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tempo veniva definita traduttologia, e che oggi è confluita negli studi
noti come Translation Studies. Il capitolo 4 descrive le modalità più
comuni di traduzione del testo filmico. Sottotitoli e doppiaggio sono le
soluzioni più utilizzate e nel passare in rassegna caratteristiche, pregi e
difetti di ciascuna, focalizzeremo l’ attenzione sulla prima soluzione,
in quanto ha implicazioni semiotiche molto più rilevanti (dal codice
parlato a quello scritto, che è piuttosto un parlato ‘mascherato’ da
scritto). E vedremo alcuni esempi di traduzione filmica, come l’
originale scelta del regista francese Jean-Luc Godard ne “Il disprezzo”
(Le Mèpris), dove il ruolo del traduttore è inscritto nella narrazione
stessa. Nel capitolo 5 spiegheremo cosa sono i sottotitoli, come si
realizzano, le tipologie, le implicazioni linguistiche e semiotiche, le
strategie teorizzate da Gottlieb, uno dei maggiori teorici in quest’
ambito. Infine il caso-studio è quello della sottotitolazione ad opera del
Prof. Gordon Poole di alcuni celebri film di Totò, per consentirne la
fruizione ai parlanti la lingua inglese. La scena di cui confronteremo
trascrizione del parlato, traduzione in inglese e sottotitoli che
compaiono sullo schermo, è tratta da ‘Totò a colori’ (1952, di Steno) e
rappresenta la ‘messa in pratica’ delle riflessioni teoriche sulla
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sottotitolazione. Con questo esperimento si è così riusciti ad esportare
all’ estero il genio comico di Totò, ancora poco noto in America ed
Inghilterra.
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1. Breve storia del segno linguistico
1.1 Le origini del segno: Platone ed Aristotele
Prima di giungere alle riflessioni teoriche di alcuni dei padri della
semiotica scientifica contemporanea, come Saussure (1857-1913) e
Pierce (1839-1914), è utile ripercorrere la storia del segno, per vedere
come sin da epoche lontanissime, abbia assunto valenze differenti;
spesso opposte.
Nell’ antica società greca il segno (semèion), è legato a specifiche arti
ed attività finalizzate ad interpretare fenomeni naturali ed eventi,
appunto come semèia. Un esempio molto interessante viene dalla
fisiognomica, scienza che interpreta le forme corporee, come
espressioni dello spirito. In un celebre trattato della scuola di
Aristotele (Gensini, 1999, p.26) si legge:
“I segni del coraggio sono: capelli ispidi, portamento eretto, ossa
fianchi ed estremità del corpo forti e grandi […]. I segni del codardo
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sono: capelli morbidi, rilassatezza, non energia nel fisico, polpacci
larghi in alto […] ”.
Chiaramente qui ci si riferisce ai segni attribuendovi lo statuto di indici
naturali, (di cui i sintomi delle patologie sono un altro esempio
classico), i quali non sono frutto di una volontà di comunicare, ma che
interpretiamo sulla base di conoscenze pregresse. Entra in gioco così,
il concetto di intenzione comunicativa, lungamente descritto da Luis
Prieto (1971), semiologo che ha approfondito la nozione di segno di
Saussure (vedi 1.2).
A Platone si fa risalire il concetto di segno come ‘aliquid sta pro
aliquo’. Nel Cratilo il filosofo mostra però le difficoltà di attribuzione
di una definizione univoca. Attraverso alcuni dibattiti tenuti da
Socrate, egli confronta le ragioni di Cratilo, che sostiene la
motivatezza dei segni nell’ esprimere la realtà, con il punto di vista di
Ermogene, che invece da convinto ‘nominalista’, sostiene la
convenzionalità ed arbitrarietà dei segni. Infatti ebbe a dire che
“nessun nome è inerente a nessuna cosa per natura, ma soltanto per
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consuetudine e per l’ uso di coloro che […] continuano a chiamare le
cose in un certo modo” (Gensini, 1999).
Il dibattito si arricchisce con Aristotele: oltre alle entità foniche e alle
cose (tà pràgmata), egli aggiunge la fondamentale dimensione dei
concetti, che chiama ‘cose che sono nell’ anima’. Diventa così centrale
il rapporto tra suono della voce e contenuto psichico. Nel Medioevo le
interpretazioni spesso erronee degli scritti di Aristotele sembrano
offuscare il reale valore che il filosofo dà delle tre entità in gioco,
gettando non pochi dubbi sulla universalità dei concetti che gli
Scolastici hanno posto a fondamento della sua nozione di segno (vedi
cap.3.2). Per lui infatti, stando a questa interpretazione, oggetti e
concetti sono condivisi ed universali, mentre i segni fonici sono
mutevoli a seconda delle lingue.
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1.2 L’ evoluzione da S. Agostino a Saussure
Molto interessanti furono anche le riflessioni sul funzionamento dei
segni ad opera di S. Agostino (354-430), il quale per certi versi giunge
alle stesse conclusioni del celebre semiologo Ferdinand de Saussure a
cavallo tra ‘800 e ‘900.
Stefano Gensini (1999) ha infatti notato come, sebbene attraverso
terminologie differenti ed in epoche lontanissime tra loro, entrambi i
pensatori definiscono un segno come un’ entità a due facce, l’ una
fisiologicamente percepibile (un suono, del fumo, o altro), l’ altra
metafisica, attinente cioè alla mente; così come entrambi attribuirono
al codice verbale la caratteristica di ‘onniformatività’: per Agostino il
linguaggio è più ‘potente’ di altri segni o sistemi di segni, e questo
principio verrà confermato da Saussure, nel Corso di linguistica
generale (1922) e da altri illustri linguisti come Tarksi e Hjemslev, i
quali sostengono che se le parole riescono a tradurre i significati da
altri linguaggi, molto raramente accade l’ opposto. Nell’ imponente
opera De doctrina christiana Agostino ribadisce la differenza tra segni
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in senso stretto e ciò che utilizziamo ad significandum e che in linea di
principio potrebbe essere qualunque cosa cui attribuiamo valore
segnico. Infatti “dei segni, alcuni sono naturali (naturalia) altri
intenzionali (data). Sono naturali quelli che senza alcuna intenzionalità
o volontà di significare, fanno conoscere […] qualcos’ altro oltre sé
[…]. Intenzionali sono quelli che gli esseri viventi si scambiano per far
conoscere, per quanto è possibile, le emozioni del proprio animo […]”
(S.Agostino, De doctr. Chr. II I).
Agostino distingue dunque la ‘significazione naturale’ dalla
‘significazione intenzionale’, che noi oggi comunemente chiamiamo
comunicazione.
Per quanto riguarda la definizione di ‘segno’, il filosofo parla di una
‘relazione tetradica’ (cfr. p.29, Gensini 1999) in cui intervengono
anche l’ interprete ed il contesto: segno è qualcosa che sta per qualcos’
altro per qualcuno in certe circostanze. Intuì insomma, molto prima dei
contemporanei scienziati del linguaggio e della comunicazione, che,
citando Volli (2000) il segno “non è una cosa, ma una relazione
sociale e culturale”.
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Saussure, molti secoli dopo, spiega cos’ è un segno escludendo la
‘realtà delle cose’, in quanto non la ritiene un elemento pertinente alla
semiotica, e traccia uno schema bi-dimensionale:
Al modello “bifacciale” proposto da S. Agostino, egli apporta
modifiche sostanziali. Mentre per quest’ ultimo infatti il pensiero viene
“colato” dentro una forma fonica (Volli, 2000), Saussure introduce due
livelli di analisi del segno linguistico: la parole, e la langue.
La comunicazione verbale legata alle individuali realizzazioni del
segno da parte dei parlanti avviene al primo livello di analisi; ma è al
livello della ‘lingua’ (o del ‘sistema’) che si realizza la reale
comprensione, in quanto è il ‘luogo della condivisione’: il significante
include tutte le possibili realizzazioni del segnale ed è dunque un
modello generale per la comunità dei parlanti; il significato è una
classe astratta di possibili contenuti mentali, cioè possibili sensi.
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‘Comunicare’ significa passare dal primo al secondo livello. Il
funzionamento del linguaggio viene attivato solo mettendo in gioco il
livello della lingua dove risiedono immagini acustiche e contenuti
culturali comuni e condivisi. Questo passaggio non avviene tuttavia in
maniera meccanica, bensì è frutto di un interpretazione (vedi par.2.4)
da parte dei parlanti, i quali dalla realizzazione individuale del segnale
ipotizzano la volontà di esprimere un dato significante cui accoppiano
un certo significato. E questo è possibile grazie alle conoscenze
pregresse ed alle competenze linguistiche che questi possiedono.
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1.3 La ‘semiosi’ secondo Peirce
Un secolo fa circa il filosofo pragmatista americano Peirce (1839-
1914) elaborò la nozione di segno non più riferendosi ad un’
associazione binaria (tra significante e significato), bensì stabilendo
una ‘dinamica terziaria’.
Secondo lo schema realizzato da Bonfantini, il massimo studioso di
Peirce in Italia, un segno è “qualcosa (representamen) che sta a
qualcuno (l’ interprete), per qualcos’ altro (l’ oggetto), sotto qualche
aspetto o capacità” (1931-58, 2,229).
Il modello triadico insiste sul carattere permanentemente interpretativo
della semiosi umana (Gensini, 2004). Infatti l’ unico modo che
abbiamo per conoscere il significato di un segno consiste nella
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formulazione di un altro segno che lo possa interpretare, l’
interpretante appunto. Per esempio (Volli, 2000) per comprendere il
significato del termine ‘cane’, possiamo ricorrere ad una definizione
dizionariale, ad una descrizione verbale, ad una traduzione linguistica
o anche semplicemente alla nostra immagine mentale.
L’ interpretante è “il momento in cui dal correlato esterno si passa,
ultimando il percorso triadico della ‘semiosi’, all’ elaborazione
mentale autonoma del soggetto” (Gensini, 2004). In questo modo ogni
processo di comprensione è frutto del passaggio da un interpretante
all’ altro, in un continuum di riformulazione-interpretazione. Questo
ragionamento porta a considerare la semiosi almeno in linea di
principio, ‘illimitata’ e prevede la cosiddetta ‘fuga degli interpretanti’.
Essendo l’ interpretante un’ altro significante, si realizza una sorta di
catena semiotica illimitata: dalla parola “cane” (representamen), a dog
(primo interpretante), ad animale domestico (secondo interpretante), a
Rintintin (terzo interpretante); ecco un esempio di come sia possibile
collegare interpretanti tra loro (Volli, 2000). Naturalmente la semiosi
illimitata si ‘disattiva’ nel momento in cui un segno non viene più
interpretato. In questo senso, la traduzione da una lingua ad un’ altra,
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così come le semplici riformulazione delle frasi che intendiamo
spiegare, sono esempi del fenomeno cui si riferisce Peirce. Nella
definizione di Peirce, resta da chiarire cosa egli intenda con l’
espressione “sotto qualche aspetto o capacità”. Il representamen sta
per l’ oggetto non sotto ogni aspetto possibile, bensì secondo aspetti
sottoposti ad una scelta di pertinenza ossia “scelta preliminare di quel
che interessa mettere in rilievo e condividere con gli altri” (Volli,
2000). Per comprendere meglio ciò di cui stiamo parlando, utilizziamo
il classico esempio del “machstick man”, ossia l’ omino di fiammiferi:
esso rappresenta il concetto di ‘uomo’, e lo sostituisce selezionando
solo alcuni aspetti che in un certo contesto (ad esempio la toilette per
uomini di un locale pubblico) risultano pertinenti. Questi pochi tratti
bastano ad adempiere alla sua funzione segnica. Peirce poi descrive tre
tipi di relazione segnica: segni iconici, segni indicali e segni simbolici.
Con i primi vi è un rapporto di similarità con l’ oggetto, con i secondi
vige un rapporto di contiguità, mentre con i simboli il rapporto è
totalmente arbitrario. Possiamo certamente dire che il problema della
traduzione nasce e si sviluppa considerando la nozione Peirciana di
segno. Più specificatamente è l’ interpretante che riformula, traduce,
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traspone un segno in un altro, così come un traduttore usa degli
interpretanti per tradurre testi
1
.
Considerando questa tripartizione, è interessante ai fini del nostro
lavoro, vedere in particolare in quale tipologia di rapporto segnico
possiamo includere un testo originale con un testo-traduzione, dove
con il primo termine intendiamo un testo in lingua straniera e con il
secondo, la sua traduzione in altra lingua. Secondo la semiologa Susan
Petrilli (Gensini,1999) non possiamo parlare di rapporto indicale, che
secondo la definizione di Volli si basa su una contiguità fisica o
casuale rispetto al proprio oggetto: per esempio la firma, l’ impronta
digitale, dovunque vi sia somiglianza più o meno precisa tra
significante e significato.
Seppur il testo-traduzione non esisterebbe senza il testo tradotto, e
dunque si lega in maniera “parassitaria” ad esso, tuttavia, affinché sia
un interpretante adeguato, esso non deve “ripeterlo” pedissequamente,
bensì stabilire un certo “stanziamento dialogico” (p. 433): più il
traduttore è un bravo interprete, minore sarà il carattere indicale del
suo testo. E non è certamente neppure un rapporto simbolico, in quanto
1
Per il rapporto tra nozione di segno e nozione di testo si rimanda al par.1.5
19
è ormai assodata l’ impossibilità di rendere lo stesso significato
attraverso significanti differenti, a seconda delle lingue: la sfida della
traduzione si gioca nel campo della semantica (vedi par.3.1). Dunque
la Petrilli afferma che il tipo di rapporto interpretato- interpretante
caratteristico della traduzione, è quello iconico. Esso predomina sugli
altri due, in quanto è la somiglianza tra i due testi che deve
predominare. Il rapporto iconico se da un lato rende imprescindibile il
legame tra source text e target text, dall’ altro consente alla traduzione
di esprimersi con creatività ed inventiva, tant’ è che per Peirce le
‘icone’ valgono da sole molto più degli altri tipi di segno. Ecco che
questo concetto legittima la dignità artistica di molti testi-traduzione,
perché in gradi di ‘valere’ di per sé a prescindere dal testo d’ origine.
1.4 Segno linguistico e traduzione
Fatto un breve excursus della nozione di segno di alcuni dei più illustri
studiosi della scienza linguistica e semiotica, vediamo quale relazione
lega il concetto di segno, con quello di traduzione e traducibilità. In un
certo qual modo infatti tutta la comunicazione si basa sul processo di