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Capitolo I
Il trust nel diritto civile
SOMMARIO: I. Il trust come istituto di diritto anglosassone – II. Il trust nell’ordinamento di
diritto italiano – III. La figura giuridica del trustee – IV. Le finalità dei trust
Par. I: Il trust come istituto di diritto anglosassone.
Con il termine trust (che in italiano può essere tradotto con la parola
“affidamento”) ci si riferisce ad un istituto giuridico proprio del diritto
anglosassone1, il quale, seppur in via approssimativa2, può essere definito
come “an equitable obligation, binding a person (who is called trustee) to
deal with property over which he has control (which is called trust
property) for the benefit of person (who are called beneficiaries) of whom
he himself may be one and any of whom may enforce the obligation”3.
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I trust si sono sviluppati nel diritto inglese in forza delle pronunce rese da una particolare
giurisdizione facente capo al Cancelliere del re e si inquadrano nell’ordinamento dell’equity.
Quest’ultimo ordinamento si affianca al diritto comune inglese, detto common law, di modo che
la medesima fattispecie può essere vista diversamente nei due ordinamenti, pur prevalendo
sempre l’equity. Ad esempio in materia di trust, il diritto del trustee sul fondo segregato è un
diritto ordinario assoluto per la common law, mentre per l’equity è il mezzo per realizzare
l’affidamento; ancora, il terzo, che acquisti dal trustee un bene in trust al di fuori dei casi
consentiti nell’atto istitutivo, acquista validamente per il diritto comune, mentre acquista male
per l’equity, a meno che non paghi il giusto prezzo e ignori la violazione commessa dal trustee.
Si veda: M. LUPOI, Istituzioni dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, pag. 15
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Le difficoltà definitorie dipendono, da un lato, dal fatto che non esiste un unico trust, e
dall’altro che ai trust classici di diritto inglese si affiancano ormai trust molto diversi in altre
legislazioni. Si veda: AA.VV., Introduzione ai trust e profili applicativi, a cura di S. BUTTÀ,
Milano, 2002, pag. 1; G. PALADINI, Il trust nelle convenzioni bilaterali contro le doppie
imposizioni stipulate secondo il modello Ocse, in Diritto e pratica tributaria internazionale,
2004, pag. 952.
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Questa definizione si trova in: A. UNDERHILL, D. J. HAYTON, Underhill law relating to trust
and trustees, London, 1995, pag. 3. Altra nozione condivisa dalla dottrina anglosassone è quella
di MAITLAND, il quale definisce il trust come segue: “when a person has rights which he is
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Gli elementi caratteristici del trust di diritto inglese sono tre:
L’affidamento4: cioè il fatto che il disponente perda qualsiasi
facoltà quale effetto del trasferimento al trustee, al quale i beni
sono affidati per realizzare la finalità per cui il disponente ha
istituito il trust. Ma l’affidamento è anche quello che fa il
beneficiario, sul fatto che lo scopo sia perseguito dal trustee.
La segregazione5 dei beni e diritti oggetto del trust: essi sono di
proprietà del trustee ma non si confondono con i suoi beni
personali; di conseguenza non possono essere nemmeno aggrediti
dai creditori, se non per obbligazioni contratte nell’esecuzione del
trust deed.
bound o exercise upon behalf of another or for the accomplishment of some particular purpose
he is said to have those rights in trust for that other or for that purpose and he is called a
trustee”, F. W. MAITLAND, Equity. A course of lecture, Cambridge, 1949, pag. 44. Come si può
notare questa definizione, rispetto a quella presentata nel testo, fa espresso riferimento ai trust di
scopo, comprovando le difficoltà definitorie di cui si parlava.
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La dottrina definisce l’affidamento che si ha nel modello inglese di trust come la faccia
strutturale della fiducia. Quest’ultima infatti costituisce solo un mero motivo dell’atto e non
sopravvive all’istituzione del trust, dato che il disponente non ha azione contro il trustee. La
fiducia, quindi, si riverbera nell’affidamento, con il quale si intende la perdita di ogni facoltà in
capo al disponente a seguito del trasferimento dei beni al trustee: infatti, solo la pienezza del
diritto e del controllo consentono a quest’ultimo di attuare il proprio compito. Sul punto è utile
ricordare che il trust si è sviluppato nell’ambito dell’equity, ove storicamente, fin dalle prime
sentenza della Court of Chancery, la legge della coscienza è assunta quale misura di ogni regola
di diritto. Quindi nell’equity l’apparente antinomia tra senso di ciò che è giusto e legge positiva
si trasforma in una compresenza. Così si comprende anche il ruolo del fiduciario in un trust di
diritto inglese: l’affidamento di una posizione soggettiva al trustee, lo lascia solo con la propria
coscienza.
D’altro lato l’affidamento lega anche il trustee al beneficiario; quest’ultimo infatti non ha
ragione di riporre fiducia nel trustee, ma ha diritto di fare affidamento (che si configura come
una aspettativa giuridicamente tutelata) a che il fiduciario operi per il raggiungimento delle
finalità che il disponente gli ha prescritto. Si veda: M. LUPOI, Trust, temi generali e
impostazioni applicative, in AA.VV., Introduzione ai trust e profili applicativi, Quaderni della
rivista Trust e attività fiduciarie n. 2, a cura S. BUTTÀ, Milano, 2001, pag. 20.
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La segregazione costituisce il portato ultimo della fiducia per il tramite dell’affidamento. In
particolare si deve rilevare che l’effetto segregativo non è necessariamente conseguenza della
fiducia, ma una volta che la fiducia sia riconosciuta e sanzionata dall’ordinamento, essa conduce
sempre alla segregazione. Quest’ultima infatti costituisce uno strumento d’azione mediante il
quale selezionare alcuni interessi a preferenza di altri, che sono in competizione con i primi. Si
veda: M. LUPOI, Trust, temi generali e impostazioni applicative, in AA.VV., Introduzione ai
trust e profili applicativi, Quaderni della rivista Trust e attività fiduciarie n. 2, a cura S. BUTTÀ,
Milano, 2001, pag. 31; A. SALVATI, Profili fiscali del trust, Milano, 2004, pag. 43.
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Lo scopo per cui si istituisce il trust, che di regola corrisponde alla
soddisfazione di interessi facenti capo ai beneficiari.
Nel modello tradizionale inglese il trust prevede di regola dei beneficiari;
mentre i trust di scopo, con cui si intendono i trust non destinati ad
avvantaggiare una o più persone identificate o identificabili, sono ammessi
solo se costituiti per perseguire delle finalità “charitable”, altrimenti sono
nulli6.
Accanto al modello tradizionale di trust di diritto inglese, si individua un
modello internazionale, sviluppatosi soprattutto nelle offshore jurisdiction
per mezzo di leggi sul trust destinate a disciplinarne completamente la
materia.
Le leggi del modello internazionale (le quali spesso mostrano caratteri
comuni) propongono soluzioni in contrasto con quelle del diritto inglese,
ma maggiormente conformi alle esigenze della clientela internazionale.
Tra le linee comuni, devianti dal modello inglese, si possono individuare:
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La ragione comunemente addotta per giustificare la nullità dei trust di scopo nel diritto inglese
è che, in mancanza dei beneficiari, non vi sarebbe alcun soggetto legittimato ad agire contro il
trustee per l’adempimento del trust. Da qui, poi, si evince anche la ragione dell’ammissibilità
dei trust di scopo charitable: quest’ultimi, infatti, rientrando nella più generale categoria dei
fenomeni negoziali “charities”, sono sottoposti alla vigilanza della Charity Commission (che
opera in Inghilterra e Galles), a cui compete anche la legittimazione ad agire contro il trustee.
Fino al 2006, anno in cui è stato emanato il Charities Act, mancava una definizione legislativa
generale di scopo charitable e si faceva riferimento ad una nozione emersa in sede
giurisprudenziale, la quale comprendeva: il soccorso ai poveri; il sostegno all’istruzione; il
sostegno alla religione; altri scopi a beneficio della generalità. L’attuale definizione legislativa
contenuta al § 2.2 del Charities Act (consultabile sul sito
http://www.opsi.gov.uk/acts/acts2006/ukpga_20060050_en_1) si connota per una maggiore
articolazione, recependo i risultati raggiunti dalla giurisprudenza in via interpretativa. Il fatto
che in Inghilterra un trust di scopo sia valido o nullo a secondo che sia posto sotto il controllo
dalle Charity Commission a fronte del suo charitable purpose, potrebbe indurre a ritenere che
un trust di scopo charitable retto dal diritto inglese debba necessariamente operare in Inghilterra
e quindi sotto la vigilanza della Charity Commission. Questa conclusione non sembra corretta:
infatti un trust potrebbe perseguire scopi caritatevoli secondo il diritto inglese anche se i suoi
beni sono fuori dall’Inghilterra e il suo trustee svolga il proprio ufficio all’estero; semmai può
proporsi il problema del soggetto legittimato ad agire contro il trustee: spesso infatti il trust di
scopo è soggetto alla vigilanza di autorità pubbliche (pensiamo in Italia ad un trust che rientra
nel regime Onlus), ma questa vigilanza potrebbe essere diversa da quella della Charity
Commision. Si veda: M. LUPOI, I trust nel diritto civile, Torino, 2004, pag. 331.
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- La limitazione della responsabilità del trustee al fondo in trust;
- La ritenzione di poteri dal parte del disponente, il quale può anche
attribuirli a soggetti diversi dal trustee;
- La generalizzazione dei trust di scopo7;
- Limiti nell’applicazione delle leggi straniere in materia successoria e
di protezione dei creditori;
- Il protector8;
- La residenza del trustee nello Stato;
- La necessità di una licenza per l’esercizio professionale dell’attività
di trustee.
Negli ultimi tempi si è verificato un fenomeno di concorrenza fra i paesi
del modello internazionale, che ha dato luogo alla promulgazione di leggi
sempre più attente alle esigenze pratiche: l’unità del modello internazionale
è, stata di conseguenza, messa in crisi.
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L’iniziale tendenza nel modello internazionale è stata quella di estendere il concetto di
charitable purpose, per poi ammettere trust di scopo senza alcuna limitazione che non sia
quella della possibilità, liceità e determinabilità dello scopo. Costante nelle legislazioni del
modello internazionale è la necessità di un soggetto legittimato ad agire contro il trustee in
mancanza dei beneficiari. Tale soggetto, solitamente individuato come “protector” o “enforcer”
(in italiano guardiano), assume la veste di custode dell’interesse del trust di scopo; esso deve
essere nominato nell’atto istitutivo, il quale deve anche prevedere dei meccanismi che
assicurino la presenza di un protector per tutta la durata del trust. Le soluzioni legislative più
recenti, per i trust di scopo, tendono ad estendere la legittimazione ad agire contro il trustee a
una serie di soggetti, inclusi il disponente e tutti coloro che hanno un interesse, probabilmente
anche non patrimoniale, all’attuazione dello scopo del trust. Nel modello internazionale i trust di
scopo non charitable sono spesso utilizzati per operazioni commerciali e finanziarie in luogo
delle holding. Per la dottrina: M. LUPOI, I trust nel diritto civile, Torino, 2004, pag. 331; M.
LUPOI, Istituzioni dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, pag. 140.
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La figura del protector assume particolare rilevanza all’interno dello STAR (Special Trust
Alternative Regime) trust, istituto in vigore nelle isole Cayman e introdotto a metà degli anni
novanta. Le caratteristiche specifiche di questo trust sono quattro: anzitutto possono rientrare
nella categoria sia trust di scopo che trust con beneficiari; se il trust è di scopo il trustee può
discrezionalmente modificare gli scopi qualora quelli indicati nell’atto istitutivo siano
impossibili o risultino incerti; i beneficiari, se previsti, non sono legittimati ad agire contro il
trustee; l’azione contro il trustee spetta unicamente ai soggetti nominati per questo fine
(protectors). I soggetti legittimati ad agire contro il trustee devono essere sempre presenti;
costituisce reato il caso in cui il trustee non chieda al giudice la nomina di un nuovo protector,
qualora quello individuato nell’atto istitutivo venga a mancare o non eserciti diligentemente la
propria funzione essendovi tenuto (ad es. a seguito di richiesta dei beneficiari). Si veda: M.
LUPOI, Istituzioni dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova, 2008, pag. 140.