4
Il tema della macchina economica Fiat è tornato altre volte alla ribalta, sfociando nella
produzione di automobiline anche di successo, ma ovviamente nessuna di loro ha più
significato quello che Seicento e nuova Cinquecento hanno voluto dire per la classe media ed
operaia italiane.
La lucidità forse ingenua, che la lontananza temporale dal verificarsi degli eventi ci regala, ha
fatto di alcune fasi di questa ricerca momenti di puro divertimento; se non si conviene che
siano espressi in una tesi di laurea, desidero farlo almeno qui, concedendomi uno strappo alla
regola.
Anche se l’immedesimazione con i primi acquirenti dell’utilitaria appare impossibile, non
posso dire che l’affezione per la mia prima Fiat Uno non abbia costituito per me uno spunto
di riflessione ed uno stimolo nello svolgere il lavoro che segue.
La limitatezza delle pagine che seguono, dipendente dalla necessità di circoscrivere il periodo
preso in esame, e dalle lacune dell’autrice, non può in alcun modo essere imputata a chi ha
contribuito alla realizzazione di questo lavoro.
Desidero dunque ringraziare tutti i collaboratori dell’Archivio Storico Fiat, In particolare
Giuseppe Berta, Massimo Castagnola e Giuseppina Cortese, che mi hanno fornito in maniera
sempre centrata e puntuale tutto il materiale da me richiesto, e che mi hanno così gentilmente
ospitato durante le mie avventurose esplorazioni nelle loro “segrete”.
5
CAPITOLO I
La situazione politico economica in Italia
negli anni Cinquanta
6
1. Il clima politico
L’idea di estendere il mercato delle automobili e di allargare la sfera sociale dei possibili
acquirenti, era presente nella mente di Vittorio Valletta già negli anni Venti, quando era
ancora amministratore delegato della FIAT di Giovanni Agnelli, per poi divenirne presidente
nel 1946.
Furono la crisi economica e la guerra a rimandare la realizzazione del progetto a tempi
migliori.
L’Italia usciva dal conflitto semidistrutta e sconfitta e pochi, sia in ambito politico che
economico, avrebbero creduto che lo sviluppo poi iniziatosi negli anni cinquanta e sfociato
nel cosiddetto “miracolo economico”, avrebbe portato il paese a competere in campo
industriale con le grandi potenze.
Nel clima di “guerra fredda” tra Stati Uniti ed Unione Sovietica che si profilava, e che sarebbe
durato a lungo con intensità variabile, il tema principale della politica del tempo doveva essere
proprio quello della scelta di campo.
L’Italia si schierò convenientemente per il modello americano potendo così accedere agli aiuti
dello European Recovery Program, ovvero del “piano Marshall” per la ricostruzione
dell’Europa.
Nonostante il Congresso, in America, non avesse ancora completamente approvato il piano,
i finanziamenti arrivarono con straordinario tempismo poco prima delle fatidiche elezioni
del 1948.
Rimettere in piedi una parte di Europa per poter poi intrattenere rapporti commerciali con
essa, era una prospettiva che certamente allettava anche gli Stati Uniti, ma per l’economia
italiana e per la creazione di una certa fiducia nel futuro, gli aiuti del piano furono vitali.
7
Essi interessarono aziende private e aziende a partecipazione statale con una prevalente
attenzione alle aree dell’economia più legate allo sviluppo industriale e all’esportazione: settori
meccanico, siderurgico, delle infrastrutture, delle comunicazioni e dei trasporti.
Su un totale di cinquantotto milioni di dollari stanziati per l’industria meccanica, approdarono
alla Fiat ben ventidue milioni solo per la produzione di automobili.
1
Valletta si era già recato in passato in America con alcune delegazioni Fiat per perorare la
causa dell’azienda ed era ritornato con in tasca cospicui prestiti concessigli da istituti di credito
statunitensi più sulla fiducia che sulla reale aspettativa in qualche successo e indipendenti
dagli aiuti alla nazione, i quali avevano permesso alla Fiat di cominciare la ricostruzione un
po’ prima rispetto ad altri e con più denaro da investire.
Con l’occhio di riguardo che aveva sempre avuto per il mercato internazionale, Valletta fu
ben felice della scelta italiana di rimanere nell’area di influenza americana, sperando anche che
gli aiuti statunitensi servissero a scoraggiare alla Fiat l’ascesa di ideologie di estrema sinistra;
ciononostante, nell’incertezza che precedette le elezioni, alcuni esponenti della dirigenza Fiat
furono prudentemente iscritti al Partito Comunista, e sembra che lo stesso braccio destro di
Gaudenzio Bono, destinato ad essere un protagonista degli anni del “boom” al fianco di
Valletta, avesse in tasca la tessera con falce e martello.
2
La Democrazia Cristiana vinse così le elezioni del 1948 con la benedizione della Chiesa e
degli Stati Uniti, e poté governare il paese per tutti gli anni Cinquanta, in quella che viene
chiamata l’epoca del “centrismo”.
La politica economica intrapresa dal Governo fu un po’ miope rispetto al reale sviluppo a cui
il paese stava andando incontro.
1
G. Berta, Mirafiori, Bologna, 1998, pp. 16-17
2
V. Castronovo, Fiat 1899-1999 Un secolo di storia italiana, Milano, 1999, p. 790
8
La Democrazia Cristiana aveva i suoi motivi per desiderare che le cose si evolvessero senza
grandi rivoluzioni; essa era legata infatti ad un’idea dell’Italia agricola e frugale e temeva che
un tentativo di scegliere la strada dell’industrializzazione avrebbe dato vita a nuove classi
sociali e a nuove ideologie, sconvolgendo quella società che era stata il luogo del suo successo
elettorale.
Anche solo come simbolo della tutela della proprietà, il governo di centro incarnato dal
partito egemone, così vicino agli americani ed alla loro ricchezza, interpretò lo spirito del
tempo e il desiderio di pace e di un po’ di benessere comunque meglio dei partiti di sinistra, in
attesa di un mondo ideale per cui gli italiani non avevano più voglia di fare la guerra.
All’ interno della Democrazia Cristiana, oltre ad incontrare spesso De Gasperi, Valletta sperò
sempre nel sostegno del futuro Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che già
conosceva dal 1934, ma gli aiuti a sostegno della grande industria che egli si aspettava non
arrivarono direttamente da nessun membro della classe politica.
Il contributo alla modernizzazione che venne dallo Stato attraverso le aziende da esso
controllate (più organicamente dal 1956 con la creazione del Ministero delle Partecipazioni
Statali) fu soprattutto merito degli uomini posti alla guida di queste imprese.
Dopo la parentesi autarchica, infatti, si era ritornati al liberismo già conosciuto in Italia in
epoca prefascista ma in una versione nella quale le direttive di quelle che si profilavano come
nuove potenze economiche si rivelavano decisive.
Un tentativo statale di pianificazione dei cambiamenti economici in corso si ebbe nel 1954
con lo “schema Vanoni”, dal nome del Ministro del Bilancio; questo sforzo rispondeva
probabilmente anche alla richiesta di ricerca di modernità e dinamicità fatta dallo stesso
segretario della DC Fanfani.
9
Il piano, che si proponeva di individuare la direzione dello sviluppo e di definirne gli obiettivi,
venne applicato solo in parte in quanto poco programmatico e senza una precisa base
normativa; fu fin troppo pessimista anche nel pronosticare gli incrementi di alcuni importanti
indicatori economici, i cui valori nel corso degli anni superarono le più rosee previsioni.
3
Dal Partito Comunista, uscito sconfitto dal confronto tra ideologie, sarebbe stato troppo
aspettarsi qualunque supporto per costruire un mondo da esso sempre demonizzato come
trionfo della disuguaglianza.
Attendendo l’inevitabile crollo del sistema capitalista, la Sinistra avrebbe solo potuto cercare
di limitarne i danni attraverso i sindacati, su un campo di battaglia che si profilava alquanto
duro per le organizzazioni operaie.
Per quanto riguarda la diffusione della motorizzazione privata, avrebbero certo preferito un
mezzo di trasporto-simbolo diverso dall’idea di svago ed evasione che poteva evocare
un’automobile propria.
Valletta cercò comunque l’appoggio dei politici, almeno di quelli di cui aveva stima, e infatti
divenne una sorta di appuntamento quello con il vagone letto del mercoledì sera da Torino a
Roma, per incontrarsi con esponenti dei Ministeri o con il Presidente del Consiglio.
4
I contatti con la classe dirigente, i rapporti di stima reciproca o di aperto dissenso furono
moltissimi e su più fronti; risultò sicuramente indigesta a molti la strizzata d’occhio di Valletta
al partito socialista di Nenni; era infatti considerato inopportuno in un’Italia ancora così
dipendente dagli aiuti americani, avere contatti con gli alleati dei comunisti; le società con un
consiglio di fabbrica, espressione del corpo operaio, in mano per più di metà alla CGIL, si
vedevano escluse dai sostegni del piano.
5
3
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, 1989, p. 222
4
P. Bairati, Valletta, Torino, 1983, p. 162
5
Secondo Bairati, i rapporti di Valletta con comunisti e socialisti, al governo fino al maggio del 1947, si
mantennero assidui anche in seguito, e fino all’acuirsi della guerra fredda, dapprima soprattutto attraverso i
Consigli di Gestione ad orientamento comunista presenti in Fiat; furono poi la stima personale nutrita da
Valletta per Nenni e la ricerca di un appoggio politico deciso per il rilancio della Fiat a far considerare al
Presidente una svolta a sinistra che non avrebbe avuto luogo.
Vedi ibid., p. 166
10
La sua apertura verso il socialismo, dettata certamente dall’interesse per la Fiat nell’idea delle
riforme che questo nome evocava, anticipò quella dello stesso Governo, che avvenne solo
con l’inizio degli anni sessanta, grazie ai tempi dilatati della politica e alle misure piuttosto
energiche adottate dalla Democrazia Cristiana per tutelare il proprio potere, a partire dal 1953.
Lo stimolo alla crescita economica arrivò non solo dalla lontana America, ma anche da
nazioni europee molto più vicine; già nel 1951, l’Italia aveva aderito alla CECA (Comunità
europea del carbone e dell’acciaio); un coinvolgimento così diretto con potenze la cui
situazione poteva apparire meno critica, non mancò di suscitare perplessità.
Ma il paese era stato segnato non solo dalla guerra; il periodo di autarchia aveva isolato l’Italia
per troppo tempo dal contesto europeo e non si poteva rischiare di essere esclusi anche dai
nuovi equilibri postbellici e dal riavvicinamento tra Francia e Germania; con esse e con
Belgio, Olanda e Lussemburgo, vennero così sottoscritti nel 1957 i trattati istitutivi della CEE
(Comunità economica europea) e dell’EURATOM (Comunità europea dell’energia atomica).
La Fiat aveva tratto giovamento dalla mancanza di concorrenza offertale da un regime di
economia chiusa nel quale aveva potuto diventare l’azienda dominante nel settore
automobilistico.
Ciò senza contare che ancora nel 1956 esistevano dei dazi che, sommati ad altre imposte,
garantivano alle vetture Fiat una protezione fino al 50% sui veicoli importati, assicurandole il
90% del mercato interno.
6
L’evolversi della situazione internazionale aveva preoccupato i vertici della Fiat, i quali non
mancarono di esercitare alcune pressioni sulla commissione italiana incaricata di discutere le
condizioni dei trattati internazionali anche attraverso alcune “telefonate rabbiose” di Valletta.
I vertici della società si adoperarono per far sì che i termini del trattato risultassero più
indolori possibile, ma essi erano già sufficientemente flessibili e con obiettivi molto dilatati nel
6
V. Castronovo, Fiat 1899-1999 Un secolo di storia italiana, cit., p. 795
11
tempo, in modo tale che anche l’economia italiana avrebbe potuto crescere senza troppi
affanni.
Nel giro di qualche anno comunque la Fiat avrebbe dovuto competere ad armi pari non solo
con le industrie automobilistiche europee, ma anche con gli stabilimenti nel Vecchio
Continente dei colossi americani Ford e General Motors
Questa prospettiva non poteva non apparire preoccupante, soprattutto considerando che,
nonostante le dimensioni della Fiat sembrassero titaniche nel contesto italiano, l’azienda
restava piccola e debole se confrontata a concorrenti stranieri.
Le gravi difficoltà che si prospettavano non impedirono al Presidente di capire in anticipo
rispetto ad altri le implicazioni positive che la nuova situazione avrebbe portato, cosa che gli
permise di cavalcare gli effetti benefici della collaborazione con gli Stati Uniti e con le potenze
europee.
Innanzi tutto Valletta comprese, rafforzando quella che era già una sua ferma convinzione,
come quello fosse il momento giusto per sfruttare i mutamenti in corso e per lanciarsi nella
fabbricazione di un prodotto del quale perfino i futuri acquirenti ignoravano l’utilità,
permettendo così alla Fiat di farsi valere su un terreno di concorrenza non convenzionale.
Se le altre grandi imprese avevano puntato su modelli di grossa cilindrata, la Fiat avrebbe
realizzato modelli più piccoli e più abbordabili sul fronte del prezzo; avrebbe pensato,
progettato e fabbricato la cosiddetta “utilitaria” per la quale si intravedeva una speranza di
espansione della domanda.
La scelta della fetta di mercato a cui rivolgersi avrebbe costituito il punto di forza dell’azienda
in ambito competitivo e il presupposto di cambiamento della società insito in un progetto
simile avrebbe trainato tutti i settori dell’industria e modificato realmente le abitudini e i
desideri degli italiani, facendo dell’automobile un bene pilota per lo sviluppo dell’intera
economia.
12
2. La situazione economica
Nel pieno del “miracolo”, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’Italia raggiunse un
tasso di incremento del prodotto interno lordo pari anche al 7%, crescendo con una rapidità
fino ad allora sconosciuta ed inferiore solo a quella della Germania e del Giappone, le altre
grandi sconfitte della guerra in via di ricostruzione.
7
I risultati eclatanti ottenuti in quel periodo, furono comunque il frutto di progressi maturati
durante tutti gli anni Cinquanta, e risultarono dunque tanto più sorprendenti perché figli di
un’economia ancora relativamente arretrata, se si pensa che solo nel 1958 il peso dell’industria
avrebbe superato quello dell’agricoltura sul piano della forza lavoro in esso occupata.
Va innanzi tutto detto che il problema dell’occupazione rimase grave nonostante il notevole
sviluppo, e gravissimo fu soprattutto al Sud, dove la grande impresa non attecchì; pesò anche
la difficile ricollocazione della donna nel mondo del lavoro una volta lasciata la campagna per
trasferirsi nelle grandi città.
Poiché la distribuzione delle energie del paese nei vari settori durante tutto il decennio è
fortemente indicativa per sottolineare il cambiamento avvenuto, sarà utile confrontare i due
grafici sottostanti che individuano la ripartizione degli occupati rispettivamente nel 1951 e nel
1961.
8
Grafico 1.- Distribuzione forza lavoro (%)
1951 1961
7
G. Sabbatucci V. Vidotto, Storia d’Italia 5. La Repubblica, Roma-Bari, 1977, p. 361
8
G. Vecchio D. Saresella P. Trionfini, Storia dell’Italia contemporanea, Bologna, 1999, pp. 313-314
30%
6%
44%
21%
agricoltura industria
servizi pubblica amm.ne
39%
7%
29%
25%
agricoltura industria
servizi pubblica amm.ne
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L’espansione più grande fu naturalmente quella dell’industria, grazie soprattutto al sempre
crescente numero degli impiegati, dei tecnici e degli operai.
Restavano ridotte le cifre degli occupati nello Stato sociale, soprattutto in relazione ad altri
paesi europei.
E’ ovvio a questo punto che non tutto il paese fu coinvolto in misura uguale; il “miracolo” fu
vissuto essenzialmente, almeno in un primo momento, dalle aree intorno al cosiddetto
“triangolo industriale” Milano-Torino-Genova.
L’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, nel 1950, allo scopo se non di colmare almeno di
attenuare il distacco tra Nord e Sud, avrebbe in futuro perseguito il tentativo di
industrializzare il meridione impiantandovi complessi produttivi talvolta monumentali delle
grandi imprese, ma non diede gli effetti sperati; le grandi aziende non innescarono al Sud
quella catena di valore che ci si aspettava e non vennero creati nuclei adeguati in cui i
dipendenti e la comunità circostante potessero incontrarsi, in modo tale che gli stabilimenti
finirono per risaltare come corpi estranei in realtà inadeguate.
Tutto ciò non fece che dare maggior impulso all’emigrazione verso l’estero e, relativa novità,
anche all’interno.
Vedremo più avanti quanti italiani avrebbero deciso di spostarsi e quale sarebbe stata
l’accoglienza a loro rivolta.
Per il momento basti sapere che anche la Fiat contribuì a questo fenomeno e ne pagò le
conseguenze; la sua comparsa al Sud si ebbe solo nel 1956 con l’insediamento Comind a
Napoli, ma non si trattò di un grosso investimento.
Infatti, secondo la filosofia taylorista di organizzazione del lavoro imparata dagli americani,
occorreva che l’azienda fosse fortemente accentratrice per ottenere il meglio dalla
produzione.
Se nel Mezzogiorno si lasciava il paese per cercare la ricchezza, al Nord quel poco che si
aveva da spendere cominciava ad assumere significati del tutto nuovi.
14
Un caso emblematico fu quello della crescita della spesa per i trasporti rapportata alla crescita
dei consumi privati: dal 1953 al 1960 la prima crebbe del 67%, la seconda solo del 23%
evidenziando il peso enorme della volontà del “passaggio alle quattro ruote”
9
Le forze propulsive del cambiamento vennero non solo dalle esigenze di sopravvivenza
delle imprese o dall’intuito dei loro timonieri; il processo di occidentalizzazione di cui il
paese fu protagonista, infatti, mutò in modo rapidissimo ed irreversibile i consumi e quelli
che sarebbero poi divenuti veri e propri bisogni.
Per questo, i settori che più esplosero furono quelli legati alle novità o alle più recenti
comodità: i beni del “boom” divennero i mobili, gli elettrodomestici, le automobili e tutti
quelli che potevano affiancarsi alla già rodata esportazione di capi d’abbigliamento.
Non stupisce quindi che le aziende produttrici più coinvolte nel processo di modernizzazione
ebbero sviluppi così ingenti e rapidi, anche se questo concentrarsi sull’esportazione e sui beni
di consumo finì per distogliere le risorse dello Stato che avrebbero dovuto essere destinate al
sociale, settore che rimase atrofizzato rispetto ad altri paesi e rispetto alla crescita
vertiginosa dei consumi privati, in un fenomeno che Ginsborg individua come
“distorsione dei consumi”.
10
Se lo Sato mancò su questo fronte, fu però d’aiuto allo sviluppo sia in modo attivo, attraverso
la creazione di infrastrutture, la regolazione favorevole agli investimenti del sistema
bancario e lo stimolo alla domanda interna attraverso iniziative come la Cassa per il
Mezzogiorno, sia astenendosi dall’adottare una normativa troppo rigida e un troppo ferreo
controllo sul commercio.
Per le grandi aziende protagoniste dei cambiamenti del paese, private o pubbliche
che fossero, si può fare un discorso analogo; ebbero il merito di svolgere la duplice azione di
rispondere ad una domanda di mercato già parzialmente esistente, ma anche di stimolarne la
parte latente attraverso i prodotti giusti come nel caso delle automobili.
9
R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, Bologna, 1961, pp. 310-311
10
P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 291-292
15
Volendo vendere le proprie “macchinine” la Fiat non poteva fare altro che cercare di ottenere
tecnologie all’avanguardia per produrre a basso prezzo in primo luogo, e poi creare le
infrastrutture, i servizi indispensabili per una diffusione di massa.