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INTRODUZIONE
In un mondo in cui ogni verità è messa in discussione, in cui la realtà
virtuale supera la contingenza, il cinema contemporaneo risponde a
tono con un’immagine filmica nuova, che rompe ogni tradizione con il
passato e valica il presente per rappresentare una realtà simulata e
simulacrale, che non ha più legami con il mondo reale. Tanti i nomi di
cineasti abili a descrivere questa condizione postmoderna, ma solo
uno ha saputo effettivamente coniugare la realtà con il suo simulacro,
realizzando opere che danno indiscutibilmente l’impressione di
galleggiare in una zona non determinata tra la realtà e la fantasia e il
suo nome è: David Lynch. Un artista completo, capace di “collocare la
realtà sociale e il suo supplemento fantasmatico rimosso, uno accanto
all’altro, come due universi che si alternano.”
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Nei suoi film è difficile
percepire la distinzione tra il piano reale e quello irreale che però
appartiene allo stesso universo e nasce da esso. I fantasmi, la
dimensione onirica, il perturbante, sono i principali elementi che
contraddistinguono il suo stile e sono del tutto in linea con lo scenario
postmoderno in cui vive la società odierna. Gli individui che la
abitano, sono, infatti, ossessivamente attratti dall’estasi dell’iperrealtà
alimentata dal regno dei computer e dei media, tanto da trasformare se
stessi in entità mediatiche. T u t t o c i ò c o m p o r t a c h e r e a l e e
immaginario si trovano a condividere lo stesso spazio senza che sia
più possibile distinguere l’uno dall’altro, e capirne il senso. Proprio
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Žižek, Slavoj, Il godimento come fattore politico, Milano, Raffaello Cortina
Editore, 2004, p. 149.
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questa situazione dello spazio reale porta a un crollo psicologico
dell’Io che non regge l’assenza di verità. La psicosi diventa allora, la
sua unica ancora di salvezza, come quella a cui si abbandona Bill
Pullman in Lost Highway o Naomi Watts in Mullholland Drive. Per
descrivere questa condizione psicogena così evidente nei film
lynchiani, ho scelto prima di percorrere la storia dell’origine del
concetto di simulacro e della sua applicazione nei media, nella
letteratura e nel cinema. Un primo esempio di simulacro “applicato”
lo riscontriamo chiaramente nella diretta tv: ogni evento storico si
trasforma in uno show, perfetto contenitore di simulacri. Siamo giunti
a un momento in cui possiamo dire con fermezza che oggi non c’è un
solo istante nella vita degli individui che non sia modellato,
contaminato e controllato da qualche dispositivo. Ciò significa che la
stessa realtà è ormai oggetto di consumo e l’identità è talmente
disgregata da moltiplicarsi in una moltitudine di Io; processo evidente
grazie ai social network. Anche l’arte ha contribuito a tale condizione,
in particolare la letteratura di fantascienza, e uno dei migliori, se non il
più rilevante tra gli autori del genere, Philip K. Dick, ha costituito un
serbatoio infinito di contenuti che hanno ispirato alcuni dei più
importanti film della storia del cinema, in primis Blade Runner di
Ridley Scott, liberamente tratto dal suo romanzo “Do androids dream
of eletric sheep? Protagonisti degli universi dickiani sono gli androidi,
essere artificiale che ci appaiono come naturali; essi sono una perfetta
esemplificazione del simulacro. L’androide rappresenta una realtà
artificiale in cui non si riconosce più la verità, e che ci mostra come
l’umano sia sempre più simile ad esso. Forse l’unico elemento che ci
contraddistingue dai robot e quindi dalla realtà artificiale, è l’empatia,
mentre tutto i l r e s t o è s t a t o d e f i n i t i v a m e n t e a r t i f i c i a l i z z a t o . F o n t e
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d’ispirazione non solo per Ridley Scott, ma anche per altri grandi
registi come Cronemberg, Mike Leigh, Gus Van Sant, i fratelli
Wachowski con la trilogia di Matrix, Philip K, Dick ha creato un
legame diretto con quel mondo di cyborg, di doppi e simulacri che
rendono semplice la comprensione di un mondo post umano, il cui il
virtuale ha preso il sopravvento frantumando l’identità umana.
L’immagine filmica poi, costituisce per sua stessa natura, un falso, ed
è inevitabile che sia così perché è un prodotto della mente umana. È
un’immagine che illude e inganna, è un’apparizione temporanea,
dunque esiste solo nel momento in cui la vediamo sullo schermo. Con
il montaggio, infatti, l’immagine filmica firma la sua artificialità.
Attraverso tale tecnica l’autore organizza la sua opera offrendo allo
spettatore il suo punto di vista sulla realtà. Il cinema sperimentale ha
giocato molto sulla creazione di un’immagine filmica somigliante,
non vera, ma copia differenziale del visibile; ha realizzato così,
immagini che alterano il reale e che derivano dall’inconscio.
Ricordiamo i surrealisti come Buñuel, Fellini, Resnais e poi i più
contemporanei Kenneth Anger, Abel Ferrara, Stanley Kubrick e da
non dimenticare David Lynch.
Questa lunga premessa mi ha dato modo di poter parlare dell’autore
protagonista della tesi e per essere il più possibile, esaustiva,
(impossibile esserlo del tutto con un artista così polivalente) ho
visionato tutta la sua carriera, che non può essere più eclettica,
soffermandomi in particolare su sei dei suoi principali film realizzati
per il cinema: Eraserhead, Blue Velvet, Wild at Heart, Lost Highway,
Mullholland Drive e infine Inland Empire.
Ogni pellicola è stata analizzata, approfondendo in particolare il
rapporto che ognuna ha con il reale. Cosa ne è venuto fuori? Tanto.
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Per iniziare, il segreto delle scene ipnotiche e surreali di Lynch risiede
proprio nell’abbandono totale della dicotomia tra sogno e realtà. Con
Lynch, infatti, assistiamo all’esperienza più radicale di superamento
del tradizionale ordine della realtà, senza arrivare mai a negare il
racconto, ma compiendo una vera e propria rivoluzione narrativa. Il
suo cinema percorre le strade di una sperimentazione assoluta delle
nuove strutture narrative, inserendo l’enigma e la realtà fantasmatica
nella logica di un racconto strutturato. Tutti i suoi film hanno una
logica, anche quelli della seconda fase del suo cinema come
Mullholland Drive e Inland Empire, che dimostrano un definitivo
strappo e la totale sparizione del reale, ciò avviene perché ogni
elemento narrativo lynchiano, anche il più disconnesso, è
inestricabilmente legato alla vita. Ma, che cosa s’intende per
lynchiano? Per spiegarlo, vorrei usare le parole di uno dei migliori
narratori americani contemporanei, David Foster Wallace, il quale, da
grande appassionato di Lynch, ha avuto, ahimè, la fortuna di visitare
per tre giorni il set di Lost Highway, riportando idee ed esilaranti
“dietro le quinte” in un divertente racconto intitolato David Lynch
Keeps His Head, all’interno di un altro più ampio saggio dal nome A
Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again. Riguardo al cosiddetto
termine lynchiano, Wallace afferma: “una definizione scientifica di
lynchiano potrebbe essere che il termine si riferisce a un particolare
tipo di ironia dove il molto macabro e il molto banale si combinano in
maniera tale da rivelare la costante presenza del primo all’interno del
secondo. […] Un tizio che uccide la moglie, in sé per sé, non è una
cosa dal sapore particolarmente lynchiano, ma se viene fuori che il
tizio ha ucciso la moglie perché, tipo, lei si ostinava a dimenticarsi di
riempire il nuovo vassoietto dei cubetti di ghiaccio dopo aver preso
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l’ultimo cubetto, o si rifiutava ostinatamente di comprare una
particolare marca di burro d’arachidi alla quale era affezionato, si
potrebbe parlare di un omicidio che presenta tratti lynchiani. […] Per
me la decostruzione, come avviene nei film di Lynch, di questa ironia
del banale ha influenzato il modo in cui vedo e strutturo mentalmente
il mondo. Dal 1986 ho notato che un buon 65% della gente che vedi al
capolinea degli autobus in città fra mezzanotte e le sei del mattino
tende ad avere i requisiti tipici delle figure lynchiane – vistosamente
brutta, infiacchita, grottesca, carica di un’afflizione del tutto
sproporzionata alle circostanze visibili.”
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David Lynch è un artista a trecentosessanta gradi, capace di coniugare
la sua formazione artistica con l’esperienza audiovisiva, in un
connubio esplosivo che ha ispirato e ispira tuttora grandi registi.
Sempre Wallace ci parla della straordinaria somiglianza con il
postmoderno Quentin Tarantino. Probabilmente Tarantino non
esisterebbe senza David Lynch come modello di riferimento, senza
l'insieme di codici e contesti che Lynch ha portato nel profondo del
cervello dello spettatore. “I lunghi dialoghi consapevolmente banali
sulla carne di maiale, i massaggi ai piedi, gli episodi pilota della serie
tv, ecc. che scandiscono la violenza di Pulp Fiction, una violenza la
cui stilizzazione inquietante/comica è altrettanto clamorosamente
lynchiana. […] Le Iene a d e s e m p i o , c o n l e s u e c h i a c c h i e r e
comicamente banali durante il pranzo, i nomi in codice sinistramente
inutili e un’invadente colonna sonora pop kitsch vecchio di decenni, è
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Wallace, David Foster, Tennis, TV, trigonometria, tornado e altre cose
divertenti che non farò mai più, Roma, Minimum Fax, 1999, pp. 242, 244.
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un Lynch divenuto commerciale, cioè più svelto, più lineare, dove
quello che era idiosincraticamente surreale è reso ora elegantemente
(cioè fighettamente) surreale”.
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David Lynch è, quindi, un cineasta
bizzarramente unico e autentico; è stato quello che più di ogni altro
regista ha saputo incastrare come un gioco di scatole cinesi, l’irreale
nel reale, e la violenza che utilizza nei suoi film, così grottesca e
perturbante, è qualitativamente differente da ogni altro tipo di violenza
presente nei film hollywoodiani, o in quelli definiti “indipendenti”; la
sua violenza delinea sempre qualcosa, nasconde sempre un significato
psicologico all’interno, tra cui la fuga psicogena dell’individuo
disperato per la disgregazione della sua identità. I film di Lynch sono
inoltre stati indicati spesso come malati, inquietanti, disturbanti e ciò
avviene perché essi sono fortemente istintivi e mostrano la grande
abilità del suo regista di accedere al proprio inconscio, come se
fossero espressione di una parte della sua psiche. Ma quello che li
rende davvero disturbanti è il fatto che ci mostrano come parti di noi
stessi siano riflesse nei suoi personaggi. In Blue Velvet, non siamo
disturbati troppo dalla violenza del personaggio interpretato da Dennis
Hopper, ma più dall’attrazione che il protagonista, Kyle MacLachlan,
ha nei suoi confronti. E’ qui che risiede l’arcano fascino delle pellicole
del regista. Per usare ancora le parole di Wallace: “Niente mi fa
sentire male quanto vedere sullo schermo alcune delle parti di me che
sono andato a cinema per cercare di dimenticare.”
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Questa è la grandezza di David Lynch, la sua capacità di rendere
partecipe lo spettatore della malattia insita nella violenza, e di rendere
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Ivi, pp. 246, 247.
4
Ivi, p. 252.
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questo mondo di segreti oscuri e di malvagità, così reale da sembrare
quasi palpabile. Il coraggio che quest’artista ha dimostrato nel
realizzare film così audaci e sorprendentemente all’avanguardia dal
suo esordio con Eraserhead, fino al suo ultimo e più sperimentale
Inland Empire, è assolutamente da ammirare in un mondo del cinema,
in particolare quello Hollywoodiano, in cui film commerciali e film
indipendenti finiscono per assomigliarsi irrimediabilmente. Lynch non
è semplicemente un ribelle, un indipendente, un anti hollywoodiano;
egli supera la sperimentazione e rende omaggio alla realtà in una
maniera autentica e senza presunzione. Non ci offre mai un risvolto
morale e non vuole istruirci né tantomeno infarcire i suoi film di puro
tecnicismo.
“A Quentin Tarantino interessa guardare uno a cui stanno tagliando un
orecchio; a David Lynch interessa l'orecchio.”
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Questa frase basta a spiegare il motivo che mi ha spinto a indagare su
di lui.
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Ivi, p. 247.