziamenti avendo solo in mente il
numero degli occupati e non i beni e servizi che essi dovrebbero produrre. Qui la
logica è errata perché il lavoro è una risorsa che serve a produrre ricchezza e se
esso viene impiegato male, improduttivamente o inefficientemente, si sta
danneggiando il paese e distruggendo ricchezza.
Naturalmente il lavoro è una risorsa particolare e l’efficienza è solo uno dei
criteri che va preso in considerazione. Il problema non può essere risolto con un
lavoro qualsiasi, dequalificato, precario e malpagato. Come sottolineato
dall’economista americano Edmund Phelps (1997), i costi individuali, sociali ed
economici di una cattiva occupazione sono sostanzialmente uguali a quelli della
disoccupazione
10
.
10
Sembra essere questo un problema degli Stati Uniti dove a fronte di una disoccupazione molto bassa
(fisiologica), ci sono moltissimi occupati che vivono sotto la soglia della povertà
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
1.2. I dati e le definizioni generali del mondo del lavoro.
In Italia nel 1997
11
la forza lavoro era di 22,9 milioni e gli occupati erano
20,1 milioni; quindi i disoccupati erano 2,8 milioni (la differenza dei due
precedenti dati). Il tasso di disoccupazione è dato dal rapporto tra i disoccupati e
la forza lavoro, moltiplicato per cento. Questo tasso in Italia nel 1997 era del
12,3%, mentre in Europa nello stesso periodo era del 11,3%, negli USA del 5%,
in Giappone del 3,3%, nel Regno Unito del 7,1%, in Olanda del 5,2%, nell’area
OCSE
12
del 7,5%. Anche se il dato europeo e quello italiano sono leggermente
migliorati, la disoccupazione rimane un problema, tenendo comunque presente
che l’economia Italiana (ed Europea) presenta caratteristiche diverse da quella
statunitense o giapponese.
Si osservino ora i due grafici tenendo conto che i dati vanno valutati in
considerazione del fatto che, nei paesi più importanti, le serie storiche del tasso di
disoccupazione secolare non presentano tendenze all’aumento o alla
diminuzione, ma mostrano solo fluttuazioni cicliche irregolari.
Dalla figura 1 si nota che, tranne per il picco degli anni trenta, la
disoccupazione ha oscillato attorno al 5%. Mentre dalla figura 2 si nota che il
trend in Europa è chiaramente crescente.
11
I dati di questa prima parte del paragrafo sono tratti da Rodano (1998).
12
Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
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Figura 1 - Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti nel corso del ventesimo secolo
Fonte: OCSE, tratto da Giorgio Rodano (1998)
Figura 2 - Un confronto tra il tasso di disoccupazione europeo e quello americano
Fonte: OCSE, tratto da Giorgio Rodano (1998)
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
È importante tenere presente che la disoccupazione non è omogenea: né dal
punto di vista del territorio, né del sesso, né dell’età, né della qualificazione
professionale di chi cerca lavoro, né della condizione di disoccupato. Ad esempio
nel 1997 la disoccupazione in Italia era così divisa:
nord 6,6% centro 10,2% mezzogiorno 22,2%
Inoltre nella stessa area ci sono notevoli differenze tra regione e regione e,
all’interno della stessa regione, tra provincia e provincia.
Sempre in Italia il tasso di disoccupazione maschile era il 9,5% e quello
femminile il 16,8%; da notare che nell’UE il divario era molto meno marcato
(rispettivamente 10,7% e 12,5%).
Molto importante è il dato dell’età: in Italia il tasso di disoccupazione tra i
giovani con meno di 25 anni era il 33,5%; questo dato scende molto nella classe
di età 25-40 anni (13,1%), e ancor più nella classe con più di 40 anni (4,8%). In
generale poi, la disoccupazione colpisce i lavoratori meno qualificati: infatti dai
dati empirici si deduce che, con l’aumentare del grado d’istruzione, il tasso di
disoccupazione diminuisce.
Un’altra analisi è fatta sulla lunghezza del periodo di disoccupazione: si
definisce disoccupazione di lunga durata la percentuale (sul totale dei
disoccupati) di chi non ha trovato lavoro entro 6 mesi ed entro un anno;
naturalmente più queste percentuali sono alte più il fenomeno è grave perché
un’alta disoccupazione di lungo periodo porta a tutta una serie di conseguenze
che nuocciono all’economia e ai disoccupati
13
. Vediamo il confronto dell’Italia
con altri paesi: negli USA i due dati erano il 17,4 e il 9,5%, in Francia 61,5 e
39,5%, nel Regno Unito 58,1 e 39,8%, in Italia 80,9 e 65,6%; salta subito
all’occhio che la situazione italiana è molto grave e in più la qualità della
13
Nel prossimo capitolo si analizzerà in maniera più approfondita questo problema
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
disoccupazione si è deteriorata, mentre altrove è migliorata.
Nel bollettino mensile di maggio 2000 la BCE spiega che si è diffuso in
letteratura un approccio che considera l’evoluzione del mercato del lavoro in
termini di flussi. In tale contesto, il fenomeno della disoccupazione può essere
visto come una combinazione della durata della disoccupazione e della
probabilità di trovare impiego, che sono correlati alla grandezza dei flussi di
lavoratori in entrata e in uscita dal mercato del lavoro. Quindi una durata più
lunga e flussi più modesti comportano un maggiore livello di disoccupazione.
Una serie di studi che mettono a confronto il mercato del lavoro statunitense con
quello dei paesi dell’area dell’euro indicano che i flussi di lavoratori sono molto
più elevati negli USA e questo risultato è messo in connessione alla maggiore
sicurezza del posto di lavoro nell’area dell’euro.
L’ISTAT nell’indagine trimestrale sulla forza lavoro distingue 3 categorie:
Disoccupati in senso stretto: persone che hanno perso il proprio posto di
lavoro
Persone che cercano lavoro per la prima volta (quindi prima non
appartenevano alla forza lavoro)
Persone che non rientrano nelle prime due categorie, ma che dichiarano di
essere alla ricerca di lavoro (casalinghe, studenti, …)
E’ chiaro che i problemi sono diversi a seconda che sia alta la percentuale
della prima categoria o delle altre due: se la prima percentuale è alta, significa
che si stanno distruggendo posti di lavoro; invece se sono elevate le percentuali
delle altre due categorie, significa che non si riesce a creare nuovi posti di lavoro.
In Italia le tre categorie erano rispettivamente il 36,6%-43,6%-19,8%
14
: rispetto
al 1987, la prima categoria è raddoppiata.
14
Rodanno (1998).
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Dal 1993 si sta assistendo ad un leggero aumento della forza lavoro: quindi,
se per ipotesi il numero dei posti di lavoro rimane costante, significa che c’è un
aumento della disoccupazione; è importante quindi studiare l’andamento nel
tempo della forza lavoro, perché questo dato influisce poi su quello dei
disoccupati
15
.
A questo punto bisogna definire il tasso di attività che rappresenta la
percentuale della popolazione in età da lavoro (15-64 anni) che, o lavora, o vuole
lavorare. In Italia questo tasso era nel 1997 del 58,1%: esso è abbastanza costante
nel tempo, anche se si sta assistendo ad un aumento della percentuale femminile
ed una diminuzione di quella maschile. Dal confronto con altri paesi dell’UE
(tab. 1), si nota che l’Italia è sotto la media soprattutto per quel che riguarda le
donne.
Tabella 1 - Tassi di attività in alcuni paesi europei (valori percentuali)
Fonte: EUROSTAT, tratto da Giorgio Rodano (1998).
Questo per l’Italia non è un buon segnale perché c’è una rilevante massa di
15
Può verificarsi che in periodi di buone prospettive di occupazione (con un aumento quindi dei posti di
lavoro), molte persone che prima non facevano parte della forza lavoro siano spinte a cercare
un’occupazione; se queste persone sono più del numero di posti creati alla fine il saldo dei disoccupati
sarebbe negativo, vanificando così tutti gli sforzi di ridurre il numero dei disoccupati
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
forza lavoro potenziale, tenuta al margine del mercato, pronta a riversarvisi: tale
fenomeno è chiamato forza lavoro scoraggiata o disoccupazione nascosta.
16
Si definisce poi il tasso di occupazione come il rapporto tra il numero degli
occupati e la popolazione in età lavorativa moltiplicato per cento: tale tasso
misura il fabbisogno di lavoro che c’è in un paese. In Italia era (1997) del 51,3%
(ciò vuol dire che lavora la metà delle persone che può farlo, mentre in Europa il
tasso era del 60%, negli USA del 70%, nell’area OCSE del 67%. Dall’analisi dei
dati si nota che negli altri paesi il tasso è in aumento, mentre in Italia è in
diminuzione.
Interessante è vedere l’andamento dell’occupazione in Italia (fig.3).
Figura 3 - Tendenze dell’occupazione in Italia negli ultimi trent’anni (migliaia di unità)
Fonte: ISTAT, tratto da Giorgio Rodano (1998)
16
Il dato del tasso di attività da solo potrebbe però fuorviare l’analisi del problema perché bisogna tener
conto anche di altri dati come per esempio quello dell’assetto sociale del paese: ci sono paesi come la
Spagna e l’Italia dove sono presenti dei forti nuclei familiari di più persone; all’interno della famiglia
ogni componente si specializza nell’attività che ottimizza il benessere del nucleo familiare; ciò può
indurre a lavorare per esempio il solo marito mentre la moglie si specializza nelle attività domestiche e
alla cura dei figli. Quindi in questi paesi basta che lavori un componente di ogni nucleo famigliare ed è
sostenibile anche un elevato tasso di disoccupazione (più elevato di quei paesi in cui ci sono molti nuclei
monopersonali)
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
1.2.1. Le caratteristiche strutturali dei mercati del lavoro nell’area dell’euro
La BCE
17
afferma che il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro si
mantiene su livelli elevati, circa tre volte superiori a quelli registrati agli inizi
degli anni sessanta. Negli ultimi quarant’anni il tasso di occupazione nell’area ha
evidenziato una tendenza discendente, mentre la disoccupazione ha teso ad
aumentare. I problemi paiono concentrarsi in determinati gruppi, come le donne,
i giovani, i lavoratori anziani e quelli meno qualificati, mentre i maschi adulti
sembrano occupare una posizione analoga nell’area e negli Stati Uniti. La
dimensione regionale della disoccupazione è rilevante in alcuni paesi dell’area e
la disoccupazione di lunga durata è un problema grave in tutti i paesi.
L’analisi della BCE si concentra sull’evoluzione dei tassi di occupazione e
di attività. A tal fine essa sostiene che conviene scomporre la popolazione in età
lavorativa in tre categorie: gli occupati, le persone non attive e i disoccupati.
Vengono inoltre effettuati confronti specifici con gli USA, utilizzati come
termine di riferimento.
Nel 1960 gli occupati erano il 64,4% della popolazione attiva, 3,6% in più
che negli USA (fig. 4a). Successivamente il tasso di occupazione è diminuito
nell’area al 59,4% nel 1999, mentre negli USA ha registrato un costante aumento
fino al 74,6% nel 1999.
17
Bollettino mensile di maggio 2000
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
Figura 4 – Scomposizione della popolazione in età lavorativa, nell’area dell’euro e
negli Stati Uniti: 1960-1999.
Fonte OCSE (tratto dal bollettimo mensile di maggio 2000 della BCE).
Negli Usa l’aumento dell’occupazione si è associato a un deciso aumento del
tasso di attività (fig. 4b). Un andamento analogo è riscontrabile per la
disoccupazione (fig. 4c). Nel 1960 appena l’1,4% della popolazione attiva
dell’area era senza impiego. In seguito questa quota ha registrato una crescita
ininterrotta, mantenendosi tuttavia al di sotto di quella statunitense fino al 1984,
anno in cui è avvenuto il sorpasso. Viceversa, negli USA, solo il 3,3% della
popolazione in età lavorativa era disoccupato nel 1999, valore praticamente
LA STRATEGIA DI POLITICA MONETARIA NELL’EUROSISTEMA E LA DISOCCUPAZIONE IN EUROPA
invariato rispetto al 1960, nonostante il temporaneo picco del 7% del 1983. Negli
ultimi anni si assiste ad un amento del tasso di occupazione accompagnato a un
certo calo della disoccupazione. Di fatto, all’incremento della disoccupazione
degli anni ’90 è corrisposto un modesto ampliamento del tasso di attività rispetto
alla metà degli anni ’80, anziché un ulteriore calo del tasso di occupazione che
aveva costituito il fattore predominante del periodo precedente.
1.2.1.1. L’andamento dell’occupazione nell’area dell’euro
Nel secondo trimestre del 1999 il numero degli occupati dell’area dell’euro
era di circa 117 milioni. La situazione occupazionale varia in misura significativa
tra i paesi dell’area con notevoli differenze nell’evoluzione delle diverse
componenti dell’occupazione. Nel 1999 il tasso di occupazione femminile era di
18 punti percentuali inferiore a quello degli USA, mentre il divario per i maschi
era di 12 punti, anche se vi è un’opposta tendenza tra i due tassi: dalla fine degli
anni ’80 quello femminile è aumentato mentre quello maschile è diminuito. Una
scomposizione dei tassi di occupazione dell’area per classi di età fa emergere,
negli ultimi quindici anni, da un lato un aumento del numero dei lavoratori adulti
e, dall’altro, un declino dei lavoratori giovani e di quelli anziani (fig. 5
18
). Il
declino del tasso di occupazione giovanile potrebbe riflettere in parte l’aumento
della durata degli studi, mentre per i più anziani esso potrebbe essere collegato
all’attuazione di piani di pensionamento anticipato in numerosi paesi.
18
Nella figura vengono messi a confronto i tassi di occupazione per classi di età tra la fine degli anni ’80
e la fine degli anni ’90.