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Sognavano di liberare il loro Paese dal giogo straniero per poterlo trasformare in uno
Stato moderno
5
.
Le autorità francesi fecero in modo di non lasciare alcuno spazio alle componenti
vietnamite; il loro controllo fu sempre rigido. Tuttavia, la colonizzazione poté
esercitare la sua influenza grazie alla stabilità assicurata dal protettorato. Sotto l’egida
di questa tutela gli ambienti urbani e, in modo nettamente inferiore, anche le
campagne, conobbero un’importante trasformazione. Pian piano emerse un’élite
fiduciosa nella modernità, che cercava di far combaciare il lascito culturale ereditato
con ciò che imparava nelle scuole, nelle università, al cinema e nel contesto di
un’intensa attività pubblicistica. Si trasformarono anche i metodi di insegnamento,
volti sempre più alla formazione di veri professionisti piuttosto che semplici tecnici.
Anche nelle arti si intravide la voglia di innovazioni. La scoperta della pittura
francese e l’interesse che molti giovani vietnamiti sentivano per questa forma d’arte,
contribuì a dare un’immagine lusinghiera della borghesia urbana, soggetto
privilegiato nelle loro opere. Non vi era in esse nulla che riflettesse quelle lotte
politiche che incendiarono il paese negli anni Trenta. La lotta al regime colonialista
fu sempre la priorità per tutte le organizzazioni vietnamite, fossero nazionaliste,
comuniste o trotzkiste. I nazionalisti si trovarono presto senza possibilità di manovra,
repressi dallo stretto controllo coloniale. I comunisti, ispirati dalla rivoluzione
bolscevica del 1917, non furono più fortunati. L’enorme insurrezione popolare
scoppiata negli anni Trenta, sotto la direzione comunista, fu soffocata nel sangue; la
dura reazione francese tentò sempre di dissolvere il Partito comunista indocinese,
riuscendo a indebolirlo privandolo spesso dei suoi leader più carismatici, ma non fu
mai in grado di eliminarlo del tutto
6
. Tra le varie formazioni politiche il movimento
comunista risultò l’unico capace di guidare una vera rivoluzione contro gli
oppressori. E dopo la Seconda Guerra Mondiale i comunisti poterono proclamare
l’indipendenza, almeno nel Nord del Paese. Oltre ai numerosi problemi interni che il
nuovo governo di Ho Chi Minh doveva affrontare, rimase anche aperto lo scontro
politico con la Francia. Niente riuscì ad impedire il conflitto: né gli accordi del marzo
1946, né il modus vivendi firmato a settembre, né le varie conferenze che si
susseguirono quello stesso anno e neanche la visita di Ho Chi Minh in Francia. Il 19
dicembre 1946 la guerra scoppiò. Seguirono otto anni e mezzo di sofferenze, di
resistenza nella giungla, di appelli a tutta la nazione perché contribuisse allo sforzo
bellico
7
. Il governo del Patriota riuscì a resistere ad ogni tentativo di distruzione da
parte dell’Armata francese, che poteva detenere le città, ma non le campagne, dove la
resistenza trovò gli uomini ed i mezzi indispensabili alla sua lotta
8
. Nel 1950, poi, con
la nascita della Repubblica Popolare Cinese, la guerriglia poté beneficare del
sostegno del blocco socialista. Contemporaneamente la Francia ottenne l’aiuto degli
U.S.A che finanziarono progressivamente la maggior parte della guerra. Il conflitto
andò avanti fino al memorabile 7 maggio 1954, che vide la definitiva sconfitta delle
forze francesi, e sanciva la legittimità del governo di Ho Chi Minh
9
. Dopo gli accordi
di Ginevra e la divisione del Vietnam in attesa delle elezioni, alla dirigenza del Nord
fu chiaro che la riunificazione non sarebbe avvenuta. Puntarono fin da subito a riunire
il Paese sotto l’egida di Hanoi, dapprima con la propaganda, poi con la guerriglia,
4
scelta che implicava l’entrata in guerra con il grande alleato del regime sudista: gli
Stati Uniti d’America. In totale accordo con loro, il regime dittatoriale impedì le
elezioni previste per il luglio 1956 e si lanciò in una politica di repressione
anticomunista estremamente brutale. La resistenza quindi riprese nel Sud e i
compagni dal Nord non potevano non sostenerla: nel 1960 fu fondato il Fronte di
liberazione nazionale del Sud, che nacque con il moto “fino alla vittoria”. Questo era
anche il periodo dei contrasti tra Cina e URSS, entrambe tese a guidare le rivoluzioni
socialiste ed a fungere da modello per le nazioni neo affiliate al comunismo. Ho Chi
Minh, da grande diplomatico, riuscì a servirsi della situazione, mettendo Cina e
URSS in competizione nel sostenere la causa dell’unificazione del Vietnam. Tutto ciò
senza mai identificarsi esplicitamente con una delle due. Su questa base e contando
ancora sull’inesauribile capacità di sacrificio dei contadini, i vietnamiti riuscirono a
tenere testa all’intervento americano nel Sud
10
. Finché nel 1968 si giunse alla
sanguinosa battaglia del Tet, che portò alla decisione americana di avviare le
trattative di pace e infine al trattato del 1973 per il ritiro degli U.S.A. Tuttavia la
situazione internazionale era mutata: la Cina, pressata dalla minaccia sovietica, era
stata costretta a ricercare un avvicinamento con gli Stati Uniti e i vietnamiti, dopo la
morte di Ho Chi Minh nel 1969, si trovarono di nuovo soli. La strategia americana
era riuscita a sterminare quasi del tutto i guerriglieri del Sud; aveva scalzato la base
sociale del comunismo, trasferendo la popolazione contadina nelle città; aveva
distrutto l’ambiente rurale. Inoltre gli americani avevano determinato nelle città la
nascita di una società nuova, quasi artificiosa, completamente staccata da quel
Vietnam tradizionale che non aveva ceduto ai nemici fin dal 1862
11
. Infine, nel Sud
era profondamente radicata la componente sociale della borghesia, intellettuale e
imprenditoriale, che nel 1970 poteva essere in esilio a Parigi o nelle celle delle carceri
di Saigon, ma conservava le sue basi sociali urbane, la sua cultura di stampo francese,
i suoi interessi, pronti a riemergere. In molte regioni che erano state controllate
militarmente dagli americani, vi erano molti coltivatori diretti che avevano prosperato
spesso grazie alle forniture americane di energia, e non avevano alcuna intenzione di
cedere le loro terre per una distribuzione equa tra i contadini poveri. Insomma, nel
Sud si combatteva contro gli americani, ma contemporaneamente era in atto una
guerra civile e sociale tra gruppi che avevano radici diverse e obiettivi diversi
12
. In
questo contesto i nord vietnamiti non potevano contare sui compagni nel Sud, uccisi
o esausti, e puntarono tutto sui contadini del Nord, disposti a marciare per duemila
chilometri per raggiungere il fronte attraverso il Laos, portando sulle spalle le armi
cinesi o sovietiche, schiacciati dalla fatica ma mai disposti a piegarsi alla sconfitta.
Tuttavia la lotta non poteva durare in eterno. Nel 1975, lo scandalo Watergate
affondava il prestigio di Nixon: i rivoluzionari vietnamiti considerarono questo un
momento favorevole per riprendersi la loro terra. Entrarono a Saigon il 1 maggio
1975: ora il Vietnam era di nuovo unito e indipendente.
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L'INVASIONE
LA COLONIZZAZIONE FRANCESE
Nell’Ottocento anche la Francia, come le altre potenze occidentali, concentrò i suoi
sforzi nella politica di conquista dei territori oltremare. Dopo aver messo radici in
Africa settentrionale, con l’importante conquista dell’Algeria nel 1830, volse il suo
sguardo all’Asia orientale. La Gran Bretagna si era già affacciata in Cina, con la
prima “guerra dell’oppio”, nel 1842, con la conseguente cessione di Hong Kong agli
inglesi e l’apertura al commercio straniero di cinque porti cinesi. Anche le mire
francesi erano dirette essenzialmente verso il mercato cinese, per questo era
necessaria una base d’appoggio per la flotta francese, base che si decise di instaurare
in Vietnam
1
.
L’arrivo degli stranieri e l’instaurazione di un regime fondato su istituzioni di tipo
occidentale ebbe un forte impatto sulla società vietnamita, la cui vita era polarizzata
attorno all’ideologia del confucianesimo, arrivato in questa terra sull’onda delle
influenze cinesi, e che nel XIII secolo aveva scalzato persino il ruolo dominante del
buddhismo. Quando i francesi misero piede in Indocina, questa dottrina impermeava
ogni aspetto della quotidianità vietnamita: nelle scuole le lezioni si basavano
sull’insegnamento dei testi sacri, che dovevano essere studiati a memoria; in nome di
Confucio ai ragazzi era vietato o concesso un certo comportamento; le prescrizioni
del maestro erano incise sui muri e sulle colonne, di modo che nessuno potesse mai
scordarle. La più grande ambizione di ogni ragazzo era poter accedere ai concorsi
triennali, l’unica opportunità per cambiare la loro vita. Infatti, i pochissimi che
riuscivano a passarli entravano a far parte della ristretta e ambita classe mandarinale,
che deteneva tutta l’amministrazione del regno. Essere uno studente era il biglietto
per scappare dalla fila del popolo per entrare nell’élite prescelta: il laureato era
accolto dal suo villaggio come un re, era rispettato e temuto, e si separava
completamente dal resto del popolo incolto. Avere un mandarino nella propria
famiglia era l’onore più supremo.
Le radici dello Stato vietnamita, centralizzato e basato sull’amministrazione gestita
dalla burocrazia mandarinale, sono da ricercarsi nel X secolo, quando terminò il
periodo della dominazione cinese. Il delta del Fiume Rosso (dove trae origine la
stessa popolazione vietnamita), era continuamente minacciato dalle inondazioni;
l’impero cinese persisteva nei suoi tentativi di riconquista e il Paese era attraversato
da perenni disordini generati dal malessere degli ambienti rurali. Tutto ciò rese
indispensabile la creazione di un’amministrazione centralizzata, che risolvesse i
6
problemi che devastavano il territorio in modo pratico. Sia i lavori di costruzione
delle dighe, sia la difesa della nazione dai tentativi di invasione cinese, vedevano
come protagonisti in prima linea i contadini, che rispondevano all’appello della
monarchia, ma allo stesso tempo combattevano contro i soprusi loro imposti dai
governatori. La lotta dei contadini per i loro diritti è uno dei nerbi della storia
vietnamita: questi contadini-soldato che tanto amavano la loro stessa indipendenza da
edificare attorno ai villaggi le “barricate di bambù”, oltre le quali neanche il potere
imperiale poteva arrivare
2
. Il principio della proprietà “privata” della terra si impose
solo alla fine del XIII secolo, dopo la sconfitta dei mongoli, dopo che la classe
mandarinale riuscì a scalzare il feudalesimo ed il buddhismo. Teoricamente tutti
potevano acquistare la terra, come tutti potevano partecipare ai concorsi triennali. In
pratica, però, solo pochi riuscivano ad impossessarsi della terra, mentre i più erano
costretti a lavorare quella altrui. Allo stesso modo, i concorsi erano riservati a pochi
fortunati che potevano permettersi di spendere l’energia, i soldi ed il tempo necessari
alla preparazione.
La comunità contadina era perfettamente organizzata: all’amministrazione reale
versava le imposte e forniva gli uomini per l’esercito e per le grandi costruzioni. Ma,
era l’amministrazione comunale, costituita da un consiglio di notabili eletti dagli
abitanti, che si occupava della distribuzione delle imposte, delle corvées, del servizio
militare, del mantenimento dell’ordine pubblico e della periodica distribuzione delle
terre comunali. Una presenza importante all’interno del villaggio era quella del
letterato. Molti, nonostante i tanti anni di studio, non passavano gli esami di Stato e
tornavano alle loro case con la sola differenza di essere dispensati dalle corvées. Si
impegnavano, così, come precettori, svolgevano funzioni notarili, oppure
diventavano maestri, per i figli delle famiglie più agiate oppure nelle scuole dei
villaggi. Il letterato rappresentava il maestro e la guida spirituale del popolo, era il
suo consigliere e, a differenza del mandarino che si isolava nelle sue lussuose
residenze, egli continuava a vivere in mezzo ai contadini ed alla sua gente.
La dottrina confuciana voleva essere anzitutto il fondamento morale-politico della
classe reale, che attraverso il mandato del cielo doveva agire per il bene del popolo ed
essere un esempio di perfezione morale. L’immoralità dei governanti rappresentò fin
da sempre la giustificazione delle sommosse popolari. Tuttavia questa filosofia
morale aveva uno sguardo troppo conservatore, attingendo solo dal passato
(“conservare i riti degli antichi re”
3
), senza tener mai conto dei cambiamenti sociali e
delle crescenti esigenze del popolo. La preminenza del confucianesimo e di una
morale tradizionale che protegge una società agricola fondata sulla tradizione,
determinò un grave squilibrio della vita intellettuale del Paese: l’oratoria e la filosofia
erano preferiti allo studio delle altre scienze. Per i governanti confuciani il metodo
migliore per un buon governo era dato dall’osservanza delle rigide regole morali, di
precisi riti e sulla dogmatica conoscenza dei testi canonici. In realtà tutto ciò non era
sufficiente: i contadini minacciavano di continuo l’ordine sociale, perché per lo più
non possedevano la terra e premevano per la distribuzione, per l’abbassamento delle
tasse, delle imposte, delle corvées. Ad ogni rivolta contadina i mandarini
rispondevano con l’invio dei militari, che attuavano una spietata repressione. In
7
questo modo la classe mandarinale non fece che alienarsi sempre più la simpatia del
popolo, dal quale si emarginò progressivamente nel corso degli anni.
L’organizzazione della famiglia rifletteva il carattere agricolo della società: la cellula
familiare era l’unità di manodopera, basata sulla divisione dei compiti e del lavoro.
La “solidarietà familiare” si esprimeva negli ampi poteri attribuiti al padre di famiglia
che, fino al XIX secolo aveva diritto di vita e di morte sui propri figli. Questa
“solidarietà” si rifletteva anche nel culto degli antenati, un imperativo assoluto per i
vietnamiti, al punto che in assenza di eredi la famiglia adottava un individuo, per far
sopravvivere nel futuro il rituale. Inoltre, la filosofia confuciana determinò
l’immobilismo sociale: la “pietà filiale” significava essenzialmente fare come
volevano i genitori, seguire le regole e non disobbedire mai. Ogni piccola ascesa
sociale si pagava con molto sacrificio e il posto raggiunto era conservato
gelosamente. Qualsiasi scostamento dalla tradizionale ortodossia era punito
severamente.
Da parte sua, il letterato condivideva con il mandarino lo stesso rispetto per il regime
tradizionale, ma, vivendo in mezzo al popolo, nel momento in cui questo si rivoltava
perché esasperato infine da un evento catastrofico, il letterato assumeva il ruolo di
leader della sommossa. In nome dello stesso moralismo confuciano si poneva alla
guida del movimento per rovesciare la monarchia, perché le inondazioni, le carestie, i
periodi prolungati di siccità, erano letti in chiave mistica: le disgrazie le inviava il
cielo perché il sovrano non si comportava in modo degno. In questo modo il popolo
era legittimato a rivoltarsi. Dall’altra parte i mandarini, sempre in nome di Confucio,
si ponevano alla guida dell’esercito reale per reprimere la rivolta.
Con l’arrivo dei francesi la scissione tra mandarini e letterati divenne ancor più
radicale. La sottomissione era un prezzo accettabile per la corte e la sua classe
mandarinale: l’importante per loro era conservare le prerogative di cui godevano in
passato, dell’indipendenza nazionale non si preoccupavano. Invece i letterati, certi
dell’appoggio popolare che affondava le sue radici nella storica lotta contro gli
invasori, preparavano il terreno per la resistenza. Da studiosi rivestirono il ruolo di
guerrieri che coraggiosamente guidavano i loro allievi alla battaglia: ma non
possedevano né armi moderne né una dottrina politica unitaria cui riferirsi, quindi
venivano sempre sconfitti, martiri della lotta di liberazione
4
. Il confucianesimo,
ideologia di un ceto ormai asservito e ben poco legittimato, perse progressivamente
influenza tra il popolo: se il nemico era riuscito ad entrare e ad accomodarsi in
Vietnam non era solo a causa dell’inferiorità degli armamenti. La colpa era anche di
un’ideologia ormai arcaica e che per secoli aveva soffocato ogni tentativo di
innovazione e progresso. I primi movimenti di resistenza contadina, sotto la guida dei
letterati, erano comunque sempre diretti alla restaurazione della monarchia, con
l’ascesa di un nuovo re virtuoso in grado di governare il popolo, perché: “coloro che
lavorano manualmente devono essere governati, coloro che lavorano con la testa
devono governare
5
”. La parola “democrazia” non era ancora arrivata laggiù, per cui
essi non potevano lottare se non allo scopo di sostituire un re illegittimo con uno
legittimo. Lottavano contro gli invasori come in passato avevano lottato i loro
antenati, con le stessi armi e con le stesse idee. Non avevano certo i mezzi né le
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conoscenze adatte per avviare un processo di trasformazione sociale in senso
moderno.
Dopo il 1900, poi, si affacciarono sullo scenario vietnamita i principi della
democrazia, della partecipazione popolare al governo, del rinnovamento culturale.
Fino al 1930, tuttavia, non apparvero figure in grado di guidare la società verso la
modernizzazione. Le nuove generazioni formatesi negli istituti franco-annamiti
possedevano delle conoscenze di stampo occidentale, avevano avuto accesso alle
scienze moderne e potevano vedere le differenze che intercorrevano tra il loro Paese,
ancora arcaico, e i forti Stati occidentali. Tuttavia, erano come amorfi nelle mani di
un’amministrazione straniera, che li forgiava esclusivamente per trarne personale
vantaggio. Essi mancavano di quella moralità che era la base dell’educazione dei
letterati precedenti, che, forti delle loro convinzioni, preferivano spezzarsi piuttosto
che piegarsi al nemico.
La dirigenza della lotta nazionale fu assunta con successo dai militanti marxisti. Il
marxismo arrivò in Vietnam come l’arma della liberazione, dopo l’insuccesso dei
letterati e dopo i deboli tentativi degli intellettuali borghesi. Questa nuova dottrina
trovò terreno fertile in Vietnam, dove emerse dalle ceneri del confucianesimo, con il
quale condivideva numerose teorie, quali l’integrità e l’esemplarità morale, la
disciplina collettiva, l’amore incondizionato per il buon governo, il senso del dovere.
La laicità dello stato vietnamita rese ancor più facile il radicarsi del comunismo, che
si scontrò spesso con le comunità cattoliche, sostenitrici del potere coloniale. Il padre
della nazione vietnamita, Ho Chi Minh, riuscì a fondere l’eredità confuciana con
l’ideologia comunista: in sé realizzò la sintesi della tradizione popolare e della lotta
rivoluzionaria e grazie a ciò fu possibile far appello alla nazione intera, affinché
contribuisse a scacciare il nemico. E il popolo ancora una volta rispose al richiamo,
perché era arrivato il momento di spodestare l’illegittimo governo, perché il loro
leader aveva dimostrato appieno le sue “virtù morali”, il suo amore per la patria e la
sua gente, perché combatteva nelle giungle al fianco dei suoi soldati, e fino all’ultimo
ha resistito. Il suo agire era influenzato da una dottrina nuova e moderna,
“scientifica”, ma allo stesso tempo trovava era il riflesso dell’agire dei letterati di un
tempo che mai si piegarono agli aggressori, e morirono sotto le torture e sotto il
piombo per non vedere la loro terra in mano agli sciacalli.