5
I fondamenti del sistema bicamerale vanno così ad influire sia sui criteri di composizione e
formazione, sia sulle funzioni e i poteri attribuiti alle due Camere; coerentemente con le ragioni
giustificative che sorreggono tale scelta istituzionale, il bicameralismo si distingue in due forme essenziali
a seconda che le due Camere si trovino in un rapporto di reciproca parità, perfetta o quasi, ovvero
originino un dualismo, imperfetto od attenuato, dovuto alla sostanziale differenziazione tra esse
intercorrente sul piano delle competenze e potestà rispettive. Nella dottrina costituzionalistica italiana si
soleva ritenere (e si afferma ancora oggi, da parte di qualche autore) che la forma tipica o pura del
bicameralismo fosse quella paritaria, laddove il bicameralismo imperfetto veniva denominato «zoppo» od
impuro. Per il Mortati « il sistema bicamerale vero e proprio è quello in cui le due assemblee sono poste in
una posizione di assoluta parità, sicché, pur costituendo organi distinti ed autonomi, possano dar vita a
manifestazioni di volontà imputabili allo Stato solo con la confluenza dei consensi di entrambe sullo stesso
testo di deliberazione »3. Il bicameralismo attenuato interviene invece quando la posizione delle due
Camere non è assolutamente paritaria e il pieno potere legislativo e di controllo politico è riservato ad una
sola di esse, prevedendo per l’altra soltanto attribuzioni consultive o particolari funzioni esecutive o
giurisdizionali. In ogni caso, come osserva il Romano, « è una precisa esigenza del bicameralismo che le
due assemblee non costituiscano un duplicato e, quindi, si differenzino più o meno fondamentalmente, così
da potersi integrare l’una con l’altra »4. Operando però un’indagine comparatistica degli ordinamenti
statali più recenti, si arriva alla conclusione che è proprio il bicameralismo perfetto a costituire
un’eccezione. Nell’intera Europa esso trova riscontro in soli tre sistemi: quello svizzero, peraltro di tipo
federale, nell’ambito del quale la parificazione attiene a ragioni strutturali; e poi quello belga e quello
italiano, dato che in entrambe le ipotesi la parità delle due Camere non è sostanzialmente incrinata né dalle
isolate previsioni costituzionali di sedute comuni, né dal potere di accusa dei ministri, che l’art. 90 della
costituzione belga riserva alla Camera escludendone il Senato.
Il discorso sul bicameralismo è notoriamente complesso: il bicameralismo è, infatti, un dato storico,
un’ideologia, una tecnica organizzatoria volta a raggiungere fini determinati attraverso specifiche soluzioni
strumentali. Può essere fatto – ed è bene farlo – da tutti e tre i punti di vista. La storia istituzionale esercita
sempre una grande suggestione. Influenza, quindi, le stesse valutazioni sul rendimento tecnico delle
formule organizzatorie perché è portatrice di ideologie. Queste non sono mai nettamente separabili dalle
tecniche di organizzazione appunto perché si tratta di tecniche volte ai fini di politica costituzionale, cioè a
3
C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975, pag. 336.
4
S. Romano, Principi di diritto costituzionale generale, Milano, 1945, pag. 308.
6
quanto di più intriso di valori possa esserci nelle elaborazioni teoriche di carattere politico e giuridico e
nelle scelte dei costituenti5.
I. 2. Il Senato del Regno.
Prima di ripercorrere, seppur a grandi linee, l’acceso dibattito che in sede di assemblea costituente
portò all’adozione del bicameralismo puro o paritario, è bene operare un breve excursus sulla struttura del
parlamento – ed in particolare del Senato – in epoca statutaria, che, secondo la tesi di qualche autore
(Mazziotti Di Celso), rientrerebbe in una sorta di continuità storica con quanto elaborato dai costituenti.
La maggior parte dei componenti del Senato del Regno era di nomina regia (senza limiti di numero)
entro categorie indicate dallo Statuto (art.33) e la rimanente minore parte costituita di membri di diritto
(principi della famiglia reale: art.34 dello Statuto). In seguito ad una prassi, poi normativamente
convalidata, fu ben presto riconosciuto anche al Governo il potere di nomina dei senatori attraverso le
cosiddette « infornate », molto utili al fine di spostare a proprio favore l’orientamento politico
dell’Assemblea. Sul piano politico, il Senato si trovava – anche in seguito al potere di nomina governativa
– in una posizione di sostanziale inferiorità (la cosiddetta « remissività » del Senato) rispetto alla Camera
dei deputati, annullando, di fatto, la formale paritarietà delle due Camere prevista dallo Statuto. Per quanto
attiene alle attribuzioni, il Senato si diversificava dalla Camera sotto tre punti di vista: i disegni di legge di
bilancio e in materia tributaria dovevano essere presentati prima alla Camera dei deputati (art. 10); era
attribuita al Senato una funzione giurisdizionale nella materia dei reati imputati ai propri componenti e,
quale Alta Corte di giustizia, nei delitti di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato e nei reati
ministeriali (mentre alla Camera dei deputati competeva la promozione dell’accusa nei confronti dei
ministri); infine il Senato esercitava funzioni di notariato per l’accertamento legale delle nascite, dei
matrimoni e delle morti dei membri della famiglia reale. Un’altra prassi che era andata consolidandosi era
quella secondo la quale il Senato « non faceva crisi », prassi che incideva, in senso negativo, sempre sulla
parità nei confronti della Camera. Per tutte queste ragioni, mentre il Senato si delineava sempre più come
Camera di garanzia, di riflessione e di revisione – una posizione che politicamente tendeva a mettere
l’Assemblea vitalizia in ombra rispetto a quella elettiva – si comprende perché quello della riforma della
Camera alta fosse finito per diventare un tema ricorrente dell’intera età statutaria, e riguardasse non tanto
le attribuzioni, quanto soprattutto la sua composizione, in vista di una revisione sia delle categorie entro
5
G. Ferrara, Art.55, in Commentario della Costituzione, a cura di G.Branca, Bologna-Roma, 1984, pag. 5.
7
cui il potere di nomina doveva essere esercitato, sia dello stesso criterio di nomina, da sostituire con quello
elettivo, più o meno ampiamente applicato, o con un sistema di rappresentanza degli interessi delle
categorie organizzate, della pubblica amministrazione, dell’economia e della cultura.
Un dibattito non solo accademico o politico, ma anche propriamente parlamentare, con varie
iniziative legislative, soprattutto al Senato, rimasto peraltro senza esiti legislativi ed a cui posero
significativamente termine, nel 1928, le conclusioni della Commissione presieduta dal senatore Giovanni
Gentile che respingeva ogni idea di sistema elettivo, poi avvallate dal voto espresso (nello stesso anno) dal
Gran consiglio del fascismo nel senso che “nulla” dovesse innovarsi riguardo alle norme che disciplinano
il Senato del regno6.
Proprio la scelta, operata dai costituenti, dell’elezione di entrambe le Camere a suffragio universale e
diretto, libero, uguale e segreto, costituisce un dato storico-giuridico di grande rilevanza. Una rilevanza
che suscita molti dubbi sull’esistenza di una « continuità storica dell’istituzione parlamentare in Italia dal
1848 ad oggi »7. È vero che i nomi dei due rami del Parlamento non sono cambiati, è vero anche che non è
mutato il tipo di bicameralismo che perfetto era in regime statutario, perfetto è rimasto nell’ordinamento
repubblicano. Anche i rapporti tra governo e Parlamento rientrano, secondo Costituzione, nello stesso
schema della forma di governo parlamentare che s’instaurò in Italia, contro la lettera dello Statuto,
all’indomani della sua emanazione. Ma sono, tuttavia, mutati radicalmente tutti gli altri elementi del
sistema che definivano l’ordinamento statutario per quello che era e che qualificano l’ordinamento
costituzionale repubblicano per quello che è. Una trasformazione dovuta anche al modo in cui il
Costituente ha concepito e disegnato le istituzioni parlamentari8.
Per il Senato, ad esempio, la Costituzione determina un radicale rovesciamento di posizione: esso si
componeva di membri nominati dal sovrano (oltre che dai principi della famiglia reale) e diviene l’organo
che contribuisce a costituire il collegio che elegge il presidente della Repubblica, oltre ad avere anche la
possibilità di porlo in stato di accusa. Anche le funzioni attribuite ai due rami del parlamento si inseriscono
nel quadro di una sostanziale discontinuità rispetto al precedente regime; non tanto perché, almeno sulla
carta, il re, attraverso la sanzione regia, diveniva un terzo organo legislativo differenziando così la
distribuzione dei poteri legislativi dalla scelta dualistitica della costituente, quanto per il fatto che il modo
di legiferare concepito dallo statuto si differenzia in maniera netta dall’impianto generale delle fonti
legislative espresso dalla Costituzione. Considerando inoltre il carattere di rigidità della Costituzione, il
controllo di costituzionalità esteso anche alle leggi con maggiore efficacia formale rispetto alle ordinarie, i
6
V. Di Ciolo, Senato, voce in Enciclopedia del diritto, Vol. XLI, 1989, pagg. 1164 ss.
7
M. Mazziotti Di Celso, Parlamento, voce in Enc. Del Dir., Vol. XXXI, 1989, pag. 758.
8
G. Ferrara, Op. Cit., pag. 26.
8
limiti impliciti ed espliciti alla revisione costituzionale, la specificità dell’atto legge rispetto al genus
legislativo sostanzialmente indistinto prodotto dalle due Camere statutarie, si giunge alla conclusione che,
anche volendo accettare «…una, almeno relativa, continuità funzionale» 9 , ad essa va attribuito un
significato del tutto nominalistico.
Capitolo II
Il Senato repubblicano.
II. 1. La scelta bicamerale.
La ragion d’essere del bicameralismo ed i criteri di differenziazione fra le due assemblee
parlamentari hanno formato le questioni più lungamente discusse, in seno all’Assemblea costituente, fra
tutte quelle concernenti l’organizzazione costituzionale dello Stato-apparato.
La ricostruzione del dibattito sulla seconda Camera, già operata puntualmente da vari autori secondo
una linea interpretativa sostanzialmente conforme, rileva come la soluzione alla fine scaturita non sia un
progetto propriamente caratterizzato che una componente riesca ad imporre alle altre, ma neppure il
risultato di un compromesso costruito acquisendo progressivamente punti d’intesa nel corso della
discussione.
Il sistema bicamerale, consegnato agli artt. 55 ss. Cost., deriva piuttosto da una vicenda di reciproche
elisioni di differenti progetti che rimangono inconciliabili fino alla fine. La combinazione della parità
funzionale con la sostanziale omogeneità strutturale, il bicameralismo «piuccheperfetto» della Costituzione
italiana, non rappresenta l’attuazione di una strategia, ma il prodotto secondario del fallimento di diverse
strategie.
Mattarella ha parlato in proposito di « risultato quasi accidentale di una serie di veti incrociati, per
cui affermatosi in seno all’Assemblea costituente il principio bicamerale con le riserve dei partiti della
sinistra, la struttura dei due rami è stata poi condizionata da queste riserve: sicché abbiamo un parlamento
che è strutturalmente bicamerale, ma che funzionalmente è più vicino al modello unicamerale »10. L’autore
si ricollega anche all’analisi di Barbera, secondo cui la struttura del Parlamento è nata « non sulla base di
9
M. Mazziotti Di Celso, Op. Cit..
10
S. Mattarella, Il bicameralismo, in Riv. trim. dir. Pubbl. 1983, pag. 1162.
9
un disegno preciso, ma, nella sostanza per una serie di no: no alle ipotesi monocamerali; no al Senato delle
Regioni; no al Senato corporativo »11. Anche Ferrara parla di: « un compromesso strappato da ciascuna
forza politica a tutte le altre: più per precludere che gli obbiettivi non condivisibili delle forze antagoniste
potessero prevalere che per conseguire il risultato ottimale (per ciascuna di dette forze impossibile) »12.
Acquisito il dato di fatto che il bicameralismo, nella vigente Costituzione, fu introdotto in funzione di
garanzia e fu il « frutto della non omogeneità e del carattere democratico dell’ordinamento » 13 , è
interessante ora ripercorrere tutto il processo politico-normativo che portò a tale scelta. Ricostruire gli
sviluppi della discussione in maniera sintetica non è certo agevole, anche perché, ripercorrendo il lungo e
aspro dibattito sulla seconda Camera, il procedimento di definizione appare confuso e farraginoso, avanza
a colpi di “ordine del giorno” e votazioni, acquisendo man mano soluzioni parziali che sono poi rimesse in
discussione o contraddette palesemente nella votazione successiva.
In Assemblea costituente si affrontano posizioni già sostanzialmente definite e, nel caso dei partiti
maggiori, con carattere qualificante; la discussione si sviluppa come scontro tra obiettivi non negoziabili.
La Democrazia cristiana sposa l’opzione bicameralista per l’interesse che nutre nell’affermare il principio
della rappresentanza professionale o degli interessi organizzati; principio ispirato alle concezioni del
solidarismo cristiano e che troverà una compiuta articolazione nel processo costituente ad opera di Mortati.
Da subito la proposta di una seconda Camera viene legata alle Regioni, ma solo al fine di
individuare, nella dimensione regionale, una modalità che consenta l’esplicazione del principio della
rappresentanza organica: o come semplice circoscrizione elettorale, o, al massimo, per esprimere la
rappresentanza territoriale (accanto a quella istituzionale che promana dalle associazioni culturali e
professionali) degli interessi di categoria.
L’impostazione iniziale del tema da parte dei repubblicani si avvicina relativamente a quella
prospettata dalla DC: la seconda Camera è proposta come sede della rappresentanza organica delle
componenti istituzionali e sociali (assemblee regionali, Comuni, università, sindacati, ordini professionali,
associazioni culturali). Nella proposta repubblicana ha però una maggiore pregnanza, data la maggiore
inclinazione verso il “regionalismo” di questo partito, l’idea di rappresentanza regionale che rimane
comunque garantita allo stesso livello di quella professionale o di interessi con cui concorre. Sarà proprio
questa diversa considerazione del regionalismo che impedirà alle posizioni dei due partiti di fondersi, ed
anzi le condurrà a distanziarsi ulteriormente.
11
A. Barbera, Oltre il bicameralismo, in Dem. Dir. 1981, pag 47.
12
G. Ferrara, Op. Cit. pag. 7.
13
G. Guarino, Del sistema bicamerale, in Studi sassaresi, 1953, pagg. 207 ss.
10
Anche i partiti dell’Unione democratica nazionale (liberali, demolaboristi, Unione di ricostruzione) si
presentano all’assemblea Costituente con una sostanziale disponibilità nei confronti della rappresentanza
d’interessi quale criterio per la composizione della seconda Camera.
La posizione delle sinistre è invece in netta contrapposizione rispetto alle altre forze politiche. Il
principio centrale cui fanno riferimento è quello della rappresentanza democratica, fondamento
irrinunciabile ed esclusivo dell’istituzione parlamentare, che porta naturalmente al monocameralismo. Tale
scelta, non è però, in principio, indisponibile ad aperture: il Partito comunista, ad esempio, non esclude
considerazioni funzionali sull’opportunità del bicameralismo, che tendano a dare all’eventuale
accoglimento dell’istituto un fondamento razionale nuovo, imperniato sulla verifica delle funzioni della
seconda Camera, ad esempio in connessione con l’introduzione nella nuova Costituzione dell’ordinamento
regionale (così come afferma il Crisafulli su Rinascita nel 1946).
II. 2. Il dibattito nella Costituente.
La proposta di un Parlamento bicamerale fu avanzata subito, nella seconda Sottocommissione della
« Commissione dei 75 », dai due relatori Mortati e Conti, democristiano il primo e repubblicano il
secondo. L’esigenza che, secondo Mortati, motivava tale scelta era quella dell’integrazione della
rappresentanza. Alla Camera dei deputati, titolare di una « rappresentanza generale del popolo
indifferenziato », si proponeva di affiancare una Camera espressiva della «volontà dello stesso popolo»
manifestata attraverso il suffragio universale, «ma in una veste diversa», basata sulla rappresentanza di
categorie. Queste, secondo Mortati, potevano essere intese secondo il loro «significato economico»
espressivo degli «interessi delle professioni che intervengono come fattori della produzione e del
consumo; o nel significato supereconomico e quindi culturale, assistenziale…» 14 o, ancora, in un
significato tale da non considerare le categorie stesse «nella loro specializzazione» ma come strumenti di
una rappresentanza «che abbracci gruppi di categorie in conformità a certi interessi sociali più eminenti ed
importanti: per esempio, la cultura, la giustizia, il lavoro, l’industria, l’agricoltura». La matrice ideologica
di questa proposta era chiaramente da ricercarsi nel corporativismo cattolico, che mirava, in questo caso, a
realizzare una rappresentanza organica degli interessi che si voleva territorialmente radicata,
«giustapponendo» questa «con quella territoriale».
14
La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, VII, pag. 901.