1 Origini e giustificazioni teoriche
alla base della crescita
dell'intervento pubblico 1.1 La scuola economica classica e neoclassica:
l'inutilità dell'intervento statale Per scuola classica s'intende quella scuola che ha dominato nel
pensiero economico tra Settecento e Ottocento. Comprende autori
molto noti ed eterogenei, come Adam Smith, David Ricardo, Thomas
Robert Malthus, John Stuart Mill e Jean-Baptiste Say. Nella seconda
metà dell'Ottocento prende piede la teoria neoclassica: altro non è,
come suggerisce il nome stesso, che un completamento della scuola
classica con l'introduzione del concetto, fondamentale nel pensiero
economico moderno, del marginalismo 1
. Tra i maggiori autori vanno
ricordati William S. Jevons, Cari Menger, Léon Walras e Vilfredo
Pareto.
Per David Ricardo, e per i classici in genere, la questione del
debito pubblico viene considerata nell'ambito dei problemi di
finanza straordinaria. Può essere necessario ricorrervi in momenti
eccezionali, come per una guerra. L'alternativa alla spesa finanziata
con disavanzo è l'introduzione di un'imposta. Quale delle due scelte
è la migliore? Secondo Ricardo prestito e imposta sono equivalenti,
essendo il prestito un'imposta che va a gravare sul futuro, con
l'aggiunta degli interessi da pagare. Per questo motivo, è preferibile
l'imposta perché l'onere del debito pubblico andrebbe trasferito alle
1 E. MARELLI - M. SIGNORELLI, Politica economica , Giappichelli, 2010, p. 5
8
generazioni future con l'aggravio degli interessi 2
.
La base comune delle scuole classiche e neoclassiche, per tornare
ai fondamenti teorici, va individuata nella legge di Say, secondo la
quale l'offerta crea la propria domanda. Il flusso di reddito, infatti, è
generato dal processo stesso di produzione, secondo l'autore
francese 3
: l'impiego di risorse fino ad allora non utilizzate,
aggiungendosi al flusso circolare del reddito e della produzione si
paga da sé, in quanto espande il flusso del reddito di un ammontare
equivalente, in condizioni di equilibrio, all'ammontare sottratto al
flusso stesso attraverso la vendita dei suoi prodotti. Dunque, un
nuovo processo produttivo, remunerando i fattori impiegati, genera
la domanda nel momento stesso in cui accresce l'offerta. Secondo la
tesi di Say, insomma, l'offerta crea la domanda nel senso che il
mercato è tanto grande quanto il volume dei prodotti dati in
cambio 4
. Say introduce il concetto di aggiustamento automatico del
mercato dei prezzi e del lavoro. Secondo l'autore, una società dove
sono liberi i prezzi e i salari riesce automaticamente ad assicurare un
equilibrio di piena occupazione.
Nonostante la teoria fosse messa in discussione da diversi
economisti, nessuno, fino all'opera di John Maynard Keynes, era
riuscito a creare una valida ipotesi che smentisse le conclusioni di
Say. Tra gli economisti schierati nel campo degli scettici, va ricordato
l'autore statunitense John Maurice Clark, che, prima ancora delle
formulazioni keynesiane, aveva intuito il meccanismo della funzione
del consumo teorizzato più in là proprio da Keynes: “Le persone con
un reddito superiore alla media ne risparmiano una percentuale più
2 P. BOSI, Modelli macroeconomici per la poltiica fiscale, Il mulino, 1994, p. 100-101
3 Jean-Baptiste Say formulò la sua teoria nel 1803, con il libro Trattato sull'economia
politica 4 A. H. HANSEN, Guida allo studio di Keynes , Giannini, 1977, p. 4
9
alta di quanto sia abituale e ne spendono una più piccola parte in
beni di consumo. In tal modo, la domanda dei beni di consumo non
si accresce con la stessa rapidità della capacità produttiva” 5
. Si tratta,
insomma, di un attacco in piena regola contro il principale dogma
sul quale si fondava l'ortodossia del tempo: la legge di Say.
Due baluardi erano però eretti contro chiunque sfidasse questo
fondamentale concetto: in primo luogo si faceva notare che un
saggio di interesse flessibile assicura l'uguaglianza fra risparmi e
investimenti a un livello di piena occupazione; in secondo luogo si
teorizzava che, eccezion fatta per temporanee perturbazioni, in un
sistema caratterizzato da salari e prezzi flessibili, sarebbe sempre
assicurato un mercato adeguato 6
.
Prima ancora dei classici, gli economisti della scuola
mercantilista del Settecento si erano espressi a favore dell'intervento
pubblico, teorizzando che sulla “questione dell'onere del debito
pubblico – ponendosi nell'ottica della nazione piuttosto che del
singolo individuo – il pagamento degli interessi tramite tasse non
produce alcun onere dal momento che esso rappresenta un semplice
trasferimento di risorse dalla mano destra alla mano sinistra” 7
.
La più grande sfida del pensiero keynesiano arriva però da un
suo contemporaneo. Si tratta dell'economista inglese Arthur Cecil
Pigou. Analogamente ai suoi predecessori, Pigou è un sostenitore
della teoria dell'aggiustamento automatico e della piena
occupazione. N el suo Industrial fluctuations (1927), Pigou spiega la
disoccupazione del mondo reale con fluttuazioni industriali che
scaturivano principalmente dalle perturbazioni relative al credito e
5 J. M. CLARK, Report of the Columbia University Commision on Economic
Reconstruction, 1934, cit. in A. H. HANSEN, ivi, p. 6
6 A. H. HANSEN, Guida allo studio di Keynes , cit., p. 6
7 M. VISAGGIO, Politiche di bilancio e debito pubblico , Nis, 1997, p. 12
10
alla fiducia
8
. Afferma: “Se i tassi salariali fossero perfettamente
elastici, le perturbazioni nel volume dell'occupazione sarebbero
nulle” 9
. Sulla stessa falsariga, nel suo Theory of Unemployment ,
sostiene con ancor più chiarezza la propria teoria: “La
disoccupazione esistente in un momento qualsiasi è dovuta
interamente al fatto che il continuo verificarsi di modificazioni delle
condizioni della domanda e le resistenze frizionali impediscono che
adeguati aggiustamenti salariali avvengano in maniera istantanea” 10
.
È proprio questa “formulazione pigouviana della legge di Say”,
coma la definisce Hansen, a subire gli attachi di Keynes nella Teoria
Generale , più che la legge di Say in quanto tale. La contesa tra i due
economisti, coevi, verte sul ruolo della domanda di lavoro: secondo
Pigou la domanda è indifferente rispetto al livello di occupazione, in
uno stato di perfetta flessibilità dei salari. Ogni livello, pur alto, di
disoccupazione nel mondo reale va imputato a “resistenze frizionali”.
Keynes non la pensa così, come spiegheremo nel paragrafo
successivo. L'uccisione della teoria dell'aggiustamento automatico da
parte di Keynes porterà a conseguenze dalla vastità inaudita. Un
attacco della cui serietà Keynes è consapevole: “Un'ortodossia è in
questione, e quanto più persuasivi sono gli argomenti, tanto più
grave è l'offesa” 11
. Delle conseguenze di questa “offesa” ci
occuperemo più avanti.
1.2 La rivoluzione keynesiana: la fine dell'ortodossia Come abbiamo visto, fino alla pubblicazione della Teoria
generale dell'occupazione, interesse e moneta di John Maynard
8 A. H. HANSEN, Guida allo studio di Keynes , cit., p. 15
9 A. C. PIGOU, Industrial Fluctuations, 1927, cit. in A. H. HANSEN, ivi, p.16
10A. C. PIGOU, Theory of Unemployment , 1933, cit. in A. H. HANSEN, ivi, p.16
11J. M. KEYNES, The End of Laissez-faire, Prometheus Books, 2004, p. 35
11
Keynes, avvenuta nel 1936, la maggior parte degli economisti
riteneva che il reddito di equilibrio coincidesse sempre con quello di
piena occupazione attraverso un semplice meccanismo: sul mercato
del lavoro si incontrano le imprese che domandano lavoro e i
lavoratori che offrono le proprie prestazioni. Il salario è il prezzo del
lavoro ed è determinato dalla domanda e dall'offerta di questo,
secondo i meccanismi validi per tutti i beni 12
.
Keynes critica l'impostazione classica sin dalle primissime pagine
della sua opera più celebre. I classici ammettono l'esistenza di solo
due tipi di disoccupazione. Quella frizionale, derivata da squilibri
temporanei, a sfasamenti di tempo dovuti a mutamenti imprevisti,
oppure al fatto che il passaggio da un'occupazione all'altra non può
che compiersi senza un certo ritardo; e la disoccupazione volontaria,
conseguenza del rifiuto o dell'incapacità del singolo lavoratore di
accettare una remunerazione corrispondente al valore del prodotto
attribuibile alla sua produttività marginale 13
.
Secondo Keynes, tuttavia, non è possibile ignorare una terza
categoria di disoccupazione, che chiama “involontaria” e definisce
così: “Si ha disoccupazione involontaria quando, nel caso di un
piccolo aumento del prezzo delle merci-salario rispetto al salario
monetario, sia l'offerta complessiva da parte di lavoratori disposti a
lavorare al salario monetario corrente, sia la domanda complessiva
di lavoro a quel salario, sarebbero maggiori nel volume di
occupazione esistente” 14
.
La rivoluzione keynesiana, dunque, sta proprio in questo: nel
formulare una teoria che finalmente includesse la disoccupazione
12G. PALMIERO, Elementi di politica economica , Cacucci, 2002, p. 207
13J. M. KEYNES, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta e
altri scritti, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1971, p. 163
14Ivi, p. 173
12
involontaria, un aspetto ignorato o sottovalutato dagli autori classici,
paragonati dallo stesso Keynes a “geometri euclidei in un mondo
non-euclideo, i quali, scoprendo che nell'esperienza due rette
apparentemente parallele spesso si incontrano, rimproverassero alle
linee di non mantenersi diritte, come unico rimedio alle disgraziate
collisioni che si verificano”. Le “collisioni”, nel mondo che
l'economista inglese ha di fronte, sono tassi di disoccupazione mai
visti prima: nel 1933, il peggior anno della depressione in termini di
tassi di disoccupazione, la popolazione in cerca di lavoro è di
12.830.000 individui, circa il 25% dell'intera forza-lavoro 15
. Il tasso
di disoccupazione, comunque, non scende mai sotto il 14% per tutti
gli anni '30
16
.
L'altra grande innovazione di Keynes, corollario della
precedente, sta nell'analisi del principio della domanda effettiva.
Mentre la dottrina classica faceva della domanda complessiva un
derivato dell'offerta, sostenendo l'eguaglianza tra i due valori,
Keynes nota come la domanda complessiva derivi da due fattori
distinti e indipendenti: investimenti e consumi.
La domanda di beni di consumo è una funzione del reddito
corrente e non aumenta tanto quanto il reddito, perché
all'accrescersi del reddito un individuo tende a risparmiare una
porzione sempre maggiore e, quindi, a consumare relativamente
meno. Questo è ciò che Keynes definisce “propensione al consumo”,
vale a dire quella parte di salario destinata ai consumi, un valore che
dipende anche dalle caratteristiche psicologiche della collettività.
L'altra voce della domanda effettiva, gli investimenti, sono invece
15US BUREAU OF THE CENSUS, Historical Statistics of the United States, Colonial
Times to 1970 , 1975, p. 126
16J. M. KEYNES, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta e
altri scritti, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1971, p. 172
13
in parte svincolati dal reddito corrente e sono determinati da altri
fattori come lo sviluppo tecnologico e le aspettative di vendita.
Dal momento che i consumi, seguendo il ragionamento di
Keynes, sono inferiori al reddito totale – in misura dipendente dalla
propensione al consumo della popolazione – il livello di occupazione
è determinato dal volume degli investimenti. Si ha un equilibrio di
piena occupazione solo se consumi e investimenti insieme
eguagliano l'offerta totale. Questo, però, è soltanto un caso
particolare. In tutte le altre circostanze, ovvero quando consumi e
investimenti sono inferiori all'offerta totale, si assisterà al fenomeno
della disoccupazione involontaria.
È con un bagno di realismo – contrapposto al presunto
ottimismo degli autori classici – che Keynes conclude il terzo
capitolo della sua Teoria generale : “Può ben darsi che la teoria
classica rappresenti il modo nel quale vorremmo che la nostra
economia si comportasse; ma supporre che essa di fatto si comporti
così, significa supporre inesistenti le difficoltà con le quali abbiamo a
che fare” 17
.
Le conseguenze della teoria dell'occupazione di Keynes sono
molteplici. Un periodo di depressione di redditi e consumi, per
esempio, rischia di innescare una spirale negativa in cui la riduzione
dei consumi abbassa il livello di domanda complessiva, che a sua
volta abbassa redditi e consumi. È da questi presupposti che Keynes
e soprattutto gli autori keynesiani hanno elaborato le loro ricette di
politica economica i cui effetti questa tesi vuole analizzare.
17Ivi, p. 192
14
1.3 I fallimenti di mercato come giustificazione per
l'intervento pubblico Se a Keynes va dato atto di aver sfatato la teoria dell'equilibrio
automatico dell'economia, altri autori hanno argomentato a favore
dell'intervento pubblico in casi specifici. Il premio Nobel Joseph
Eugene Stiglitz ha elencato le otto cause di insufficienza del mercato;
una di quelle elencate da Stiglitz nel manuale Economia del settore
pubblico prende ispirazione dalle riflessioni di Keynes: “I sintomi
più ampiamente riconosciuti di fallimento di mercato sono forse i
periodici fenomeni di elevata disoccupazione, sia dei lavoratori sia
dei macchinari, che hanno afflitto le economie capitalistiche nel
corso degli ultimi due secoli” 18
.
Gli altri sette motivi per i quali è giustificabile l'intervento statale
sono i seguenti 19
:
1. Insufficiente concorrenza: in alcuni settori, come nelle
telecomunicazioni, sono poche le imprese che si fanno concorrenza
tra di loro. A volte una o due aziende controllano gran parte del
mercato. Tutto ciò comporta prezzi più alti per i consumatori e
minore efficienza. Di qui la necessità di creare e far funzionare le
autorità antitrust.
2. Beni pubblici: esistono beni e servizi essenziali che il
mercato privato non offre affatto, oppure offre in quantità
insoddisfacente per assenza di un buon margine di profitto. È il caso
della difesa nazionale, ad esempio. Nessun privato vi investirebbe,
perché andrebbe incontro solo a perdite. Per queste ragioni lo Stato
provvede a pagare i costi di tutte queste attività.
3. Esternalità: si verifica quando le azioni di un individuo o di
18J.E. STIGLITZ, Economia del settore pubblico, Hoepli, 1989, p. 124-125
19Le 7 categorie qui elencate sono riprese da J.E. STIGLITZ, Economia del settore
pubblico, cit., p. 124-125 115-126
15
un'impresa influenzano le azioni di altri individui o imprese senza
pagare o ricevere un indennizzo, a seconda che l'esternalità abbia
arrecato danni o benefici. Un esempio è quello di un'azienda che
inquina un corso d'acqua, provocando danni e costi ulteriori a tutti
quelli che utilizzano quell'acqua per una qualsivoglia attività.
4. Mercati incompleti: è un'insufficienza di mercato che si
verifica quando i privati non offrono un bene o un servizio, pur
essendo il suo costo di produzione inferiore al prezzo che i
consumatori sarebbero disposti a pagare. È il caso, per fare un
esempio, del mercato delle assicurazioni, le quali potrebbero
rifiutare di stipulare polizze ritenute troppo a rischio.
5. Carenza di informazione: in questo caso l'intervento
pubblico è giustificato perché si ritiene imperfetta l'informazione a
disposizione dei consumatori da parte del libero mercato. È il caso,
tra gli altri, dei regolamenti sulle etichette dei prodotti alimentari.
6. Redistribuzione: i mercati concorrenziali potrebbero
comportare una distribuzione del reddito molto sperequata, che può
lasciare ad alcuni individui risorse insufficienti per vivere. In questo
caso il pubblico interviene per sostenere i meno abbienti.
7. Beni meritori: sono quei beni di cui lo Stato proibisce,
limita, promuove oppure obbliga l'utilizzo per fare l'interesse
dell'individuo, che, se lasciato libero di agire, andrebbe contro
l'interesse proprio e generale, appunto. È il caso delle campagne
contro il fumo e l'alcol o di quelle norme che obbligano l'utilizzo
delle cinture di sicurezza in automobile.
1.4Implicazioni pratiche della Teoria generale di Keynes La Teoria generale , come del resto lascia intendere il titolo
stesso, è innanzitutto un trattato teorico. Lo stesso Keynes, nella
16
pagina finale del testo, tiene a precisarlo: “Sarebbe necessario un
volume di carattere diverso da questo per indicare anche
schematicamente le misure pratiche nelle quali quelle idee
potrebbero venire gradualmente attuate” 20
. Ciononostante, lo stesso
Keynes è ben conscio di quanto il suo lavoro avrebbe potuto
cambiare il corso della storia in generale, non solo del pensiero
economico: “Nel momento presente ci si attende, con un'intensità
quale raramente fu raggiunta nel passato, una diagnosi più
fondamentale; si è più particolarmente pronti a riceverla; e si è
ansiosi di metterla in atto, se essa fosse appena plausibile 21
”. Parole
– ci si consenta un commento – tutt'ora attualissime.
Ciò premesso, non mancano indicazioni di politica economica
nella Teoria generale , sparse qua e là nell'opera e in parte
richiamate nell'ultimo capitolo, il ventiquattresimo, intitolato Note
conclusive sulla filosofia sociale alla quale la teoria generale
potrebbe condurre . Quali sono, dunque, queste indicazioni?
Dal punto di vista della “filosofia sociale”, Keynes accusa
l'economia moderna di non aver saputo assicurare la piena
occupazione e l'equa distribuzione delle ricchezze e del reddito. Il
problema della sperequazione, nella logica keynesiana, non è tanto
di natura etica
22
, ma soprattutto di efficienza. Secondo la sua
funzione del consumo, infatti, un aumento della propensione al
consumo si verifica solo se il reddito si sposta dai più ricchi ai meno
abbienti, che in media spendono una percentuale maggiore del loro
reddito e danno così un impulso più grande alla domanda aggregata.
Ciò è importante perché, mentre secondo i classici una più alta
20J. M. KEYNES, Teoria generale , cit., p. 554
21Ibidem 22Keynes infatti afferma di credere in “giustificazioni sociali e psicologiche per
rilevanti disuguaglianze dei redditi e delle ricchezze” 17
propensione al risparmio favorisce gli investimenti, per Keynes è
vero il contrario: un elevato tasso di investimenti è promosso da
un'elevata propensione al consumo 23
, oltre che da un basso tasso
d'interesse.
Comunque Keynes, a scanso di equivoci, si dice fervido
sostenitore del capitalismo, dell'iniziativa individuale e oppositore
del sistema socialista. Ciononostante, non esita a sollecitare un ruolo
più attivo da parte del pubblico: “Lo Stato dovrà esercitare
un'influenza direttiva circa la propensione al consumo, in parte
mediante il suo sistema d'imposizione fiscale, in parte fissando il
saggio d'interesse e in parte, forse, in altri modi” 24
.
Dal punto di vista della politica pratica, Keynes si scaglia contro
le teorie ortodosse dominanti, attaccando due dogmi che, infatti, in
quegli anni stavano cadendo sotto i colpi della crisi economica degli
anni '30: il gold standard , ovvero il sistema che lega la moneta a una
quantità fissa di oro, e il pareggio di bilancio. Il primo dei dogmi è
stato attaccato in maniera più diretta rispetto al secondo 25
. Infatti
Hansen sostiene che, nonostante Keynes si dichiari favorevole alle
spese statali finanziate mediante prestiti, l'economista inglese non
formula un'analisi sul ruolo del debito pubblico quale mezzo per
procurare a un'economia in espansione un'adeguata liquidità. Né
affronta il problema della gestione di un crescente debito pubblico 26
.
23A. H. HANSEN, Guida allo studio di Keynes , cit., p. 267
24J. M. KEYNES, Teoria Generale , cit., p. 548-549
25A. H. HANSEN, Guida allo studio di Keynes , cit., 267, 280
26Ibidem 18
1.5 Keynes era davvero un keynesiano?
Secondo l'autore Kregel 27
, l'avallo dei deficit governativi arriva
semmai dal concetto di finanza funzionale formulato da Lerner nel
1943
28
. Per Lerner la finanza pubblica, sulla base della “nuova teoria
fiscale formulata per la prima volta in maniera sostanzialmente
completa da Keynes in Inghilterra” 29
, diventa uno strumento di
politica economica utile a raggiungere determinati obiettivi, come la
piena occupazione, ottenibile trovando l'equilibrio tra domanda e
offerta complessiva. L'obiettivo primario dell'azione di governo,
sostiene Lerner, è dunque la piena occupazione piuttosto che il
mantenimento del pareggio di bilancio secondo le prescrizioni della
teoria classica: “La prima responsabilità del governo è mantenere il
tasso totale di spesa in beni e servizi nel Paese ad un livello né
maggiore né inferiore al tasso con il quale, ai prezzi correnti, si
comprerebbero tutti i beni che è possibile produrre. Se alla spesa
totale viene permesso di andare oltre questo limite ci sarà inflazione,
se invece la spesa sarà inferiore a questo limite ci sarà
disoccupazione” 30
.
Sulla grande influenza del pensiero di Lerner su ciò che si intende
per politiche keynesiane ha scritto anche l'economista David
Colander: “Quelle che alla fine sono diventate famose come politiche
keynesiane erano in molti sensi le interpretazioni di Lerner delle
politiche keynesiane [...]. Le esposizioni da manuale delle politiche
keynesiane gravitavano naturalmente attorno al bianco e nero delle
27J. A. KREGEL, Finanziamento in disavanzo, politica economica e preferenza per la
liquidità , in F. VICARELLI, Attualità di Keynes , Laterza, 1983, p. 51
28A. P. LERNER, Functional Finance and Federal Debt , Social Research, vol. 10, 1943,
in Selected writings of Abba P. Lerner, p. 297-310, disponibile all'indirizzo internet
http://k.web.umkc.edu/keltons/Papers/501/functional%20finance.pdf 29Ivi, p. 297
30Ivi, p. 298
19
politica lerneriana di finanza funzionale, piuttosto che attorno alle
più grigie politiche di Keynes. Dunque, la visione che la politica
fiscale e monetaria andrebbe usata come bilancia, elemento chiave
della rivoluzione, meriterebbe di essere chiamata lerneriana,
piuttosto che keynesiana” 31
.
Quel che è certo è che la Teoria generale rimane molto parca per
quanto riguarda le sue proposte politiche formali. Nell'ottica di
Keynes, il bilancio in passivo, lungi dall'essere una cura in sé, era un
sintomo, una conseguenza diretta del mancato conseguimento della
piena e stabile occupazione 32
.
Semmai si può affermare che il principale obiettivo della politica
economica di Keynes è la stabilizzazione dell'investimento, un
requisito imprescindibile per la piena occupazione. Secondo Keynes,
infatti, sono le fluttuazioni dell'investimento la causa causans del
livello di attività dell'economia
33
.
La stabilità degli investimenti può essere raggiunta se “i due terzi
o i tre quarti dell'investimento totale viene effettuato o può essere
influenzato da enti pubblici o semi-pubblici” 34
. Una politica che,
sempre secondo le parole dello stesso Keynes, “non ha
assolutamente nulla a che vedere col finanziamento in deficit”, che
“sarebbe un'ultima risorsa” da prendere in considerazione solo se “il
volume degli investimenti programmati non riesce a condurre
31D. COLANDER, Was Keynes a Keynesian or a Lernerian , Journal of Economic
Literature, vol. 22, 1984, p. 1573
32J. A. KREGEL, Finanziamento in disavanzo, politica economica e preferenza per la
liquidità , in F. VICARELLI, cit., p.52
33Ivi, p. 53
34J. M. KEYNES, Activities 1940-46. Shaping the Post-War World: Employment and
Commodities , in The Collected Writings of J.M. Keynes, Macmillan, 1980, cit. in
ibidem 20
all'equilibrio” 35
.
Le spese controllate dal governo, secondo Keynes, dovrebbero
ammontare ad una cifra compresa tra il 7,5 e il 20% per essere
efficaci. Ciò, tuttavia, non implicava un diretto intervento dello
Stato, secondo Kregel, ma piuttosto una combinazione di attività
statali, semi-autonome e di società a capitale azionario socializzate 36
.
Il tutto senza lasciare spazio agli sprechi, perché Keynes credeva sì
nel processo di socializzazione con un superamento delle ragioni
dell'interesse privato, ma non l'eliminazione dell'efficienza
economica
37
.
1.6 La grande depressione come laboratorio keynesiano L'interventismo del New Deal 38
si caratterizzava per uno Stato
presente sia in chiave regolamentare, sia come operatore economico
vero e proprio. È stato da molti giustamente affermato come il New
Deal non avesse un piano complessivo e che le sue misure
rispondevano a spezzoni di piani di indirizzi programmatici diversi 39
.
Il presidente Roosevelt non ebbe mai l'intenzione di scrivere un
libro né sulla politica fiscale del bilancio né su quella monetaria. Più
di una volta lui stesso ed altri membri dell'amministrazione
richiamarono giustificazioni economiche, ma mai nessuno formulò
35Ibidem 36J. A. KREGEL, Finanziamento in disavanzo, politica economica e preferenza per la
liquidità , in F. VICARELLI, cit., p.59
37Ivi, p. 60
38Per New Deal s'intende una serie di programmi economici voluti dal presidente
americano Franklin Delano Roosevelt, a partire dal 1933, con lo scopo di superare la
grave crisi economica iniziata quattro anni prima
39M. VAUDAGNA, Il New Deal , Il Mulino, 1981, p. 46
21
una teoria generale sui principi economici a cui si attenevano nel
loro lavoro 40
.
È interessante rilevare come la spesa governativa, almeno fino al
1938, aveva più una funzione assistenziale che economica
41
; in altre
parole, il deficit era visto più come una necessità per combattere i
disastri sociali che come stimolo per la ripresa.
Questa mancanza di base teorica non sorprende, visto che
all'inizio della presidenza Roosevelt, nel 1933, mancava ancora la
completezza degli scritti keynesiani. Detto ciò, elementi del suo
pensiero erano già penetrati tra gli economisti del tempo e lui stesso
ne fu influenzato. Il punto è, dunque, che nessuno era del tutto
keynesiano prima della Teoria generale e questo rende difficile
stabilire chi deve essere incluso in una lista di keynesiani del periodo
del primo New Deal 42
, quello precedente al 1936.
Gli ostacoli ad una politica di bilancio che oggi giudicheremmo
giusta e sensata erano molti all'epoca. Sweezy ne elenca cinque 43
:
1.La maggior parte degli economisti era orientata più verso la
ricerca degli errori che verso quella delle soluzioni.
2.Non solo la parola spesa aveva connotazioni negative, ma
c'era anche molta confusione sui suoi effetti economici.
3.La nozione di ciclo economico , allora dominante tra gli
economisti, era legata alla convinzione che le depressioni
avessero una funzione terapeutica.
40H. STEIN, La svolta nella politica del bilancio pubblico , in M. VAUDAGNA, Il New
Deal, cit., p. 275
41Ivi, p. 279
42A. SWEEZY, La rivoluzione keynesiana e i suoi pionieri. I keynesiani e la politica
governativa, 1933-1939 , in M. VAUDAGNA, Il New Deal , cit., p. 250
43Ivi, p. 249-250
22