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INTRODUZIONE
La stimolazione magnetica transcranica (TMS) è una tecnica per la
stimolazione non invasiva del cervello. Essa sfrutta l’induzione di campi
magnetici per attivare la corteccia cerebrale. La Tms, per le sue caratteristiche
tecniche, è considerata all’interno del mondo scientifico uno strumento di
grande interesse per indagare il funzionamento del sistema nervoso (Bricolo et
al, 2010).
L’obiettivo che ci si propone in questa tesi è quello di evidenziare le
possibilità riabilitative, oltre che conoscitive e diagnostiche, aperte dall’utilizzo
della TMS su pazienti affetti dalla Malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer
Disease). Infatti, numerose ricerche sostengono che la TMS possa favorire la
riabilitazione dei pazienti AD.
L’AD è una patologia neurodegenerativa primaria, progressiva ed
irreversibile; di cui ancora non si conoscono completamente le cause e i
meccanismi patogenetici (Castellani et al, 2010). Quello che è certo è che la
sua diffusione è aumentata notevolmente negli ultimi decenni e il costo per il
trattamento/gestione dei malati AD ha un impatto notevole sia a livello sociale
sia individuale (St George Hyslop, 2000). Ragion per cui è sempre più urgente
la ricerca di soluzioni terapeutiche risolutive o che almeno migliorino la
sintomatologia dei malati.
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Nella presente tesi inizialmente sono descritte le manifestazioni cliniche,
il decorso naturale dell’AD e il percorso diagnostico in uso per rilevare la
presenza della patologia. Successivamente sono passate in rassegna le
principali acquisizioni scientifiche sulla malattia, come le ipotesi eziologiche
più accreditate e i meccanismi patogenetici sottostanti all’esordio e alla
progressione dei sintomi dell’AD.
Nella seconda parte della tesi si descrivono le caratteristiche, le funzioni
e le applicazioni della TMS. Infine si discutono le possibilità aperte dall’uso
della TMS sull’AD. Infatti, la TMS è uno strumento sempre più utilizzato,
poiché, consente lo studio e l’indagine delle alterazioni del sistema nervoso in
vivo ed in modo non invasivo (Bonfiglioli e Castiello, 2005). D’altro canto, si
ritiene che i treni di impulsi inviati dalla TMS ripetitiva (rTMS) siano in grado
di elicitare fenomeni di neuroplasticità nel cervello (Solé-Padullés et al., 2006);
per cui è sempre più probabile il suo impiego nella riabilitazione dei deficit
cognitivi dei pazienti AD.
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PRIMO CAPITOLO
LA DEMENZA DI ALZHEIMER:
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE E ASPETTI CLINICI
1.1 Definizione della demenza
Il termine demenza deriva dal latino e significa: essere privato della
propria mente. Le tracce più antiche di questo termine risalgono al 20 DC,
quando Aulo Cornelio Celso lo utilizzò nel De Medicina. per indicare in modo
sommario tutti gli stati di alterazione mentale e comportamentale. Di
conseguenza per molto tempo questo termine ha avuto un significato molto
ampio anche in ambito medico (Tabaton, 2000). Il significato che ha assunto
nei giorni nostri è il risultato di lunghe discussioni all’interno del mondo
scientifico e accademico. Infatti, oltre che distinguere, le patologie
dementigene dai disturbi mentali su base funzionale e dalle condizioni di
ritardo mentale congenito, è stato necessario tenere in considerazione due nodi
problematici: da una parte evidenziare la complessità del quadro clinico,
d’altra parte dare ai clinici un valido punto di riferimento per effettuare la
diagnosi.
Attualmente, il termine demenza è utilizzato per indicare delle sindromi
che si manifestano in modo caratteristico nell’ età adulta, principalmente nella
maturità o nella senescenza, esse sono caratterizzate da <<una complessa
modificazione comportamentale, di tipo quasi esclusivamente riduttivo, in cui
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si assommano molteplici difetti di natura cognitiva e psichiatrica […] ad
andamento evolutivo sistematicamente peggiorativo>> (Splinner, 1985).
Una definizione che descrive in modo più specifico la demenza di
Alzheimer è quella data dal Committee of Geriatrics del Royal College of
Physicians Britannico (cit. in Ladavas e Berti, 2009) secondo cui la demenza
consiste: “nella compromissione delle funzioni corticali superiori, compresa la
memoria, della capacità di far fronte alle richieste del quotidiano e di svolgere
le prestazioni percettive e motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un
comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie
reazioni emotive: tutto ciò in assenza di compromissione dello stato di
vigilanza”.
Questa definizione, peraltro simile a quella del DSM IV TR
(American Psychiatric Association, 2000), è basata sul quadro clinico dell’AD
poiché è così diffusa da essere diventata la demenza per antonomasia. Una
caratteristica saliente segnalata nella definizione sopra riportata è
l’incompetenza ecologica (Splinner, 1985), termine utilizzato per indicare la
progressiva incapacità del soggetto demente a svolgere le attività quotidiane a
causa del progressivo declino delle funzioni cognitive.
L’incompetenza ecologica è un tratto comune a tutte le sindromi
dementigene, tuttavia sono molteplici le cause di demenza cosi come diversi
possono essere i quadri clinici con cui si manifestano. Per quanto riguarda la
demenza presa in oggetto in questa tesi, la malattia di Alzheimer, si manifesta
inizialmente con un quadro clinico in cui predominano deficit di tipo
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strumentale, cioè la malattia è caratterizzata da disturbi di memoria, afasia,
aprassia e agnosia, questa manifestazione caratteristica dipende dalla
degenerazione delle regioni cerebrali temporo-parietali che presiedono alle
funzioni strumentali (Vallar e Papagno, 2007). Inoltre, la presenza costante dei
deficit neuropsicologici sopra elencati, insieme al maggior addensamento (non
esclusivo) delle lesioni degenerative nella neocorteccia, fa si che l’AD sia
universalmente considerata il prototipo delle demenze corticali, e possa essere
contrapposta alle forme di demenza (il morbo di Parkinson in primis) con
lesioni principalmente sottocorticali, caratterizzate dalla presenza di disturbi
affettivi e motori.
Molteplici sono anche le cause alla base del deterioramento mentale
(Carbone, 2008), una classificazione ampiamente accettata racchiude le
demenze due gruppi: le forme primarie, progressive e irreversibili e le forme
secondarie. Sono definite primarie, progressive e irreversibili, quelle malattie
che colpiscono direttamente e inesorabilmente il tessuto cerebrale, fanno parte
di questo gruppo: la malattia di Alzheimer, la demenza a corpi di Lewy (DLB),
le demenze fronto-temporali (FTD), il Parkinson, la paralisi sopranucleare
progressiva, la degenerazione cortico-basale, la degenerazione spino
cerebellare, la malattia di Huntington, l’atrofia multi sistemica ecc… Le forme
secondarie di demenza sono la conseguenza di patologie cerebrali non causate
da una degenerazione neuronale (ad es. l’ emorragia o l’ischemia cerebrale,
tumori o metastasi cerebrali, malattie psichiatriche e infezioni del SNC), di
patologie a carico di altri organi ( disturbi endocrini o metabolici, malattie
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respiratorie ostruttive e condizioni di carenza di vitamine) o di fattori
accidentali (traumi cranici e intossicazione da sostanze). Le forme secondarie
possono a loro volta essere suddivise in reversibili (ad es. carenze vitaminiche,
idrocefalo ecc…) ed irreversibili (ad es. la demenza vascolare).
1.2 Storia della malattia di Alzheimer
Il morbo di Alzheimer prende il nome dal suo scopritore, Alois
Alzheimer, il medico tedesco che per primo documentò la malattia agli inizi del
‘900; quando intervistò una sua paziente cinquantenne, la signora Auguste D.
La paziente di Alzheimer presentava tutti i sintomi caratteristici dell’AD. La
signora morì dopo aver trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita
ricoverata in un istituto per malati di mente; è ricordata come la prima paziente
cui venne accertata quella che successivamente sarebbe stata una delle
demenze più conosciute. Alzheimer non condivideva le ipotesi psicoanalitiche
dominanti in quel tempo, egli era più propenso a cercare alterazioni organiche
per spiegare i disturbi mentali, tanto da essere chiamato "il medico dei pazzi col
microscopio" (Maurer e Maurer, 1999). Infatti, non si limitò a descrivere la
manifestazione clinica della malattia, ma nel novembre del 1906 presentò il
caso della signora Auguste D. alla 37° assemblea degli psichiatri tedeschi del
Sud, e descrisse due tipi di lesioni che ancora oggi sono considerate alla base
dell'etiopatogenesi della malattia: le placche e le alterazioni neurofibrillari.
Queste osservazioni furono fatte con la collaborazione di due medici italiani:
Gaetano Perusini e Francesco Bonfiglio. Alzheimer incaricò Perusini di seguire
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i nuovi casi di giovani pazienti “confusi”. Nel 1909 Gaetano Perusini, dopo
aver studiato altri 4 casi clinici, pubblicò una dettagliata descrizione delle
manifestazioni cliniche e delle alterazioni neuropatologiche della malattia.
Perusini concluse che il reperto comune ai quattro casi fosse la formazione
delle placche e dei grovigli neurofibrillari. Inoltre, a differenza di Alzheimer,
ritenne opportuno includere la demenza senile e quella presenile in un’unica
forma di demenza, poiché avevano in comune le stesse alterazioni cerebrali.
Perusini suppose che nei pazienti AD l’ostacolo al normale funzionamento
cerebrale fosse la presenza di una sostanza collosa in grado di far aggregare le
fibrille neuronali, l’esistenza di questa sostanza è stata dimostrata
scientificamente nel 1984 (Burns et al, 2002).
Nel 1910 la malattia venne inserita per la prima volta dallo psichiatra
Emil Kraepelin nel suo Lehrbuch der Psychiatrie, Trattato di Psichiatria, con il
nome di malattia di Alzheimer o demenza presenile. Seguendo le ipotesi di
Alzheimer il termine in principio fu utilizzato solo per le forme early-onset,
con esordio prima dei 65 anni, si è dovuto aspettare sino al 1977 per unificare
tutte le forme di Alzheimer sotto un’unica etichetta diagnostica (Carbone,
2008).
Occorre precisare che sebbene l’AD era una patologia conosciuta da più
di 100 anni, inizialmente si considerava solo una curiosità scientifica. Nella
pratica clinica le diverse forme di demenza erano ricondotte o all’avanzare
dell’età o inquadrate come manifestazioni variabili di un'unica patologia non
meglio definibile. Solo negli ultimi 30-40 anni le ricerche e gli studi scientifici
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hanno permesso di svelare, almeno in parte, la presenza di diverse sindromi
dementigene e i meccanismi alla base di questi disturbi (Bianchin e Faggian,
2009). Questo crescente interesse è interpretabile anche come la necessità di
porre un rimedio a quella che è stata definita l’epidemia silente del nuovo
millennio. Per comprendere la gravità della situazione attuale e quella che si
prospetta per il futuro nel prossimo paragrafo saranno discussi i dati
epidemiologici.
1.3 Epidemiologia della demenza di Alzheimer
Le demenze sono in progressivo aumento in tutto il mondo a causa
dell’invecchiamento delle popolazioni e dell’aumento dell’aspettativa di vita
soprattutto nelle società occidentali, questo fenomeno è il prodotto di
cambiamenti dell'economia, sociali, assistenziali e culturali che hanno
permesso il realizzarsi di condizioni compatibili con una aumento
dell’aspettativa di vita (Amoretti e Ratti, 2000). L’invecchiamento delle
popolazioni comporta un aumento dei casi di demenza, essendo l’età il
principale fattore di rischio documentato, per lo sviluppo di queste sindromi.
Adesso, le demenze rappresentano tra gli ultrasessantacinquenni la quarta
causa di morte nei paesi occidentali; ragion per cui costituisce una delle più
importanti emergenze in cui saranno impegnati i sistemi socio-sanitari. Occorre
precisare che la maggior parte degli studi epidemiologici sulla demenza fanno
in particolare riferimento alla AD e alla VaD (Demenza vascolare), in quanto la
malattia di Alzheimer è la causa più frequente di demenza (50-60% dei casi), il
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10-20% è su base vascolare; nel 15% circa dei casi la forma degenerativa e
quella vascolare coesistono.
I casi accertati di AD negli Stati Uniti raggiungono i quattro milioni (St
George Hyslop, 2000), mentre le stime epidemiologiche relative all’Italia
parlano di oltre 500.000 persone affette dall’AD. Uno studio dell’ILSA ha
calcolato che in Italia ogni anno sono diagnosticati 80.000 nuovi casi di AD e
dal 2020 vi saranno 113.000 nuovi casi di demenza in Italia (Di Carlo et al.,
2002). Per quanto riguarda la situazione mondiale si prevede che nel 2030
saranno circa quattordici milioni i malati di AD.
Per quanto riguarda i dati sulla prevalenza e sull’incidenza dell’AD il
bollettino epidemiologico italiano (Vanacore et al., 2005) sostiene che in
Europa la demenza di Alzheimer abbia una prevalenza (cioè i casi censiti al
momento della rilevazione) nella popolazione variabile tra le diverse fasce di
età. Si osserva un aumento di casi, tra i soggetti più anziani soprattutto se di
sesso femminile, mentre la prevalenza è omogenea tra i diversi gruppi etnici. I
valori riportati dallo studio vanno dallo 0,7% per la classe d’età 65-69 anni al
23,6% per le ultranovantenni, rispetto agli uomini i cui valori variano
rispettivamente dallo 0,6% al 17,6%. Anche il numero di nuovi casi l’anno
(incidenza) aumenta in modo esponenziale tra i soggetti appartenenti alle classi
di età più elevata, infatti, si va da 0,9 casi per 1000 uomini nella fascia di età
compresa tra i sessantacinque e i sessantanove anni a venti casi in quella con
età maggiore di novanta anni. L’incidenza per le donne varia da 2,2 a 69 per le
medesime classi di età.