6
nuove forme di gestione del personale e di organizzazione del lavoro si
concretizzano maggiormente nella loro gestione rispetto a quella dei colletti
blu e perché i sindacati sono storicamente meno forti presso di loro.
La tesi si struttura in cinque capitoli.
Il primo capitolo considera l’evoluzione del capitalismo in Italia mettendolo
in parallelo con l’evoluzione della sindacalizzazione, che, vedremo, continua
ad essere legata alle figure operaie della grande industria. Osserveremo
inoltre le peculiarità della storia industriale e sindacale della provincia di
Bergamo, all’interno del contesto lombardo. che la sindacalizzazione
diminuisce in parallelo con la diminuzione delle figure operaie della grande
industria. Una particolare attenzione sarà poi dedicata al settore
metalmeccanico, oggetto della nostra analisi.
Il secondo capitolo esamina invece la sindacalizzazione degli impiegati,
facendo una rassegna degli studi principali in materia. Vedremo le ragioni
della distanza che storicamente separa i colletti bianchi dalle organizzazioni
di rappresentanza dei lavoratori, nonché le dimensioni utilizzate nelle
ricerche per comprendere la loro condizione lavorativa e la loro auto-
rappresentazione come gruppo sociale.
Il terzo capitolo analizzerà invece alcuni elementi rilevanti della struttura
industriale bergamasca, del suo andamento economico, delle forme di
internazionalizzazione dei mercati e le caratteristiche del mercato del
lavoro. Vedremo che queste caratteristiche sono molto importanti nel
determinare le caratteristiche delle relazioni industriali.
Il capitolo quattro contiene le ipotesi di riferimento della ricerca e la
metodologia di analisi.
Il quinto capitolo, invece, analizza la sindacalizzazione impiegatizia
all’interno di cinque grandi aziende metalmeccaniche bergamasche.
Riferendosi alle ipotesi della ricerca, verrà operato un confronto fra le
aziende e si analizzeranno le relazioni industriali e le condizioni lavorative
degli impiegati con un particolare riferimento al contesto industriale in cui
sono inserite, nonché all’andamento economico delle singole imprese e
dell’area bergamasca.
7
PARTE I
CAPITOLO I
L’EVOLUZIONE DEL CAPITALISMO E DELLA
SINDACALIZZAZIONE IN ITALIA
In questo capitolo tratteremo dell’evoluzione dell’industrializzazione in
Italia. In particolare, ci concentreremo sull’analisi della nascita e crescita
dell’industria e delle sue successive modificazioni in relazione con
l’andamento dei tassi di sindacalizzazione. Vedremo che alla crescita della
grande industria a partire dagli anni Cinquanta segue, dagli anni Settanta,
un aumento delle imprese di piccole dimensioni, soprattutto per lo sviluppo
dei distretti industriali. Cambia il mondo della produzione, cambiano molte
caratteristiche della società e questo ha conseguenze sulla composizione
dell’occupazione e conseguentemente sui tassi di sindacalizzazione.
Un aspetto importante che determina la forma delle relazioni industriali in
una impresa è il tasso di sindacalizzazione, il quale a sua volta, come si è
già detto, dipende in grande misura dalla struttura dell’industria. Ciò che
interessa sottolineare in particolare è che in Italia storicamente alcune
categorie di lavoratori sono state (e sono tuttora) più sindacalizzate di altre:
i più alti tassi di sindacalizzazione si ritrovano innanzitutto fra gli operai
della grande industria e fra gli impiegati del settore pubblico, mentre i più
bassi sono fra gli impiegati del settore privato, gli addetti ai servizi con
elevata esposizione al mercato (come i servizi alle imprese) e fra gli addetti
che operano in unità produttive con pochi dipendenti o frammentate (come
nel piccolo commercio) [Cella 1999, pp. 23-4]. Con l’analisi che segue
analizzeremo le dinamiche della sindacalizzazione in Italia concentrandoci in
particolare sull’industria manifatturiera, attendendoci di ritrovare una
relazione positiva fra tasso di sindacalizzazione e la dimensione delle
imprese, nonché con il peso della forza lavoro operaia sul totale
dell’occupazione. Contemporaneamente, cercheremo di rendere conto
dell’evoluzione della struttura produttiva italiana, della composizione
dell’occupazione e della storia dei sindacati a partire dagli anni Settanta.
Un’attenzione particolare sarà poi dedicata al settore metalmeccanico e
all’evoluzione della struttura produttiva e della sindacalizzazione nella
provincia di Bergamo.
8
1. L’evoluzione dei settori economici e della
sindacalizzazione in Italia
1.1 Dal Dopoguerra agli anni Settanta: lo sviluppo della grande
industria
1.1.1 La crescita delle imprese: politiche di sviluppo e società
Per rendere conto delle trasformazioni nella struttura produttiva e
occupazionale avvenute in Italia negli ultimi anni è necessario descrivere
brevemente i tratti principali del capitalismo nazionale a partire dagli anni
Cinquanta.
In questo periodo l’Italia vede una notevole crescita economica, che, negli
anni, va a ridurre il gap tra l’Italia e i Paesi europei più avanzati.
L’indicatore principale è il fortissimo aumento del PIL pro capite: se nel
1950, a parità di potere d’acquisto, il PIL pro capite italiano è a quota 100
contro il 186 dell’Europa occidentale, nel 1960 la distanza sarà di 100 a
fronte di 165, mentre nel 1970 di 100 a fronte di 148 [Amatori e Colli 2003,
p. 231].
La società italiana, nell’arco di quindici anni a partire dalla fine della guerra,
attraversa una trasformazione radicale realizzando quella che è stata
definita la sua seconda rivoluzione industriale (la prima era stata quella del
decollo, dagli albori agli anni venti) che la portò a passare da una società
ancora fondamentalmente agricola ad una società industriale [Balcet 1997,
p. 47].
Fino a dopo la metà degli anni Cinquanta lo sviluppo sarà guidato dalla
crescita della domanda interna, con aumenti del reddito nazionale molto
consistenti, (nel 1961 si avrà un incremento dell’8,6%, un aumento che
rimarrà ineguagliato) mentre a partire dal 1958 sarà la domanda esterna a
trainare lo sviluppo. Questo è il risultato di una sempre maggiore
integrazione dell’Italia nel sistema economico europeo e di un graduale
abbandono dell’isolamento creatosi con l’autarchia. L’apertura dell’Italia al
mercato internazionale e l’abbandono dei dazi sulle importazioni è il
risultato di una precisa politica di apertura attuata negli anni a cavallo e
successivi al 1950. Dagli anni Quaranta parte l’eliminazione delle restrizioni
quantitative sulle importazioni, che procede velocemente dagli anni
Cinquanta (se nel 1946 la liberalizzazione nelle importazioni è del 5%, nel
1956 si arriva al 76%) . Nel 1951 l’Italia aderisce alla Comunità europea del
carbone e dell’acciaio (CECA), che voleva creare un libero mercato di queste
materie prime entro il 1958 abolendo le restrizioni quantitative ed
eliminando i dazi sulle importazioni fra i sei paesi membri: Italia, Francia,
Germania Occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Se fra il 1951 e il
9
1961 le esportazioni italiane passano dal 12,2 al 16,4% del PNL, è dal 1957
che esse aumentano notevolmente, in seguito alla costituzione del Mercato
comune europeo (MEC), crescendo annualmente a tassi superiori al 16%
[Amatori e Colli 2003, pp. 232-3].
A queste politiche di apertura fanno da contrappeso altre, di stampo invece
più protezionista. Fra i grandi gruppi industriali, non mancava, infatti, chi
sosteneva che l’industria italiana non sarebbe stata in grado di competere
sui mercati se non opportunamente messa al riparo dalla concorrenza
internazionale. Questi timori fanno si che fino agli anni Sessanta
permangano i dazi più elevati rispetto agli altri paesi occidentali sui prodotti
siderurgici, le automobili, gli apparecchi elettrici e i filati e che, inoltre, si
dispongano misure di agevolazione delle industrie nazionali contrapponendo
alla liberalizzazione degli scambi alcune agevolazioni fiscali. Lo Stato, come
in passato, finanzia le imprese, attraverso la creazione di nuove finanziarie
facenti capo all’IRI1 [ibidem, pp. 253.-4]. «In effetti, la politica economica
degli anni Cinquanta si rivela un fortunato dosaggio di elementi
contrastanti» [ibidem, p. 233].
Altri esempi di questa ambivalenza si ritrovano in alcune politiche sociali.
Infatti, se da un lato esistono condizioni che frenano la domanda interna,
dall’altra vengono promosse misure per incentivare i consumi e creare un
mercato di massa. L’aumento dei salari, che potrebbe incentivare i consumi,
è frenato dalla presenza di due milioni di disoccupati, che rappresentano
altresì un grande problema in termini di coesione sociale. A questa
situazione, come già anticipato, fanno da contrappeso altre politiche di
stampo roosveltiano, come ad esempio il «piano Fanfani» per le case ai
lavoratori, oppure la legge Tupini per il finanziamento statale delle opere
pubbliche nei Comuni o l’istituzione nel 1950 della Cassa per il Mezzogiorno,
che ha lo scopo di finanziare opere pubbliche e di promuover l’industria nel
Meridione. Se lo sviluppo del Sud Italia non si realizza con effetto
immediato, la Cassa per il Mezzogiorno ha quantomeno l’effetto di creare
una domanda di beni che provengono dalle fabbriche del Nord [ibidem, pp.
233-4].
In sintesi, i fattori alla base dello sviluppo economico del dopoguerra si
possono riassumere come segue [Balcet 1997, pp. 50-1]:
La disponibilità di una riserva abbondante di manodopera, che contiene
l’aumento dei salari;
Il trasferimento massiccio di tecnologie, soprattutto dagli Stati Uniti;
L’apertura internazionale creatasi con il MEC, favorita da un ciclo espansivo;
1
La Finmeccanica (1948), la Finelettrica (1952) e la Fincantieri (1959), nonché con la
costituzione del Fondo per il finanziamento dell’industria meccanica (FIM) nel 1947 e
dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI) nel 1953.
10
I flussi crescenti di esportazione, che se da un lato hanno l’effetto di
migliorare le economie di scala, dall’altro aiutano a mantenere l’equilibrio
nella bilancia dei pagamenti correnti, insieme alle partite invisibili (rimesse
degli immigrati, turismo) e all’aiuto estero (Piano Marshall);
La spesa pubblica (Cassa per il Mezzogiorno, sostegno alle opere pubbliche)
che sostiene la domanda interna;
La riduzione del prezzo delle materie prime importate (per prima il petrolio).
All’inizio degli anni Sessanta alcuni fenomeni contribuiscono al
rallentamento della crescita ed all’acuirsi delle tensioni sociali. Nel 1962 si
verificano tensioni inflazionistiche dopo un lungo periodo di stabilità
monetaria che risale al 1948. Queste sono determinate dalle rivendicazioni
salariali sorte in seguito all’aumento della produttività del lavoro e alla piena
occupazione, almeno nel Nord Italia2. All’aumento dei prezzi contribuiscono
anche la diminuzione dell’offerta di prodotti agricoli dovute alle strozzature
nella distribuzione commerciale e la speculazione edilizia. La Banca d’Italia
fino al 1963 mantiene l’aumento della base monetaria annuo del 13%,
permettendo così alle imprese di trasferire l’aumento dei costi sui prezzi.
Nel 1963 l’inflazione raggiunge il 5,7% annuo (quando due anni prima era
del 2,8%) e questo genera deficit nella bilancia dei pagamenti. La politica
economica e quella monetaria cambiano: vengono introdotte nuove
imposte, mentre la base monetaria annua aumenta solo del 4,4% annuo. Se
le partite correnti tornano ad avere un saldo positivo, si ha un bilancio
negativo per quanto riguarda invece occupazione e investimenti. Dal 1965 si
hanno nuovamente ristrutturazioni e nuove innovazioni tecnologiche, che
fanno che la produttività cresca nuovamente più dei salari. Tuttavia,
malgrado in questo periodo si registrino performance di crescita molto alta,
il successivo sviluppo dell’economia italiana seguirà l’andamento delle fasi
cicliche. Da questo momento non siamo più nel periodo del “miracolo
economico” che aveva caratterizzato gli anni Cinquanta [Balcet 1997, pp.
57-8].
Quindi, a partire dagli anni Cinquanta il boom economico porta
all’espansione della grande impresa, che rimane determinante per tutto il
periodo seguente fino alle crisi degli anni Settanta.
2
È necessario precisare che in questo periodo nascono nuove tensioni sociali, fra le cui cause
si annovera il processo di inurbamento e le migrazioni dal sud al nord del paese, fenomeni
che coinvolgono 17 milioni di persone. Ad esempio, Milano passa da una popolazione di
1.270.000 a 1.580.000 abitanti, mentre Torino passa da 719.000 a 1.025.000 abitanti, a
causa della manodopera meridionale attratta dalla FIAT. Questi fenomeni portano con sé
gravi conseguenze sociali che le amministrazioni locali non sono in grado di governare né con
gli strumenti della pianificazione urbana né con quelli del moderno welfare state [Amatori e
Colli 2003, pp. 231-46].
11
«Si ripete, ma con maggiore intensità ed estensione territoriale, quanto
era avvenuto all’inizio del secolo, un periodo per il quale si è parlato di
rivoluzione industriale italiana: gran balzo in avanti del reddito
nazionale, la cui crescita annua sfiora il 6%, consistente contributo
dell’industria (dal 41,2 al 44,7%) alla formazione del prodotto lordo
privato, particolare sviluppo all’interno del settore secondario dei
comparti ad alta intensità di capitale e a più elevato contenuto
tecnologico» [Amatori e Colli 2003, p. 231].
Ma com’era la grande impresa che ha contribuito allo sviluppo dell’Italia nel
dopoguerra? Di seguito cercheremo di tracciarne le caratteristiche principali.
1.1.2 L’assetto delle imprese italiane: capitalismo familiare,
crescita della piccola imprenditoria artigiana, partecipazioni
statali
Nell’immediato secondo dopoguerra, in Italia l’assetto delle industrie è
abbastanza articolato e simile a quello di altri paesi industrializzati. Si può
rinvenire un sostanziale dualismo fra le imprese: da un lato quelle ad alta
intensità di capitale, con un elevato grado di concentrazione e che praticano
economie di scala e di diversificazione, dall’altro, invece, quelle che fondano
la loro competitività su flessibilità, design e qualità. Durante gli anni
Cinquanta si assiste al moltiplicarsi di imprese di piccole dimensioni, dovuto
all’evoluzione in senso industriale di piccole produzioni artigiane. Se nel
periodo precedente si assiste invece alla crescita delle grandi fabbriche (fra
il 1927 e il 1951 l’occupazione nelle imprese con oltre 500 addetti passa dal
19 al 25% del totale), già nei primi anni Sessanta si assiste ad un loro
ridimensionamento in termini di incidenza sul totale dell’occupazione.
[Amatori e Colli 2003, p. 255].
Nel secondo dopoguerra molte imprese mettono in opera delle
ristrutturazioni, producendo un elevato numero di licenziamenti. La
conseguenza è il re-impiego della forza lavoro espulsa in forme di self-
employment, soprattutto all’interno di botteghe artigiane o piccolissime
aziende. Contemporaneamente, come si è già visto, si assiste alla nascita di
un mercato di massa, dovuto all’espansione della domanda interna e alla
nascita del Mercato Comune Europeo. Quindi:
«Lo sviluppo del mercato influenza la struttura e i caratteri delle unità di
produzione che, sempre più lontane dall’ecletticità caratteristica
dell’artigiano, assumono frequentemente la fisionomia di imprese “di
fase” da cui escono semilavorati in piccole serie che altre, a loro volta,
12
rifiniscono, assemblano, commercializzano; le conducono figure ibride in
bilico tra artigianato tradizionale e lavoro “alla macchina”»[ibidem, p.
256].
Insomma, emerge l’imprenditore di tipo schumpeteriano che, sviluppate le
competenze tecniche e commerciali all’interno del mondo artigiano, ha
un’idea innovativa di successo che sviluppa creando la propria azienda. Ciò
che contribuisce a determinare lo sviluppo e la crescita di queste aziende
sono i forti investimenti in impianti che permettono di ottenere un’elevata
capacità produttiva sfruttando le economie di scala. La conseguenza è il
passaggio delle attività di questi imprenditori dalla piccola bottega artigiana
al grande stabilimento industriale, in cui la proprietà ha un atteggiamento,
però, di tipo paternalista e antisindacale [ibidem, p. 255 e seg.]3.
Una seconda importante caratteristica del capitalismo industriale italiano è il
controllo dei grandi gruppi da parte di poche famiglie. Secondo Amatori e
Brioschi [1997] in tutte le società industriali esiste il fenomeno della
concentrazione di potere economico, come conseguenza del fatto che i
cambiamenti tecnologici che si affermano a partire dal sec. XIX esaltano le
economie di scala e diversificazione, favorendo in questo modo la nascita di
oligopoli nei settori centrali per lo sviluppo (metallurgia, industria elettrica,
chimica e meccanica). Però in Italia ci sono tendenze più accentuate che
altrove alla concentrazione del potere nelle mani di pochi e nella scarsa
“democratizzazione” della gestione.
Molte fra le maggiori imprese italiane sono state sotto lo stretto controllo di
un’unica famiglia (eredi Parodi-Delfino, Falck, Agnelli) che possiede fra il 70
e il 90% delle azioni delle società, non solo direttamente, ma anche
attraverso finanziarie. Altre imprese, invece, appaiono ad “azionariato
3
«Improntati allo scontro, i rapporti con le organizzazioni operaie sono appena tollerati se
non apertamente avversati: Carlo Vichi per cinque anni, dal 1968 al 1973, attende l’orario di
chiusura per entrare nella “sua” fabbrica. Per chi, al pari di un antico padrone di bottega
ritiene perfettamente legittimo non solo rimproverare i giovani apprendisti per un lavoro
sbagliato, ma anche elargire qualche sonoro schiaffone, lo Statuto dei Lavoratori è una
violenza inaccettabile» [Amatori e Colli 2003, p. 262]. Secondo quanto riportato da Regini e
Santi [1974, pp. 29 e seg.] negli anni Cinquanta e Sessanta la politica della direzione dello
stabilimento Candy di Monza presentava aspetti paternalistici intrecciati ad episodi repressivi.
Il paternalismo si realizzava attraverso una particolare politica del personale, gestita non da
un ufficio apposito ma direttamente dal proprietario, che elargiva in modo unilaterale dei
benefici monetari (le «regalie») ed accordava avanzamenti a chi si faceva benvolere dai capi.
Inoltre, il proprietario era solito tenere assemblee nei reparti in cui esaltava la sua
concezione della fabbrica come una «grande famiglia» ed in cui operai e impiegati (di cultura
«deferente» tipica di una zona bianca, che non si incrinò almeno fino al 1965) interagivano
con discorsi di circostanza. La repressione si realizzava invece nei confronti dei pochi militanti
sindacali che non mantenevano il comportamento deferente voluto dalla cultura paternalista.
Queste persone venivano trasferite in reparti di confino, oppure venivano sospese o
addirittura licenziate. In generale, in fabbrica vigeva un clima di controllo e terrore, riservato
a tutti gli operai.
13
diffuso”, anche se questo assetto nasconde il fatto che una sola famiglia
controlli in realtà la gran parte delle azioni (es: Montecatini, aveva 54.599
azionisti nel 1946, però il 99,83% di loro possedeva poco meno del 70% dei
titoli, mentre lo 0,17% possedeva il 31,4%, ed era la parte “attiva e
deliberante”). Quindi si tratta di un capitalismo managerial-familiare, privo
del controllo esterno presente invece in altri paesi industrializzati. Le grandi
famiglie usano strumenti di controllo come le azioni privilegiate a voto
plurimo o le deleghe che i consiglieri affidano ai piccoli azionisti, i quali
agiscono per conto degli azionisti maggiori. Oppure si utilizzano le
partecipazioni incrociate interne e i controlli “a cascata”: «infatti tutte le
imprese considerate si articolavano in realtà in gruppi all’interno dei quali un
unico soggetto economico controllava una pluralità di soggetti giuridici»
[ibidem, p. 121]. In Italia gli azionisti fuori dal gruppo di comando vengono
considerati come “intrusi” da manipolare in Borsa e tenuti all’oscuro delle
condizioni della società, come dimostra il fatto che certe aziende non
fornissero neanche informazioni sul fatturato.
Non solo le imprese italiane cercano di limitare la diffusione della proprietà
delle azioni, ma cercano anche di liberarsi dal controllo delle banche,
attraverso la scarsa emissione di titoli azionari (siamo ancora negli anni
Cinquanta). Se nel dopoguerra determinate condizioni economiche (la forte
crescita del periodo del boom) e politiche (facilitazioni fiscali) fanno sì che la
grande impresa italiana possa autofinanziarsi, così non è per gli anni
successivi. Ciò che accade è allora il tentativo, poi riuscito, di controllo delle
grandi imprese sulle banche di credito minori e sulle compagnie di
assicurazione , in modo da poter sostenere i propri finanziamenti senza
l’ingerenza di un controllore esterno. Inoltre, esse cercano risorse anche
attraverso l’azionariato popolare ed operaio. Però non si tratta di alcuna
nuova politica aziendale: è semplicemente un modo per aumentare le
risorse: si pensi all’esempio degli operai della Montecatini che posseggono
solo il 4% delle azioni e che quindi non hanno voce in capitolo nel momento
in cui si prendono le decisioni [ibidem, p. 124 e seg.].
Le partecipazioni statali sono un altro elemento che carattrizza l’industria
negli anni Cinquanta. Il loro ruolo nel capitalismo italiano è di fondamentale
importanza, «tanto da indurre a definire “mista” – di mercato e Stato – la
nostra economia» [Barca e Trento 1997, p. 185]. Nel dopoguerra
l’intervento dello Stato nell’industria italiana concorre a stimolare
l’industrializzazione del paese, mentre in un secondo momento si assisterà
ad una crisi che proseguirà per trent’anni. Ma perchè le partecipazioni
statali hanno un ruolo così importante nel’economia del dopoguerra? Perchè
lo Stato possiede aziende sia direttamente che attraverso enti di gestione
(Iri ed Eni, prima di tutto). Il loro scopo non è quello di controllare
14
l’economia, ma di stimolare la creazione di una imprenditoria responsabile
anche attraverso la creazione delle condizioni economiche adatte [ibidem,
pp. 185-6]. Infatti, nel dopoguerra, il ruolo del controllo pubblico è quello di
separare proprietà e controllo, dato che sistema finanziario e bancario non
lo potevano assicurare [ibidem, p. 196], oltre a quello di fornire capitali e
capacità manageriali in un paese che non ne disponeva [Amatori e Colli
2003, p. 281]. Le aziende sotto controllo statale ottengono numerosi
successi, soprattutto di natura strategica: «Le aziende pubbliche dell’Iri e
dell’Eni offrono, nella siderurgia, nelle telecomunicazioni, nella rete
autostradale [...], nell’estrazione, nella raffinazione e nella distribuzione del
metano e del petrolio, nel credito, le strategie di sviluppo, le certezze di
approvvigionamento e di domanda, le reti, che segnano in questa fase
l’indutrializzazione del paese» [Barca e Trento 1997 p. 200]. Si compiono
importanti investimenti nel Meridione, si stringono alleanze internazionali, si
creano le infrastrutture necessarie all’industrializzazione del paese [Coltorti
1990, pp. 85-7]. Nel dopoguerra [Amatori e Colli 2003, p. 290] lo Stato
Imprenditore si sviluppa identificando i suoi scopi nello sviluppo economico
e all’inizio degli anni Settanta il sistema delle partecipazioni statali
raggiunge il momento di massima espansione. Al di là dei successi, bisogna
identificare i fattori del successivo declino del sistema delle partecipazioni
pubbliche. Amatori e Colli [2003, pp. 281 e seg.] ritengono che il motivo del
declino sia l’istituzione del Ministero per le partecipazioni Statali, avvenuta
nel 1956. Negli anni del dopoguerra, l’equilibrio e le coalizioni instauratosi
fra le maggiori forze politiche, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana
ed i suoi alleati (fra cui il Partito Socialista), origina uno spoil system in cui
chi ricopre incarichi di governo cerca di accaparrarsi quante più posizioni
strategiche possibili, anche all’interno delle amministrazioni delle imprese,
in modo da poter distribuire favori e risorse per mantenere il consenso
dell’elettorato. A questa logica risponde anche il Ministero per le
Partecipazioni statali, che ben presto smette di ricercare la creazione del
profitto economico delle aziende che gestisce, in favore del perseguimento a
breve termine della piena occupazione4. «Il significato dell’“architettura” del
sistema divenne esplicito con la crisi economica degli anni Settanta, quando
le imprese pubbliche si trovarono in una condizione di forte dipendenza
dalle risorse finanziarie erogate da Governo e Parlamento, naturalmente
controllati dai partiti5» [ibidem, p. 287].
4
Coltorti [1990, in Baldassarri 1990, pp. 78-89] a questo proposito indica che le imprese
pubbliche, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, smettono di rispondere al criterio di
economicità che, alla fine degli anni settanta comporta l’abbandono del quadro contabile di
riferimento per valutare i risultati dell’impresa, l’acquisizione sistematica di attività industriali
in crisi e l’erogazione di fondi alle imprese per coprirne i fabbisogni finanziari.
5
Il caso della fusione fra Montecatini e Edison, completata nel 1965, è stata definita come un
caso di perdita di opportunità per il capitalismo italiano, in parte dovuto alla scarsa
15
Concludendo, è possibile affermare che i fattori del declino del capitalismo
italiano alla finde degli anni Sessanta sono gli stessi che ne hanno decretato
l’ascesa: il permanere di una struttura proprietaria e gestionale unica, di
base prettamente familiare e con scarso controllo esterno, la gestione
paternalista delle aziende che ne consegue e il fallimento della gestione
statale delle aziende, che non persegue la logica del profitto ma solamente
quella clientelare. Inoltre permane il dualismo fra Nord e Sud in termini di
sviluppo capitalistico e qualità della vita.
1.1.3 La sindacalizzazione e le relazioni industriali fino alla
fine degli anni Sessanta
Come si è detto, la produzione industriale italiana fino alla fine degli anni
Sessanta è caratterizzata da un capitalismo di tipo paternalista, da una
gestione poco democratica e poco condivisa delle aziende e da un grande
controllo statale sul deteriminati tipi di produzione. In questo contesto,
come si strutturano le relazioni industriali e quali sono i tratti distintivi del
sindacalismo?
Secondo la visione di Accornero [1992, p. 50] fino agli anni Sessanta i
sindacati non hanno gran peso, sia in termini di immagine presso la base
rappresentativa che in termini di influenza politica e sul versante delle
rivendicazioni. A partire dalla fine degli anni Cinquanta la vita sindacale
italiana inizia ad essere meno dipendente dal sistema partitico e a
dipendere invece maggiormente dalle variazioni del ciclo economico, come
negli altri paesi industriali avanzati [Regalia, Regini e Reyneri 1977, p. 2].
Le grandi contestazioni e il processo evolutivo delle confederazioni sindacali
italiane scaturiscono fondamentalmente dalla percezione del divario
esistente fra le condizioni di vita dei lavoratori e la produzione industriale: in
particolare, ad un vivace aumento della produzione faceva da contrappeso
un lento miglioramento nelle possibilità di consumo ed una generale bassa
qualità della vita. Come riferisce Turone [1992, p. 346]:
«Le innovazioni tecnologiche importate dagli Stati Uniti per
razionalizzare l’organizzazione del lavoro in fabbrica determinarono un
oculatezza dell’intervento pubblico. Si ritenne che si potesse risollevare la Montecatini (una
grande azienda in crisi) immettendo la liquidità di cui disponeva invece l’Edison. Però il nuovo
management non aveva le competenze adatte alla direzione e lasciò le redini in mano ai
vecchi gestori. In questo modo si ebbe una duplicazione nelle posizioni e si trasportò il
conflitto che aveva contraddistinto l’antica concorrenza fra le due aziende all’interno della
nuova conglomerata. In questo modo si perse l’opportunità di creare un grande gruppo
competitivo internazionale nella chimica avanzata [Amadori 2003, pp. 265 e seg., Amatori e
Brioschi 1997, in Barca 1997, p. 117 e seg.].
16
aumento della produttività, ma […] anche uno sfruttamento maggiore
degli uomini. […] La struttura delle metropoli italiane offre, all’uscita
della fabbrica, nuovi motivi di logoramento, per i trasporti che
funzionano male rispetto alle distanze, per la scomodità delle abitazioni
operaie, per la densità degli agglomerati. Senza contare le occasioni,
quasi mai rifiutate, di “secondo lavoro”».
Secondo Baglioni [1998, p. 35] se in coincidenza del “miracolo economico”
le relazioni industriali iniziano il loro periodo di dinamicità, sarà subito dopo,
con le recessioni e le politiche monetarie restrittive e le strette creditizie che
segneranno una battuta di arresto. In concomitanza con le crisi economiche,
si registrano infatti i momenti di più accesa conflittualità, sorte in seguito
alle tensioni inflazionistiche di cui soffre il lavoro salariato. Nel 1962 si
segnala un picco di ore di sciopero6, soprattutto a causa della vertenza
aperta per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, a cui si uniscono in
un secondo momento gli edili, soprattutto nel Meridione. Il rinnovo del
contratto dei metalmeccanici siglato fra il 1962 e il 1963, oltre ad un
aumento nelle retribuzioni che la Fiom stimava essere del 15%, ottenne la
legittimazione della contrattazione aziendale, anche se non ancora dei
contratti “integrativi”, bensì ancora “applicativi”: i rappresentanti dei
lavoratori avrebbero quindi potuto scegliere le modalità di applicazione del
contratto nazionale all’interno dell’azienda, senza però poter contrattare
ulteriori miglioramenti. [Turone 1992, pp. 194-5]7. Con la crisi economica
del 1964-65, l’occupazione subisce un drastico ridimensionamento (i
metalmeccanici scendono di 100.000 unità, i tessili di 60.000 e gli edili di
150.000) ed anche gli investimenti si arrestano del 20% nel 1964. In
questo periodo gli scioperi diminuiscono anch’essi drasticamente,
dimezzando il loro peso rispetto al 1962, riprendendo poi nel 1965 in
coincidenza con la nuova ascesa dell’occupazione.
I temi di rivendicazione dei primi anni Sessanta sono molto limitati e quasi
esclusivamente relativi al premio di produzione, ma ben presto il sindacato
sente la necessità di occuparsi di temi sociali di più ampia portata rispetto a
quelli del lavoro (come era nella tradizione cattolica della Cisl) che sfocerà,
negli anni seguenti, nel dibattito sulla necessità della compartecipazione del
sindacato nelle scelte di politica economica dello stato di cui parleremo più
avanti. Durante la stagione di rinnovi del 1965 alcune categorie ottengono
riduzioni di orario, maggiori scatti di anzianità e in alcuni casi la
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Si arrivò a 181 milioni di ore, contro le 79 dell’anno precedente, quota che si sarebbe
superata solo nel 1969 [Turone 1992, p. 286].
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La conflittualità venne acuita dal fatto che in un primo momento si firmò un contratto con il
settore pubblico (Intersind, 20 dicembre 1962) che però la Confindustria fino a sette mesi
dopo (8 febbraio 1963) si rifiutò di sottoscrivere [ibidem].
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contrattazione integrativa a livello aziendale. La piattaforma unitaria per il
rinnovo del contratto dei metalmeccanici del 1965 richiede l’estensione della
contrattazione anche a livello aziendale, diritti sindacali, parità normativa
tra operai e impiegati, riduzione dell’orario di lavoro e modifica delle tabelle
salariali [ibidem, pp. 305-24]. Altri momenti di accesa conflittualità si
verificano nel corso del 1968 e all’inizio del 1969, quando, in concomitanza
con la protesta degli studenti, si proclamano alcuni scioperi generali per
l’avvallo della riforma delle pensioni e per l’abbattimento del sistema delle
“gabbie salariali” [ibidem, pp. 357-65].
La ripresa dell’attività sindacale viene favorita anche dall’avvento di governi
di centro-sinistra, che mitigano gli atteggiamenti apertamente ostili avuti
fino ad allora dalle organizzazioni padronali, le quali, nel periodo
considerato, iniziano ad avere un atteggiamento abbastanza passivo
[Baglioni 1998, pp. 36-7]. Durante il ciclo di lotte che va dal 1968 al ’73 lo
Stato spesso si schiera dalla parte dei sindacati, non da ultimo con
l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori nel 1970.
Gli anni Sessanta sono caratterizzati da due dibattiti interni ai sindacati fra
loro intrecciati: quello relativo all’eventualità di un loro coinvolgimento nelle
scelte di programmazione economica dello Stato, e quello sull’opportunità
dell’unificazione della loro azione. L’esigenza dell’unificazione dell’azione
delle tre grandi confederazioni, all’inizio solo puntuale e trainata dalle
esperienze delle federazioni metalmeccaniche e condivisa dalle componenti
socialiste e riformiste delle tre confederazioni, diviene sempre più
stringente. Essa si basa sulla considerazione che per mettere in atto una
linea riformista, sia necessario rappresentare i lavoratori non solo in
azienda, ma nelle più ampie strutture di rappresentanza democratica, in un
contesto di cambiamento economico interno ed internazionale. La crisi
economica del 1964-65 è considerata in genere lo spartiacque fra la fase di
unità di azione sindacale occasionale e quella invece più sistematica, in vista
di una futura convergenza unitaria [Turone 1992, pp. 259-73]. Negli anni
Settanta il sindacato sarà ormai considerato un interlocutore naturale nella
discussione delle politiche pubbliche [Baglioni 1998, p. 37]. Oltre al
cammino verso l’unità è da segnalare il progressivo distaccamento dei
sindacati dalla loro base partitica, attraverso il processo di assegnazione di
incompatibilità fra le cariche di quadro sindacale e di quadro di partito o
eletto, con l’obiettivo di recuperare il rapporto con la base di lavoratori
rappresentati in fabbrica. L’incrinatura nella rappresentatività sarà messa a
nudo dall’emergere, a partire dal 1968, dei Comitati di Base, che riescono a
mobilitare la base operaia in numerose lotte aziendali, scioperi ed
assemblee, in aperta opposizione a Cgil, Cisl e Uil ma che non arrivano mai
a proporsi come movimento organico alternativo ai sindacati confederali.