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CAPITOLO 1 
 
L’indicibilità della Shoah. 
 
Shoah / non Olocausto. 
La Shoah come evento storico e umano ha comportato, nel corso 
degli anni, diversi studi e riflessioni, da parte di studiosi, ebrei e non, critici, 
letterati, storiografi, testimoni, sopravvissuti, ma, anche, registi 
cinematografici, televisivi e teatrali, che si sono posti il problema di mostrare 
l’“indicibile” e l’orrore dello sterminio. Prima di analizzare il comportamento 
della produzione cinematografica, mondiale e, in particolare, quella italiana, 
nell’affrontare l’argomento Shoah, è necessario spiegare cosa significa il 
termine e per quale motivo è utilizzato al posto di Olocausto. 
Partiamo, innanzi tutto, dalla considerazione che, secondo il pensiero 
ebraico, non si può dare un senso ad un fatto che per definizione non può 
averne. Olocausto è un termine che deriva dal greco holòkauston: tutto 
bruciato, e indicava il sacrificio della vittima, che era completamente 
bruciata. Per estensione, in seguito, passò ad indicare un sacrificio totale, 
un’immolazione con riferimento ai martiri della fede cristiana. Nella Bibbia, 
specificatamente nel Levitico, I, 9, è detto: “[…] questo olocausto sarà un 
cibo consumato in onore della riconciliazione per Dio”, sarebbe quindi un 
sacrificio offerto con gioia e applicarlo per lo sterminio sarebbe immorale. 
Gli Ebrei, invece, utilizzano un eufemismo ŝo’ah, che significa 
“devastazione, catastrofe” e il termine è usato per toglierne ogni connotazione 
religiosa e per indicare il sacrificio degli Ebrei a causa della persecuzione 
nazista. 
Shoah, quindi, è la parola che consideriamo più “politicamente 
corretta” e che utilizzeremo, d’ora in avanti, per indicare il genocidio razziale 
degli ebrei da parte dei nazisti, negli anni che vanno dal 1933 al 1945. 
Elie Wiesel disse: “Se non siamo in grado di capire fino in fondo le 
ragioni degli orrori del nazismo, è importante conservarne il ricordo e la 
coscienza.”, e ancora “ Auschwitz resiste agli sforzi dell’immaginazione e 
 3
della percezione; si sottomette solo al ricordo.[…] Tra i morti e noi che 
restiamo c’è un abisso e non esiste un talento capace di penetrarlo.”.  
Molti storici o critici ritengono sia necessario ricordare la Shoah, 
riflettere, porsi delle domande e cercare di trovare delle risposte, analizzare, 
parlarne purchè se ne parli perché un evento così tragico non può, non deve 
essere dimenticato. 
Se non lo fanno il cinema e la letteratura, in particolare quelle 
ebraiche, perché gli ebrei stessi vivono nell’eterno conflitto se mostrarsi (ma 
non troppo) o nascondersi dietro mille maschere; lo deve necessariamente 
fare qualcun altro, poiché l’argomento Shoah è ancora attuale, soprattutto ora, 
dopo sessant’anni dalla sua realizzazione, innanzi tutto perché i superstiti (e i 
pochi che restano oggi) testimoniano affinché la storia non si ripeta. 
Nel corso degli anni, infatti, sempre più si ricorda questo tragico 
evento con commemorazioni, monumenti, testimonianze e “giorni della 
memoria”, tuttavia, anche, la letteratura e il cinema svolgono un ruolo 
fondamentale. In particolare, il cinema sembra essere il mezzo più 
appropriato per mobilitare le coscienze e per dare importanza alla memoria, 
perchè ha un impatto visivo ed emozionale più accentuato sul vasto pubblico. 
Resteranno sempre delle domande o dei dubbi sulla Shoah, ma 
innanzi tutto che ne sarà dei milioni di ebrei vittime dello sterminio se, una 
volta che non ci saranno più i testimoni, la loro storia sarà destinata al 
silenzio? O se, invece, il troppo parlarne produrrà il contrario, cioè la 
relegherà nella zona dell’immaginabile e la renderà un evento totalitario 
terrificante? Prima di tentare di dare una risposta, riportando come esempio la 
cinematografia mondiale che ha affrontato lo sterminio degli Ebrei, vedremo 
perché la Shoah e il cinema sono simili essendo entrambi, su piani diversi, 
due manifestazioni della modernità. 
L’Olocausto potrebbe essere molto più di un’aberrazione, più di una 
deviazione dal corpo sano della società civilizzata o ancora più di un’antitesi 
della civiltà moderna e di tutto ciò che essa rappresenta.
1
 
Alcuni ritengono che la Shoah possa aver rivelato un diverso volto di 
quella stessa società moderna in cui noi viviamo e quindi una delle paure più 
                                                 
1
 Zygmunt Bauman, Modernità ed Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1989,  p.25 
 4
grandi è che un evento così possa ripetersi poiché prodotto della modernità: 
ogni suo “ingrediente”, infatti, era normale, faceva parte della nostra civiltà. 
 
Solitamente, la Shoah è vista come un triste esempio 
dell’aggressività umana o come un’esperienza “privata” degli ebrei, una 
questione tra quest’ultimi e i loro persecutori, divenuti successivamente 
carnefici. 
Il cinema, invece, è visto come prodotto della società perché è la 
sintesi di tutte le arti esistenti: pittura, fotografia, letteratura, musica e, quindi, 
rispetto ad esse offre una visione del mondo più completa e veritiera, ma, allo 
stesso tempo, diversa. Fin dai suoi esordi, il cinema rivela le sue 
caratteristiche, tra le più importanti quelle di rispecchiare e riprodurre la 
realtà, ed è definito e accettato come la forma comunicativa ed espressiva più 
rilevante dell’ultimo secolo. Ricordiamo, per sottolineare l’importanza di 
questa nuova “forza” nella società e della sua funzione di veicolo della 
memoria, le parole di Claude Lelouch (presidente dell’associazione francese 
dei registi e produttori, ARP), il quale disse: “Il mondo ha iniziato ad avere 
una sua memoria da non più di cent’anni, dall’invenzione del cinema. Prima 
il mondo intero poteva imbrogliare perché sommando la scultura, la pittura e 
la musica non è dato conoscere la realtà dei fatti storici”. 
2
 
Lo spazio immaginario prodotto dal cinema faceva eco alla 
trasformazione fantasmatica prodotta dalla “flânerie” baudelairiana, che era 
riuscita a dar voce alla metropoli, allo spazio urbano e ai contrasti sociali. 
Con il cinema, quindi, cambia il modo di guardare, anzi non c’è solo la 
volontà di vedere tutto e cose diverse, ma anche vederle in modo diverso, vi è 
un continuo rapportarsi al mondo. Questo nuovo visibile, che sempre più si è 
esteso e approfondito, trova, spesso, consonanze e convergenze con varie 
forme del moderno ed è anche per questo motivo che il cinema si è posto 
come una forma ed un’espressione della modernità. 
Il nuovo mezzo espressivo, inoltre, diviene innanzi tutto veicolo di 
ideologia, perché fornisce gli strumenti affinché una collettività si riconosca 
attorno ad un’immagine- o immaginario- comune. E ancora, il cinema come 
                                                 
2
  Eyan Sivan, Memoria, archivi. Gli archivi della memoria in a cura di Francesco Monicelli e 
Franco Saletti, Il racconto della catastrofe, Cierre, Verona, 1998, p.35. 
 5
interprete e testimone delle vicende storiche, che sono ricostruite o rese 
visibili nel loro svolgimento. Questa duplice funzione, vale a dire fonte e 
agente di storia, diviene importante quando si parla di Shoah perché il mezzo 
cinematografico serve appunto per trasmettere la memoria e conoscere la 
realtà, anche se spesso adotta il racconto finzionale, che in ogni caso ha peso 
di testimonianza. 
Con il cinema si realizza per cui uno dei componenti del sogno 
totalitario: il dominio assoluto del tempo e, dunque, della storia e, attraverso 
l’inquadratura, vero fondamento dell’immagine, il mondo è mostrato dal 
punto di vista soggettivo e su di esso si compie uno sguardo censurato (cui va 
aggiunta la censura del montaggio); ma allo stesso tempo, l’immagine è 
conservazione di verità.  
Inseriamo a conferma del fatto che il cinema è manifestazione della 
modernità, le parole di Andrè Malraux
3
, il quale afferma che il cinema è 
un’arte, ma anche un’industria, perché deve portare profitti, chi investe in 
esso deve assumersi la responsabilità che il suo prodotto venda e piaccia al 
pubblico. 
Il cinema della Shoah, però, trattando un argomento rischioso, 
almeno fino agli anni novanta conta solo circa duecento film, prodotti per lo 
più dalla cinematografia di “propaganda ideologica” dei paesi comunisti. I 
diversi Stati coinvolti nella guerra, infatti, fino agli anni sessanta o non 
volevano attribuire la colpa dell’evento alla Germania oppure, come in Italia, 
erano dominati dal classico antisemitismo di matrice cattolica. 
Tutto ciò comportò una difficoltà maggiore per la realizzazione di 
pellicole riguardanti la Shoah, ma allo stesso tempo, fu una “sfida” che il 
cinema accettò per rendere visibile l’orrore, l’indicibile. Infatti, dal 1985, il 
numero delle pellicole sullo sterminio, che viene trattato da diversi generi 
cinematografici, crebbe notevolmente: in soli dieci anni vennero prodotti 
1194 film, sottolineando in questo modo il crescente interesse per 
l’argomento. 
                                                 
3
 Marcello Pezzetti, Rappresentare la Shoah, trasmetterne la memoria, in Francesco Monicelli e 
Carlo Saletti (a cura di) Il Racconto della catastrofe. Il cinema di fronte ad Auschwitz,  , Cierre, 
Verona, 1998, p.31 
 6
Il rischio più grande è, tuttavia, che, proprio attraverso tali immagini 
cinematografiche, vi sia una “banalizzazione del male” oppure che il proporle 
continuamente provochi una sorta di rifiuto, negazione dello sterminio in 
quanto fatto storico e umano. 
 
Il campo di concentramento.  
Gli ebrei adottarono un atteggiamento di “wishful thinking”, secondo 
Roul Hilberg, cioè si convinsero di poter sopravvivere, avevano pagato per 
ottenere protezione e avevano cercato in ogni modo la loro salvezza perché il 
loro scopo non era la vittoria contro la Germania, come, invece, auspicavano i 
diversi stati non alleati coinvolti nella Seconda Guerra Mondiale. Loro unico 
obiettivo era salvare l’onore ebraico e la stessa vita. Diversi storici ebrei, così 
come pure i sopravvissuti, dissero poi che il solo fatto di opporre un’azione 
sociale, come il mutuo soccorso o scuole clandestine, era un modo per 
rimanere vivi e resistere al nazismo. 
Ma come potevano sopravvivere a questo disegno burocratico e 
umano perfettamente organizzato, finalizzato allo sterminio di milioni di vite 
umane (circa sei, nel caso degli ebrei)? 
Il razzismo nazista e i suoi profeti, ad esempio Rosenberg e 
Goebbels, paragonarono, fin da subito, la razza ebraica (inferiore rispetto a 
quella “ariana”) ad una malattia che andava estirpata dal corpo sano, 
processo, tuttavia, assolutamente improponibile, poiché non andava 
semplicemente convertita al nuovo ordine o fatta emigrare, bisognava 
distruggerla. Hitler aveva così ordinato, i suoi discorsi, senza tante ironie e 
sottigliezze mostrarono bene qual era l’immagine dell’ebreo che doveva 
essere impressa nelle menti delle persone. E, quasi fin dall’inizio, si capì che 
l’agghiacciante sorte degli ebrei avrebbe avuto poche possibilità di salvezza, 
anche se spesso capitava che, attraverso la deportazione graduale, taluni 
pensassero che fosse sufficiente sacrificare la vita solo di alcuni per salvarne 
poi molti, e che non ci fosse una situazione di pericolo così preoccupante. Il 
pensiero di molti può essere ben riassunto da questa frase (probabilmente 
 7
pronunciata da qualche sopravvissuto ai campi): “Con cento vittime posso 
salvare mille persone. Con mille posso salvarne diecimila”.
4
 
La cooperazione con i propri nemici da parte degli Ebrei, dopo 
essere già stati isolati psicologicamente e fisicamente dal resto del mondo, fu 
guidata, quindi, dalla razionalità, perché spinti, in primo luogo, da un intento 
di sopravvivenza razionalmente interpretato: essi fecero il gioco dei loro 
oppressori, facilitarono il loro compito, avvicinarono la propria fine. 
La Shoah ha messo in luce, in tal modo, la capacità del potere 
moderno, razionale, burocraticamente organizzato, di promuovere azioni che 
sono funzionalmente indispensabili ai propri scopi, sebbene si trovino in 
contrasto con gli interessi vitali degli attori. 
5
 
Ciò fu possibile perché la macchina nazista era perfettamente e 
spietatamente organizzata: ogni cosa avvenne sotto gli occhi del mondo intero 
ma denominata in modo diverso per ingannarlo, ad esempio la deportazione 
delle vittime verso le camere a gas prese il nome di trasferimento e i campi di 
sterminio erano designati con il termine vago di “Est”. Tutte le atrocità erano 
mantenute segrete, anche se in realtà, allora, si era consapevoli che vittime 
innocenti stavano morendo; ma faceva parte del gioco, della guerra, della 
razionalità e lucidità del disegno hitleriano. Inutile opporvisi e, in ogni modo, 
quando ci si rese conto di cosa stava accadendo, era ormai troppo tardi. 
Il processo di distruzione trovò nei campi di concentramento il luogo 
per la propria realizzazione: all’inizio della guerra erano cinque o sei, poi ne 
sorsero a decine, quasi tutti nel territorio occupato della Polonia. I prigionieri 
erano immatricolati con un numero tatuato sull’avambraccio e così gli ebrei 
cessavano di essere persone con un nome, un cognome e divenivano semplici 
numeri da catalogare. Alcune categorie erano contraddistinte da speciali 
distintivi di riconoscimento: triangolo rosso per i politici, verde per i 
delinquenti comuni, nero per le prostitute, violetto per i preti, rosa per gli 
omosessuali e, infine, la stella di David per gli ebrei. Il più grande campo di 
concentramento in Polonia fu quello di Aushwitz (Oswiecim), il comandante 
era Höss, la pianificazione e l'ampliamento furono affidati alle SS. Il lavoro 
                                                 
 4
 Roul Hilberg,La distruzione degli ebrei d'Europa,  a cura di F. Sessi, Einaudi, Torino, 1995, 
pag.1024. 
5
 Zygmunt Bauman, Modernità ed Olocausto, Il Mulino, Bologna, 1989, p.173 
 8
forzato fu uno dei principali mezzi di cui si servì la macchina bellica tedesca 
per sostituire i cittadini del Reich in armi e mantenere la produzione 
industriale. Tutto era perfettamente organizzato, ricordiamolo ancora. 
Il mondo si trovò, quindi, diviso in carnefici, vittime e spettatori 
(come sosteneva Roul Hilberg), quest’ultimi, come abbiamo già visto, si 
trovano in parte coinvolti nel processo, fatta eccezione per qualche persona 
che ha cercato di salvare gli ebrei, ad esempio Oskar Schindler e l’italiano 
Perlasca. 
Facendo l’analisi della vita nei campi di concentramento riprodotta 
dalle immagini cinematografiche di tutto il mondo, da “Notte e nebbia”, 
“Kapò”, “Shindler’s list”, “La tregua” a “La vita è bella”, potremmo 
affermare che esiste un vero e proprio “genere campo di concentramento”. Al 
suo interno vi troviamo la riproduzione di topos, che nella tragica realtà del 
campo assumono un particolare valore: la sofferenza, la paura, la solidarietà, 
la gioia di essere liberati, la guerra, la solitudine e, infine, il campo di 
concentramento e di sterminio (ovviamente). Sono riprodotte, pure, delle 
figure stereotipo: vittime –soprattutto ebrei, ma anche malati di mente, 
prigionieri politici, criminali, zingari, omosessuali-; carnefici –i nazisti in 
primo luogo -; spettatori –inteso sia come coloro che guardavano ciò che 
accadeva, sia lo spettatore cinematografico. Le prime due categorie, 
soprattutto, troveranno ampio spazio, o forse è meglio dire una sorta di 
riscatto, nella letteratura e nel cinema, come se la possibilità per loro di dire 
ciò che accadeva fosse un modo per avvertire il mondo intero che la Shoah 
non va dimenticata, perché può avvenire in ogni momento. 
 
 9
 
  Il testimone. 
Ciò che è accaduto nei campi è per i superstiti, la maggior parte poi 
divenuti testimoni, come l’unica cosa vera e da una parte indimenticabile, 
dall’altra quella realtà è talmente inimmaginabile, ma allo stesso tempo reale, 
da essere addirittura difficile da raccontare. 
Nel campo, una delle ragioni che spinsero i deportati a sopravvivere 
è diventare un testimone, anche se molti non ne parlano mai, credendo magari 
di dimenticare. Secondo molti, la Shoah è un evento senza testimoni nel 
duplice senso che di essa è impossibile testimoniare tanto dall’interno- perché 
non si può testimoniare dall’interno della morte- quanto dall’esterno- perché 
chi è fuori è escluso per definizione dall’evento. 
 Tuttavia, soprattutto grazie alle testimonianze, sia scritte sia, in 
particolare, audiovisive, è stato possibile far conoscere al pubblico l’universo 
concentrazionario e raccontare ciò che appariva ed appare tuttora “indicibile”.  
Uno dei primi testimoni sopravvissuti all’esperienza dei campi che 
ebbe il “coraggio” di parlarne fin da subito, fu Primo Levi, il quale 
ripetutamente nei suoi libri dice: “Potevo sentirmi in colpa per essere 
sopravvissuto, non per avere testimoniato”. 
 Il senso di colpa dei sopravvissuti è un tema ricorrente della 
letteratura dei campi perché, sostanzialmente, chi è vivo pensa di esserlo, 
poiché un’altra persona è morta al suo posto. Per molti, tuttavia, vivere 
significa sopravvivere e, nel contesto dei campi, la sopravvivenza è 
fondamentale per divenire voce di chi non c’è più.
6
 
In latino ci sono due parole utilizzate per dire testimone: 
1) Testis, che significa etimologicamente chi si pone come terza 
persona in una lite fra due o in un processo. 
2) Supertestes, che indica colui che ha vissuto qualcosa o un evento 
fino alla fine e può rendere testimonianza.
7 
 
In greco il termine testimone, invece, si dice martis, martire, usato 
per la prima volta dai Padri della Chiesa per indicare la morte dei cristiani 
                                                 
6
 Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, 
Torino, 1995, p. 82.
 
 
7
  Ibidem, p.10 
 
 
 10
perseguitati, che così testimoniavano della loro fede. Ovviamente ciò che 
avvenne nei campi non c’entra propriamente con il martirio, se non per il 
collegamento con lo stesso termine greco, che deriva da un verbo che 
significa ricordare. E il superstite ha la vocazione della memoria, non può non 
ricordare. Prendiamo come esempio la citazione di Roberto Della Rocca, 
direttore Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità 
Ebraiche Italiane, che dice “la Tradizione ebraica è caratterizzata 
dall’imperativo categorico zachor, ricorda.”. 
“Noi ebrei- scriveva a tal proposito Martin Buber nel 1938- siamo 
una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha 
permesso di sopravvivere…”. 
Nel contesto estremo dei campi, la sopravvivenza è fondamentale 
per poi testimoniare per coloro che non possono. A questa categoria 
appartengono sì i milioni di ebrei, zingari, politici, omosessuali etc. ma in 
particolar modo si fa riferimento a coloro che non hanno testimoniato in alcun 
modo, né avrebbero potuto farlo: i musulmani, i sommersi, che sono la figura 
limite dei campi. Essi non hanno storia, né volto e tanto meno pensiero, non si 
può parlare nemmeno di vivi. Il termine che deriva dall’arabo muslim 
significa colui che si sottrae incondizionatamente alla volontà di Dio, ma 
nello specifico dei campi di concentramento assume, chiaramente, un altro 
significato.  I superstiti testimoniano in tal modo anche per loro poichè questi 
avevano perduto ogni dignità e volontà e quindi non erano in grado di 
trasmettere alcuna memoria. 
Tutte le testimonianze raccolte nel corso degli anni provengono sia 
dalle vittime, che dai carnefici; in ogni caso persone comuni, che dimostrano 
quanto sia difficile capire la mente di un uomo “comune” ancor più di quella 
di un folle e come la Shoah, a suo modo, possa essere banale. Si creò in tal 
modo un nuovo tipo di criminale, che compì la maggior parte delle sue azioni 
inconsapevolmente perché obbediva a degli ordini e molto spesso ignorava 
che vi fosse il progetto della “soluzione finale”. 
L'esempio più eclatante di questa “nuova” figura è stato Eichmann, 
capo della sottosezione IV-D-4 dell'RSHA (Ufficio centrale per la sicurezza 
del Reich), che si occupava di “emigrazione, evacuazione”. Processato a 
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Gerusalemme nel 1961, dopo averlo trovato sotto falso nome in Argentina, 
Otto Adolf Eichmann più volte nega di aver fatto del male personalmente agli 
ebrei, anzi spesso neanche sapeva cosa gli veniva fatto. (...) Egli obbediva 
agli ordini, non poteva e non voleva opporsi e aveva un'opinione di Hitler 
molto buona. Disse, infatti: “Hitler avrà anche sbagliato su tutta la linea, ma 
fu un uomo capace di farsi strada e salire dal grado di caporale dell'esercito 
tedesco al rango di Fürher di una nazione di quasi ottanta milioni di 
persone... Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo 
sottostargli.”
8 
Ci si pose, al tempo del processo, la domanda se Eichmann avesse 
una coscienza oppure no, la risposta viene fornita direttamente dall'imputato 
affermando che obbediva solo a degli ordini (spesso la sua testimonianza è 
confusa o interrotta da pause di silenzio), quindi ciò che fece personalmente o 
ordinò di eseguire non veniva direttamente da lui. Sembra impossibile che un 
uomo, in un certo senso, abbia dimenticato e, o rinnegato quelle realtà in 
apparenza così lontane, eppure è quasi successo poichè Eichmann si sentiva 
colpevole non davanti al mondo intero o alle vittime, ma solo di fronte a Dio 
(e allo stato tedesco, che, ormai scomparso, aveva tradito comunque con la 
sua testimonianza). Il processo Eichmann contro lo Stato d’Israele avvenne 
nel 1961, un anno di particolare importanza perché in seguito a quest’evento 
si comincia a conoscere la dura realtà dei campi, si cerca di capire, di vedere 
con occhi diversi: la Shoah non è più un semplice, crudele fatto storico.  
Gli ex-deportati finalmente vengono ascoltati, mentre negli anni 
successivi alla guerra era difficile anche per i familiari accettare simili 
racconti. Questa nuova necessità, scaturita dall’interesse non più 
esclusivamente storico, trova nell’espressione cinematografica un mezzo 
appropriato per trasmettere la “memoria collettiva dei campi”, perché, 
ovviamente, ha un impatto emozionale sul pubblico molto forte.  
                                                 
8
 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1993 
 12
 
  Espressività o indicibilità.            
La Shoah è uno dei soggetti più difficilmente rappresentabili nella 
storia del cinema, innanzi tutto per la mancanza di espressioni linguistiche 
che potessero descriverne la tragica unicità e illustrare la volontà di 
perfezione del perverso progetto della “soluzione finale”. Quando se ne parla, 
tuttavia, ci si pone delle inevitabili domande: è lecito trasformare l’orrore e la 
sofferenza in spettacolo? Si vuole in questo modo smobilitare le coscienze o 
semplicemente informare? 
Girare un film vuol dire mostrare delle cose, degli eventi e, allo 
stesso tempo, mostrarli da un determinato punto di vista, molto spesso dovuto 
a particolari scelte registiche (stilistiche), e quindi dargli un senso e offrirne 
un’interpretazione. L’utilizzazione dell’immagine e la sua manipolazione 
attraverso il montaggio, quindi, offrono una visione particolare del mondo, 
che è allo stesso tempo oggettiva e soggettiva.  
Quella che è stata una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo, 
se non la più vasta per quanto riguarda il numero di morti nell’arco di pochi 
anni, è materia narrativa, linguistica dalla dolorosità forte, dalla memoria viva 
che necessariamente deve essere raccontata. 
E’ difficile tuttavia creare un’opera cinematografica che possa 
restituire una visione equilibrata e concreta della Shoah perché è stata una 
tragedia che andava oltre la logica e, forse, non bastano le parole e le 
immagini da sole a dargli un senso. Secondo molti, in realtà le riproduzioni 
fotografiche o cinematografiche sarebbero sufficienti ad illustrare l’orrore, la 
paura, la finzione, l’atrocità, la negazione e tutti gli altri sentimenti connessi, 
ma ad esse è necessario, il più delle volte, associare le parole per cercare di 
dare un senso a ciò che viene mostrato, anche se, come ricorda Elie Wiesel, 
difficilmente la Shoah può essere raccontata con le parole. 
 Ma allora come può essere mostrata? Fin da subito, quindi, si pone 
la “questione della rappresentazione” di un evento così inimmaginabile, e allo 
stesso tempo, sono messi in luce i limiti e le difficoltà dell’arte 
cinematografica quando deve riprodurre la realtà, in questo caso quella 
specifica della morte collettiva prodotta dal sistema concentrazionario. Si 
seguono sostanzialmente due vie per riprodurre, o perlomeno cercare di 
evocare la Shoah: il documentario e il cinema di fiction, che hanno come 
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scopo primario quello di documentare e dare forma alle tracce della 
catastrofe. 
Da una parte abbiamo, a partire dal 1945, i reportage fotografici e 
cinematografici che fanno scoprire a tutti gli orrori della macchina nazista, 
anche se mancano proprio le immagini del periodo del genocidio e della 
persecuzione. Tutto ciò che a noi è giunto è costituito da immagini d’archivio 
girate dagli stessi nazisti, con l’obiettivo di giustificare la lotta antiebraica e 
confermare l’immagine stereotipata dell’ebreo, o girate dagli Alleati per far 
vedere al mondo intero ciò che non aveva mai voluto vedere: l’orrore 
assoluto. Questi primi documentari sulle liberazioni dei campi di 
concentramento nazisti hanno come obiettivo fondamentale il fatto che 
nessuno potesse mettere in discussione la veridicità delle immagini e, di 
conseguenza, dell’accaduto. Per questo, spesso, si utilizzarono campi lunghi e 
panoramiche senza montaggio, come ad esempio nel film Bergen Belsen 
Liberation di Brian Blake, 1945, alla cui realizzazione partecipò pure Alfred 
Hitchcock, proiettato per la prima volta nel 1985 con il titolo A painful 
reminder. Qui, tutte le informazioni che noi crediamo di ricavare dalle 
immagini vengono invece fornite dal commento, registrato sia in studio sia 
sul luogo. Comprendiamo, allora, che la scelta degli Alleati fu, inizialmente, 
quella di nascondere la Shoah, soprattutto perché la presenza degli Ebrei era 
minima e perché non si voleva far credere di aver combattuto una “guerra 
ebrea”, per non “urtare” la sensibilità delle popolazioni liberate, il cui 
antisemitismo era considerato un fatto assolutamente “naturale”.
9
 
Dall’altra parte, abbiamo la cinematografia del primo dopoguerra, 
che si allontana dallo scopo di mostrare le prove schiaccianti da esibire 
durante i processi contro i crimini nazisti, perché è più dedita alla 
rappresentazione delle “macerie” dell’Europa colpita dalla guerra e da 
ricostruire totalmente. Di conseguenza, questo tipo di cinema tradisce le 
aspettative perché non viene mostrata in nessun modo la Shoah, a parte 
qualche raro caso, e le vittime rappresentate o evocate non sono appartenenti 
                                                 
9
 Marcello Pezzetti, Rappresentare la Shoah, trasmetterne la memoria, in (a cura di) Francesco 
Monicelli e Carlo Saletti, Il racconto della catastrofe. Il cinema di fronte ad Auschwitz , Cierre, 
Verona, 1998, p.30 
 14
al popolo ebraico, e se ciò avviene non si fa riferimento al vissuto ebraico dei 
protagonisti, né alle procedure della loro messa a morte.
10
  
La fiction, tuttavia, è considerata da molti come una possibile via per 
dare voce e forma all’“indicibile” e per mostrare con lo scopo principale di 
non dimenticare, anche se, fin dalle prime pellicole, appaiono i suoi limiti: 
cioè la tendenza a “romanzare” la realtà e a semplificarla, fino al rischio di 
scadere nel kitsch.
 
 
Il primo film sull’universo concentrazionario è L’ultima tappa di 
Wanda Jakubowska, girato nel 1947, diviso in due parti: la prima di tipo 
documentaristico, la seconda di tipo narrativo romanzesco. Sebbene ci fossero 
degli “errori”, come ad esempio la bella cera delle attrici, il film ottenne un 
enorme successo di pubblico e, per la prima volta, il cinema di finzione mette 
alla prova le proprie capacità tecniche, narrative e linguistiche nell’affrontare 
lo sterminio, processo che troverà il suo completamento con Shindler’s List 
(1993). 
L'eccesso emozionale di questi primi documenti ha posto diverse 
riflessioni sulla riproducibilità delle immagini della morte, dell’orrore, della 
paura che ha colpito un popolo, gli Ebrei, che proprio con l’immagine ha un 
rapporto particolare: mostrarsi per affermare la propria identità o nascondersi 
per non essere giudicati e sentirsi colpevoli? 
 L’atteggiamento ebraico tipico nei confronti della Shoah vuole 
salvaguardare la realtà storica degli eventi, per non farli dimenticare e 
soprattutto per rendere giustizia alle vittime di quest’immane tragedia e le 
immagini cinematografiche servono appunto a questo scopo: rendono 
“immortali” gli eventi e persuadono lo spettatore, che si trova coinvolto 
emotivamente. Il film, allora, non solo sostegno di una storia d’eventi, ma un 
indispensabile supporto per la storia, sia quando è ricostruita (cinema come 
interpretazione) sia quando diviene specchio dei tempi (cinema come 
documento). 
                                                 
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 Marcello Pezzetti, La rappresentazione della Shoah nel cinema europeo del primo dopoguerra 
(1945-1969), in (a cura di) Alessandra Chiappano e Fabio Minazzi  Il presente ha un cuore 
antico, Edizioni Thélema, Milano, 2003, p.167 
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 Un atteggiamento simile della comunità, contrario alla negazione 
assoluta di quanto accaduto, è il parlare continuamente della Shoah: non 
importa come purché se ne parli, anche se ciò vuol dire, magari rischiando di 
non essere compresi, dare un senso ad un evento che in realtà non ne ha, o 
lanciare un messaggio alle generazioni future affinché tutto ciò non si ripeta. 
I sopravvissuti, infatti, dicono: “Noi non ci vergogniamo di tenere 
fisso lo sguardo nell’inenarrabile”.
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 E' proprio con il cinema, visto come ripresentazione del reale e allo 
stesso tempo immaginario, secondo le teorie cinematografiche sviluppatesi 
dopo il 1945, che si vogliono mobilitare le coscienze e portare il gran 
pubblico, in particolar modo i giovani, non solo a riflettere, ma ad 
approfondire determinati argomenti. 
Dagli anni sessanta, quando la verità sui campi era ormai nota e 
l’attenzione su questa tragedia non era più solo storica, l’intento divenne 
quello di raccogliere e “mostrare” la voce dei sopravvissuti e infine, quello di 
diffondere la memoria del genocidio anche attraverso la narrazione di 
finzione di vicende realmente accadute (per esempio Schindler’s List, Steven 
Spielberg, 1993 o La tregua, Francesco Rosi, 1997) o totalmente inventate 
(come La vita è bella, Roberto Benigni, 1998 o Train de vie, Radu 
Mihaileanu, 1998).  
Per diversi studiosi, talvolta, sembra che il fatto di fare della Shoah 
un oggetto di rappresentazione sia un improprio tentativo di attribuirne un 
senso corretto oppure c’è il dubbio che la diffusione delle immagini 
dell’orrore sia una terapia contro l’orrore stesso. Ci troviamo, nel caso dei 
film sulla Shoah, inevitabilmente di fronte ad una finzione che diventa 
testimonianza di un passato che viene reinterpretato e il più delle volte 
reinventato. 
La difficoltà principale sta appunto nel trovare un mezzo espressivo, 
e nel caso del cinema un genere, appropriato che sia in grado di mostrare la 
Shoah, senza che questa diventi un evento banale o ripetibile. 
                                                 
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 Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, 
1998, p.30