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Premessa
La giustizia non è mossa dalla fretta... e
quella di Dio ha secoli a disposizione.
Umberto Eco
Il presente lavoro ha come oggetto la cultura, la sensibilità organizzativa nella magistratura italiana.
La sensibilità, termine preso in “prestito” da Giovanni Arata (Quaderni di organizzazione e
giustizia, primo saggio: “L’evoluzione della sensibilità organizzativa del Consiglio della Magistra-
tura dall’introduzione del ‘giudice unico di primo grado’ ai giorni nostri”, Pendragon 2007), indica
in generale i differenti e complessi modi con cui un individuo, il nostro attore organizzativo agisce
in una organizzazione, nello specifico, in quello che nel corso della trattazione definiremo: il
sistema giustizia.
I differenti modi d’agire, pensare e vedere di ogni attore “membro” dell’organizzazione, costituiran-
no il cosiddetto agire organizzativo, la cultura dell’organizzazione o, come spesso si scriverà, “il
come si fanno le cose” in un’organizzazione.
Il lavoro, sostanzialmente si divide in due parti: la prima, rappresenterà gli strumenti, “gli occhi”
con i quali lo studioso è chiamato a vedere le organizzazioni. Inizialmente, nel capitolo introduttivo,
verranno brevemente trattate e discusse alcune tra le principali teorizzazioni inerenti il “campo”
delle organizzazioni, queste, ci permetteranno di arrivare ad un definizione della stessa, che ci
“soddisfi”, che racchiuda gli elementi caratterizzanti di ogni organizzazione. Si ricostruirà
l’idealtipo di organizzazione studiato durante il corso di teoria delle organizzazioni, commentando
gli aspetti principali delle quattro variabili organizzative individuate dai “professionisti” della
materia: la struttura, il potere, l’ambiente e la cultura.
A quest’ultima però, fulcro del presente lavoro sul sistema giustizia, verrà dedicato un intero
capitolo. In questo “spazio”, la cultura verrà definita in vari modi, secondo prospettive comuni che
identificano nella cultura organizzativa, quell’elemento “collante” di tutte le organizzazioni.
La cultura è al centro dell’analisi organizzativa, essa ha un impatto sul modo in cui l’organizzazione
opera, influenza compiti e struttura, non può essere separata e considerata un elemento
indipendente.
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La cultura di un’organizzazione come “bagaglio” di conoscenze che il gruppo ha appreso e che,
ritenuto fondamentale, verrà trasmesso ai nuovi membri che entrano in contatto con l’organiz-
zazione. Quest’ultimi dovranno dar vita al cosiddetto processo di attivazione, attribuire senso alla
realtà che li circonda, mettere in moto un “nuovo” processo cognitivo, dare ordine agli eventi,
essenzialmente, attraverso deduzioni basate su relazioni causa/effetto.
La struttura dell’organizzazione, anch’essa “variabile forte” (Ferrante, Zan, 1994) che influenza i
comportamenti degli attori, consente all’individuo di capire “il chi fa cosa” (Ferrante, Zan, 1994), il
ruolo, la funzione che andrà a ricoprire e/o l’obbiettivo da raggiungere. Tutto ciò però, non è
sufficiente perché lo stesso attore svolga efficientemente la propria attività all’interno dell’organiz-
zazione, egli, una volta stabilita la sua posizione, dovrà conoscere “il come si fanno le cose”
(Ferrante, Zan, 1994), dovrà comprendere e interiorizzare la cultura organizzativa.
Solo dopo aver inquadrato e messo in evidenza i tratti più significativi della cultura organizzativa e
il perché la stessa viene considerata in questo lavoro la base dell’agire organizzativo, si proseguirà il
percorso intrapreso cercando di individuare le caratteristiche che ci permettono di dar vita a ciò che
definiremo un “cambiamento culturale”: cambiare l’organizzazione, partendo proprio dai valori,
dagli assunti che il gruppo “condivide”.
Tutte le organizzazioni cambiano, e nel momento in cui si tenta una sorta di rivisitazione del
sistema dei ruoli, si va incontro a resistenze culturali che danno vita ai cosiddetti ostacoli al
cambiamento. In ogni organizzazione, gli attori difficilmente rimettono in discussione il proprio
ruolo e la propria funzione e, come vedremo, questo vale ancora di più quando gli stessi attori sono
caratterizzati da alti valori professionali e autodeterminazione. Caratteristiche, quest’ultime, tipiche
”dell’organizzazione giustizia”: una macchina complessa e difficile da inquadrare, con aspetti simili
presenti in altre organizzazioni e che ci consentiranno di arrivare a una definizione della “nostra”
organizzazione come un sistema a legame debole.
La seconda parte di questo lavoro descrive il funzionamento del sistema giustizia. Questo verrà
fatto utilizzando quegli strumenti, quella “lente teorica” acquisita durante i primi due capitoli. Senza
la comprensione delle principali caratteristiche comportamentali presenti nelle organizzazioni,
nessuna organizzazione potrà essere vista, studiata in modo corretto. Senza partire, in primo luogo,
dalla comprensione della cultura organizzativa, nessun cambiamento potrà essere messo in atto, e
nessun cambiamento verrà facilmente accettato dagli attori organizzativi.
Il sistema giustizia è negli ultimi anni oggetto di particolare attenzione da parte dei mass media e
dell’opinione pubblica in generale. La lentezza dei processi nel nostro Paese, appare all’estero un
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classico fenomeno italiano, i nostri concittadini europei vedono ormai il nostro sistema giudiziario
sempre più in crisi.
I governi che si sono succeduti negli anni hanno messo in campo politiche tutte rivolte ad un
cambiamento della “macchina” giustizia come fosse una qualsiasi organizzazione burocratica, per
intenderci, una qualsiasi unità del più ampio sistema della Pubblica amministrazione.
In realtà, la giustizia come organizzazione, è una macchina molto più complessa di quanto si possa
pensare, “convivono” all’interno del sistema un numero elevato di unità organizzative, indipendenti
e autonome l’una dall’altra. Ogni unità, ogni tribunale, visto come il luogo dove gli attori agiscono,
presenta quindi caratteristiche simili, ma non del tutto uguali rispetto ad ogni altra singola unità.
Le varie modifiche agli assetti strutturali degli uffici giudiziari si sono rivelate tutte, o buona parte
di esse, fallimentari. Gli interventi legislativi, che negli anni si sono occupati del sistema giudizia-
rio, sono stati quasi tutti rivolti ad una modifica della struttura organizzativa. Ben poco ancora, è
stato fatto per “ri-organizzare” il sistema “attraverso attente policy e l’impiego di strumenti
gestionali” (C. Guarnieri e F. Zannotti, 2006) che consentano al sistema giudiziario di superare ciò
che, nel corso della trattazione, definiremo i “mali” della giustizia.
La “macchina”, si presenta come lenta e apparentemente incapace di adattarsi alle nuove
contingenze che provengono dall’ambiente esterno, incapace di mettere in campo un cultura
organizzativa “nuova” che permetta di ritrovare risposte innovative e efficaci, che permetta agli
attori organizzativi di mettere in moto un processo di apprendimento che sviluppi intelligenza e che
consenta di superare gli ostacoli al cambiamento che costantemente si presentano al suo interno.
La giustizia, se vorrà “adattarsi” alle novità sociali che caratterizzano il nostro vivere oggi, dovrà
sempre più, essere intesa come un servizio. La qualità del servizio offerto diventa cosi uno dei punti
chiave dell’agire organizzativo, di una cultura della giustizia in grado di “sostenere” il sistema.
Gli attori, che al suo interno giocano un ruolo determinante, dovranno tutti essere dotati degli stessi
strumenti organizzativi o, per lo meno, dovranno tutti assumere “un'unica cultura della giustizia”
(Zan, 2003, 2006; Verzelloni, 2009), un unico modo di “fare giustizia”.
Ogni attore, all’interno di ogni singola unità agisce, sì secondo il proprio ambiente di riferimento,
ma egli dovrà ad ogni modo essere cosciente e consapevole di una sensibilità “più ampia” che
caratterizza l’organizzazione e che costituisce la base di partenza per l’istaurarsi di prassi comuni.
Non è la ridefinizione del ruolo che in questa sede si discute ma, piuttosto, una nuova concezione
della propria professione, del proprio mestiere.
Il giudice, quale unità organizzativa di base (Zan, 2006), dovrà dunque attivare nuovi ambienti di
riferimento, stabilire priorità e modalità organizzative nuove. Egli dovrà in ogni caso essere
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“indirizzato” da coloro che genericamente definiamo il “gruppo dirigente”, ma dovrà anche pos-
sedere un certo margine di autonomia, che gli permetta di adattare i “suggerimenti” imposti
“dall’alto” alla realtà in cui opera. La “nuova” gestione del singolo ufficio giudiziario e del sistema
nel suo complesso, dovranno realizzarsi attraverso processi di apprendimento organizzativo.
È per questo motivo che la variabile cultura risulta cosi, essere cruciale. Perché i processi di
apprendimento diano realmente vita ad un cambiamento nell’organizzazione, bisogna, come scrive
Arata (2007), “che essi non costituiscano il semplice ‘stivare’ nelle menti degli individui ‘nuove’
nozioni.”
Il magistrato, il cancelliere e il resto degli attori dell’organizzazione che lavorano a stretto contatto,
risultano essere tutti indispensabili perché l’unità organizzativa di base, il giudice, “faccia
giustizia”.
I tempi e la qualità del servizio giustizia, incidono pesantemente sulla vita di ogni Paese
democratico.
L’organizzazione della “fabbrica” della giustizia, in Italia, è per molti versi inefficiente, nel senso
che a parità di costi, i servizi prodotti, sono nel nostro sistema giudiziario di quantità e qualità
inferiore. Gli altri paesi europei non sembrano spendere più di noi per la giustizia, in rapporto alla
popolazione o al peso economico, eppure l’Italia, tra quei paesi che vengono definiti “moderni”,
risulta essere uno tra i più condannati dall’Unione Europea per quanto riguarda i ritardi della
giustizia (Fonte: Cepej 2010)
1
.
Quali le cause? L’irrazionalità della rete degli uffici, troppo frammentata e squilibrata geografi-
camente, la disorganizzazione interna di questi, l’ancora scarso uso delle tecnologie dell’informa-
zione e della comunicazione (Zan, 2003, 2006; Verzelloni, 2009).
Solo pochi “illuminati” uomini del diritto, hanno iniziato da alcuni anni a valutare la giustizia anche
secondo i classici termini della microeconomia, attraverso un rapporto tra costi e benefici che il
sistema giustizia ha per la collettività. Il solo “bene” in gioco, ancora diffusamente considerato,
riguarda l’affermazione del diritto, non inteso (come dovrebbe essere in un Paese moderno e
democratico) come “servizio” ai cittadini, ma quale bene di valore infinito, dunque da perseguire
costi quello che costi e senza limiti di tempo.
1
European Commission for the Efficiency of Justice (Cepej). Secondo la commissione l’Italia è tra i primi paesi
condannati a causa dei continui ritardi dei processi. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), con una sentenza
del 2010, ha sottolineato l’inefficacia della “Legge Pinto” (Durata ragionevole del processo ed equa riparazione.
Introdotta nel 2001). Ha accusato l’Italia di mettere «in pericolo l’efficacia dell’intero sistema di protezione dei diritti
dell’uomo, ingolfandolo con ricorsi ripetitivi» e l’ha invitata a istituire un fondo speciale che consenta di pagare gli
indennizzi entro sei mesi dalla sentenza.
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Naturalmente, in ogni sistema a legame debole esistono delle eccellenze e anche il nostro sistema
giudiziario è caratterizzato da alcune di esse. Mi riferisco in particolare al Tribunale civile di Torino
che, già dal 2001, ha attivato un programma organizzativo denominato “programma Strasburgo”,
dove il fattore tempo e giustizia come servizio di qualità al cittadino, ha permesso di raggiungere
risultati sorprendenti soprattutto riguardo i cosiddetti procedimenti pendenti, zavorra che carat-
terizza il nostro sistema giuridico.
Nel corso degli studi sul sistema giuridico ci si è resi conto però, che una “visione” quanto più
possibile completa dell’organizzazione, non poteva essere fatta senza entrare prima nel luogo dove
gli attori agiscono, esercitano la propria professione: il tribunale. Si è scelto dunque, di “entrare in
contatto” con l’organizzazione (due piccole unità del suo sistema) e di effettuare una serie di
interviste che ci potrebbero aiutare a comprendere i problemi che quotidianamente l’attore affronta:
quali dinamiche organizzative influenzano l’agire di uomini e donne nell’organizzazione.
Le interviste sono state realizzate attraverso una “griglia” di domande standard, (che si potrà trovare
alla fine di questo lavoro), naturalmente con alcune differenze in base al “ruolo” che l’attore
intervistato riveste nell’organizzazione: cancelliere, giudice ecc. Queste, sono state realizzate nella
sezione lavoro del Tribunale e sezione civile della Corte d’appello, entrambe nella città di Reggio
Calabria, nel periodo che va da Settembre a Novembre 2011.
Solo dopo aver approfondito il concetto di cultura organizzativa e le possibili prospettive per un
cambiamento culturale, solo dopo aver compreso le “reali” logiche d’azione di un sistema a legame
debole come il sistema giustizia e individuato alcuni tra i principali “mali” attraverso una compara-
zione tra i dati del nostro Paese e quelli degli altri “grandi” paesi europei, si tenterà di individuare le
ricerche, le soluzioni ritenute più interessanti, che ci indicano i possibili percorsi da intraprendere
per migliorare l’organizzazione.
Tale spazio, verrà concesso nel corso del capitolo conclusivo, dove si fornirà una chiave di lettura
sempre intesa ad un cambiamento organizzativo dal punto di vista della cultura, della sensibilità
“nuova” che il sistema, o meglio gli attori membri, sono chiamati ad assumere ed interiorizzare per
fornire risposte nuove e vincenti rivolte ai problemi di integrazione interna e di adattamento esterno.
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CAPITOLO PRIMO
Introduzione: Cos’e un’organizzazione, l’idealtipo
1. Definire l’organizzazione
Prima di dare una definizione del termine cultura e “leggere” attraverso questo punto di vista la
magistratura italiana, occorre innanzitutto chiarire cosa sia, o meglio, cosa si intende qui, per
organizzazione.
L’idea di fondo è che le organizzazioni siano “fenomeni complessi, artefatti sociali, un’invenzione
dell’uomo” (Ferrante, Zan, 1994: 15)
2
. Esistono centinaia di definizioni di organizzazione, tutte, o
quasi, commettono lo stesso errore, descrivono l’organizzazione come un sorta di entità che ha un
fine proprio determinato. Da Wikipedia alla Treccani, l’organizzazione sembra essere vista come
una sorta di macchina, con una sua vita propria e con scopi, fini ben definiti.
Tutte queste definizioni vengono messe in discussione attraverso tante eccezioni, una di queste,
semplice e immediata, risponde alla domanda: Da chi è “formata” un’organizzazione?
La domanda può sembrare al quanto banale, un’organizzazione, di qualsiasi “tipo” si parli, è
formata da individui. Ma la risposta, semplice e scontata, implica una serie di conseguenze.
Se le organizzazioni si compongono di uomini e donne, è possibile che al suo interno, tutti abbiano
lo stesso fine? È possibile che un operaio metalmeccanico abbia lo stesso fine di un dirigente o
viceversa?
Anche qui, la risposta appare scontata e ci permette quindi di andare oltre l’idea secondo la quale, le
organizzazioni abbiano dei fini: un fine comune.
“Parlare di fini di un’organizzazione, non è comunque del tutto errato se si tiene in considerazione
che esistono organizzazioni a forte o debole congruenza di fini”. (Ferrante, Zan, 1994: 24)
3
.
Tale congruenza non è che una questione di grado che non legittima l’esistenza stessa dell’organiz-
zazione; meglio, l’organizzazione non esiste in virtù del suo fine, né tanto meno esclusivamente per
la sua utilità sociale.
2
M. Ferrante, S. Zan, Il fenomeno organizzativo, Carrocci Editore, Roma 1994, p. 15
3
Idem p. 24
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Chiarito, almeno spero, il problema del fine di una organizzazione, intendo ora avvicinarmi alla
definizione di organizzazione attraverso alcuni tra i principali autori della materia, utili in seguito
per il prosieguo di questo lavoro.
La prima vera rivoluzione nell’organizzazione del lavoro, ha sicuramente inizio con Taylor e la sua
Organizzazione Scientifica del Lavoro
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(ovvero il taylorismo). Al di là delle varie critiche mosse
negli anni al taylorismo, Taylor senza ombra di dubbio è stato il primo a cambiare il modo di
organizzare il lavoro, ad assumere il metodo scientifico nell’organizzazione del lavoro, il primo a
dare il via al dibattito sull’organizzazione del lavoro e sulle organizzazioni poi.
Tra le principali critiche mosse a Taylor, vi è la scarsa attenzione data all’uomo. La Scuola delle
Relazioni Umane critica in particolare l’idea di macchina che si aveva dell’uomo, quest’ultimo,
verrà visto successivamente ancora al centro dell’organizzazione ma, essenzialmente, sempre come
mero ingranaggio della stessa (G. Bonazzi, 1989).
La centralità dell’uomo nell’organizzazione e dei gruppi che in essa sorgono “spontanei”, verranno
poi definiti attraverso i cosiddetti fattore umano e organizzazione informale
5
.
Da qui in poi, le organizzazioni iniziano a essere viste sempre più come fenomeni complessi,
all’interno delle quali gli uomini e la tecnologia (la macchina), giocano, ognuno in misura diversa,
un ruolo chiave.
Con la crescente complessità economica e sociale del XX secolo si hanno una serie di importanti
teorie organizzative, ognuna delle quali, si concentra su aspetti differenti dell’agire organizzativo.
Chester Barnard (Novembre 7, 1886 – Giugno 7, 1961) considera la società come un entità
cooperativa regolata da principi morali. L’uomo secondo Barnard,
“… è caratterizzato dal fatto di proporsi degli scopi ma allo stesso tempo, sperimenta continuamente
l’esistenza di limiti. Il modo più efficace per superare tali limiti è di passare dallo sforzo individuale isolato,
alla cooperazione. Proprio nel momento in cui gli uomini cominciano a cooperare per conseguire fini
comuni, entrano di fatto nella realtà delle organizzazioni formali. La cooperazione avverrà però solo se
l’organizzazione sarà in grado di fornire agli individui incentivi (materiali e non), sufficienti affinché essi
diano il proprio contributo” (C. Barnard, “The Function of the Executive”, 1938).
4
Frederick Taylor ne L’organizzazione scientifica del lavoro (The Principles of Scientific Management, 1911) sostiene
che esiste uno e un solo metodo corretto che permetta ad un’organizzazione (in realtà Taylor si riferisce
essenzialmente alle fabbriche) di superare l’inefficienza: la one best way. Questa, può realizzarsi solo attraverso
l’applicazione di un metodo scientifico nell’organizzazione del lavoro.
5
Con La Scuola delle Relazioni Umane si realizzano una serie di esperimenti, il più celebre quello alla Western Electric
Company Hawthorne, presso Chicago, dove si voleva determinare se ed in che misura l’aumento di luce nell’ambiente
di lavoro influenzasse l’ammontare del lavoro compiuto. Il risultato e i successivi esperimenti vennero interpretati
come l’indicazione che esisteva un “fattore umano” che agiva come variabile (forte) all’interno dell’impresa e che
all’interno della stessa, si erano formati gruppi di individui che costituivano quella che verrà poi definita l’organiz-
zazione informale.