2
D’altra parte, i rapidi cambiamenti in atto influirono sull’intero contesto geopolitico
del continente europeo, dando nuovo impulso al processo di integrazione dell’Europa
occidentale attraverso il rafforzamento di strutture interstatali e organizzazioni
internazionali già esistenti quali la Comunità Economica Europea.
Quest’ultima, di fronte al rischio di destabilizzazione dell’area balcanica, fu
investita per la prima volta del compito di intervenire in una delicata questione di
politica internazionale. La difficoltà maggiore a cui dovette far fronte fu quella di
mantenere una posizione unitaria fra i suoi membri, che si accingevano a porre le
basi della futura politica estera comune europea. Benché priva degli strumenti
adeguati per intervenire efficacemente, la CEE si assunse nuove responsabilità nella
gestione dei conflitti sul proprio continente, accrescendo il proprio potere d’azione
ed acquistando un ruolo completamente nuovo sulla scena internazionale.
Nel secondo capitolo si analizza la situazione jugoslava dopo il 1980, ricercando i
fattori che hanno portato la Slovenia a desiderare l’indipendenza, innescando il
processo di disgregazione dello Stato federale. Si descriverà il complesso intreccio
tra fattori economici, politico-istituzionali ed interetnici che provocarono la crisi.
L’inefficienza del sistema di autogestione e la scomparsa del leader carismatico, che
aveva saputo tenere a lungo a freno le spinte centrifughe interne, furono i principali
elementi alla base della frantumazione dei centri decisionali e dell’aggravarsi del
divario economico e culturale tra le Repubbliche federate. Queste non furono però le
uniche cause della frattura tra di esse. Una diversa concezione dello Stato e della
distribuzione del potere rese molto difficile il rinnovamento del sistema federale ed
ampliò il distacco tra le parti.
Dopo aver dimostrato che la crisi della Jugoslavia e la scelta secessionista della
Slovenia ebbero origine da una molteplicità di questioni, aggravatesi nel lungo
periodo e culminate nello scioglimento della Lega dei comunisti jugoslavi, verranno
analizzate le fasi del conflitto scoppiato all’indomani della Dichiarazione
d’indipendenza slovena del 25 giugno 1991. Di ciò ci si occuperà nel terzo capitolo.
Da un lato la determinazione politica e la preparazione militare della Slovenia e,
dall’altro, il fallimento dell’intervento dell’Armata popolare, quale tentativo estremo
per evitare la rottura, portarono ad una soluzione favorevole alla secessione slovena,
3
decretando la fine inequivocabile dello Stato jugoslavo. Anche i piani nazionalisti
serbi verranno presi in esame quale fattore determinante per la riuscita del distacco
sloveno: la decisione di Milosevic di rinunciare al legame con la Repubblica slovena,
nell’intento di creare una nuova entità statale più piccola ma più omogenea sotto il
controllo della Serbia, permise agli sloveni di dare attuazione con maggior sicurezza
ai propri progetti separatisti. L’intervento della Comunità europea favorì il
raggiungimento di un accordo politico tra le parti e diede modo agli sloveni di
sviluppare un dialogo indipendente con l’esterno.
Nel quarto capitolo, si passerà ad analizzare l’intervento dell’Italia, partendo dalle
numerose iniziative politico-economiche di apertura e di sostegno alla transizione
verso il pluralismo politico in Jugoslavia. Il governo italiano intendeva porre le basi
per una proficua cooperazione tra i due Paesi: una rottura all’interno del sistema
federale jugoslavo avrebbe portato al fallimento di tale politica ed avrebbe provocato
una grave destabilizzazione dell’intera area danubiano-balcanica che, in quel
momento, rappresentava una delle priorità della politica estera italiana. Di seguito si
presenterà la linea assunta dal governo nazionale di fronte allo scoppio di un conflitto
che sarebbe svolto proprio ai confini con il nostro Paese.
Il governo italiano ebbe un ruolo di primo piano nella mediazione europea:
attraverso lo studio del suo coinvolgimento nell’opera di pacificazione, si cercherà di
dimostrare che l’unità ed il consenso tra gli Stati membri della CEE rappresentò
l’interesse primario del ministero degli Esteri italiano, influenzando la sua decisione
di riconoscere l’indipendenza della Slovenia. Prima di giungere a questo atto l’Italia,
così come gli altri Paesi comunitari, attuò una politica di rinvio verso il
riconoscimento delle Repubbliche secessioniste di Slovenia e Croazia.
Fu proprio sulla questione del riconoscimento che la linea seguita dalla Farnesina si
scontrò con il sostegno del Friuli Venezia Giulia alle aspirazioni indipendentiste
slovene, e di ciò si tratta in modo specifico nell’ultimo capitolo.
I rapporti politico-economici che la Regione aveva instaurato negli anni precedenti
alla crisi con la Slovenia e la Croazia, dando origine alle prime iniziative di politica
interregionale transfrontaliera, avevano contribuito allo sviluppo di una buona
conoscenza tra le parti ed avevano dato impulso alla ricerca di una maggiore
4
cooperazione tra le aree di confine. La descrizione di questi aspetti della politica
locale renderà più facile la comprensione delle motivazioni che spinsero l’Esecutivo
regionale a farsi portavoce delle istanze slovene presso il governo italiano. Le azioni
a sostegno del governo di Lubiana, intraprese in maniera autonoma dal Friuli
Venezia Giulia, non ebbero un impatto diretto sulla scelta del governo nazionale di
procedere al riconoscimento della Slovenia ma non è possibile trascurarne una certa
influenza. L’attivismo regionale nei confronti della vicenda slovena fu una
manifestazione esplicita del “potere estero” rivendicato da una delle Regioni che
aspirava ed aspira più di altre a sfruttare la propria posizione strategica nelle relazioni
con l’Est Europa. Esso rappresenta anche un esempio interessante delle relazioni tra
centro e periferia nella definizione della politica estera di uno Stato. Aldilà della
posizione ufficiale, verranno presentate le posizioni dei vari partiti politici locali al
fine di dare un quadro adeguato del dibattito regionale sulla questione jugoslava e sul
futuro dei rapporti transfrontalieri con la Slovenia.
A causa dell’attualità e della specificità delle tematiche trattate, non è stato possibile
usufruire di testi che le analizzassero tutte in modo completo ed approfondito. Perciò
questo studio ha richiesto la consultazione di quotidiani del periodo e di riviste
specializzate. Per studiare il contesto internazionale, è stato indispensabile l’ausilio
di riviste di geopolitica e di politica internazionale. Più facile è risultata la ricerca di
opere che trattassero la molteplicità degli aspetti e degli avvenimenti storici connessi
alla secessione slovena.
Il ruolo dell’Italia e del Friuli Venezia Giulia è stato l’ambito più complesso di
questo studio. Per comprenderne anche gli elementi più specifici si è fatto
riferimento alla stampa, soprattutto al Corriere della Sera e La Repubblica su scala
nazionale e a quotidiani quali Il Piccolo ed Il Messaggero Veneto, dove vennero
riportate informazioni più approfondite sulla situazione locale.
Fondamentali sono state anche le testimonianze di esponenti politici coinvolti nelle
iniziative regionali a favore della Slovenia, soprattutto quelle dell’allora Presidente
della Giunta regionale Adriano Biasutti. La documentazione ufficiale degli enti
regionali ha poi permesso di verificare gli elementi ricavati da altre fonti.
5
I resoconti dei dibattiti e degli ordini del giorno approvati in seno al Consiglio
regionale hanno facilitato la ricostruzione delle posizioni dei singoli partiti.
In appendice si è inteso proporre i documenti che furono alla base
dell’indipendenza slovena quali: la Dichiarazione di Buoni Intenti dell’Assemblea
parlamentare slovena, la Dichiarazione d’indipendenza e la Dichiarazione congiunta
di Brioni.
6
CAPITOLO I: Lo scenario internazionale
I.1:La situazione nei Paesi dell’Est
L’analisi della crisi jugoslava e della secessione della Slovenia non può prescindere
dal contesto internazionale nel quale queste sono inserite. E’ dunque necessario
inquadrare il caso jugoslavo nell’ottica della crisi generale dei regimi comunisti in
Europa orientale e dei nuovi equilibri politico-strategici del dopoguerra fredda.
La fine del socialismo reale nell’Est europeo e l’emergere di vecchi nazionalismi da
molto tempo sopiti, stava sconvolgendo i precedenti equilibri che avevano retto per
quasi cinquant’anni. Il crollo dell’impero sovietico stava portando i Paesi dell’Est ad
una difficile transizione verso la democrazia e spesso ad una situazione di totale
disorientamento politico e sociale, dove il nazionalismo trovava terreno fertile. Il
vuoto politico lasciato dal vecchio regime e la scomparsa dell’elemento unificante
rappresentato dall’ideologia favorirono lo sviluppo di istanze nazionaliste: il posto
lasciato dal Partito veniva occupato dall’idea di Nazione, scardinando l’intero
sistema.
All’interno dell’Unione sovietica, il tentativo di Mikhail Gorbaciov di trovare un
compromesso tra comunismo e perestroika per mantenere l’unità federale si
scontrava con l’opposizione di Boris Eltsin, favorevole all’indipendenza delle
singole Repubbliche e quindi al dissolvimento della Federazione. La fine del
dominio del Partito sullo Stato dava nuovo spazio di azione alle forze centrifughe
presenti all’interno delle singole Repubbliche, mettendo in primo piano la questione
delle nazionalità non russe. I referendum popolari sulla definizione di un nuovo
assetto da dare all’Unione, indetti all’inizio del 1991, sancirono la volontà dei Paesi
baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, di raggiungere l’indipendenza.
7
La situazione all’interno delle altre Repubbliche, soprattutto nelle regioni del
Caucaso, in Armenia, Azerbaigian e Georgia, in quelle dell’Asia centrale ed in
Moldavia, restò molto tesa.
Il 12 giugno, Eltsin venne eletto Presidente della Repubblica russa, facendo
presagire un’imminente implosione dell’Unione sovietica sotto la spinta delle forze
riformiste che desideravano dare un taglio netto al passato.
Il 1° luglio, a Praga, veniva sancita ufficialmente la dissoluzione del Patto di
Varsavia, organizzazione che aveva rappresentato, negli anni della Guerra fredda, il
vero strumento di controllo dell’Unione sovietica sull’intero blocco comunista
1
.
Dall’anno precedente, i Paesi aderenti al Patto di Varsavia si erano progressivamente
dissociati dall’organizzazione, nell’aprile del 1991 era stato poi sciolto l’apparato
militare mentre l’Unione sovietica procedeva al ritiro delle truppe dell’Armata Rossa
dagli ex Paesi alleati. L’organizzazione che univa economicamente l’URSS ai suoi
alleati, il “Consiglio di Mutua Assistenza”, noto come COMECON, fu sciolto
ufficialmente il 28 giugno. Era la fine inequivocabile del sistema bipolare e l’inizio
di un complesso processo di democratizzazione per gli ex satelliti sovietici. I Paesi
dell’Est, ormai privi dell’appoggio/controllo politico-militare ed economico della
potenza sovietica, guardavano all’Europa e all’Occidente alla ricerca di un concreto
sostegno alla transizione in atto verso un sistema politico democratico ed un sistema
economico di libero mercato di cui non avevano alcuna esperienza.
Il 19 agosto, un gruppo di appartenenti alla vecchia nomenklatura tentò di portare a
termine un colpo di Stato in Unione sovietica. Gorbaciov, rifiutandosi di collaborare
con i golpisti, venne destituito e sostituito da un comitato di emergenza. In pochi
giorni però, il golpe fallì per merito della forte reazione del popolo e soprattutto
dell’intervento di Eltsin, che diventò in tal modo il nuovo leader capace, agli occhi
dell’opinione pubblica, di rinnovare il sistema statale. Gorbaciov riprese il suo posto,
benché privo di qualsiasi potere effettivo, il Partito comunista venne sospeso in
Russia e sciolto in molte Repubbliche mentre il KGB venne completamente
eliminato. Le Repubbliche sovietiche, una dopo l’altra, si dichiararono indipendenti,
1
Biagini A., Guida F., Mezzo secolo di socialismo reale: l’Europa centro-orientale dal secondo
conflitto mondiale alla caduta dei regimi comunisti, Torino, Giappichelli, 1997, pg. 180.
8
anche se Gorbaciov tentò ancora, all’inizio di settembre, di salvare l’Unione
proponendo un progetto di patto confederale.
L’8 dicembre, l’Unione sovietica cessava di esistere. Con il Patto di Minsk, Russia,
Bielorussia e Ucraina fondarono la Comunità di Stati indipendenti. Con il Patto di
Alma Ata, il 21 dicembre, altre undici Repubbliche, ad eccezione dei Paesi baltici e
della Georgia, aderirono alla Comunità. Il 25 dicembre, Gorbaciov diede le
dimissioni: era la fine della potenza sovietica e l’inizio di una nuova era per le
relazioni internazionali.
Da quanto descritto finora è possibile dedurre la posizione dell’Unione sovietica,
prima del suo tracollo finale, riguardo alla crisi jugoslava. Il riconoscimento
dell’indipendenza della Slovenia e della Croazia sarebbe diventato un pericoloso
precedente ed avrebbe avuto forti ripercussioni sull’azione delle forze centrifughe
presenti all’interno della Federazione sovietica nonché su quelle sempre più forti
all’interno dei singoli paesi ex satelliti. Gorbaciov ed il Ministro degli Esteri
Sevardnadze si erano dichiarati, già durante il 1990, contro un’eventuale
disintegrazione della Jugoslavia definendola una vera catastrofe
2
. L’Unione sovietica
fornì, durante i primi mesi del 1991, grandi quantità di materiale bellico all’Armata
popolare jugoslava e lo Stato Maggiore sovietico elaborò, insieme allo Stato
Maggiore dell’Armata jugoslava, un piano secondo il quale i due eserciti avrebbero
dovuto attuare contemporaneamente un colpo di stato nei rispettivi paesi per frenarne
la disgregazione ormai imminente
3
.
Non va dimenticato un fattore geopolitico di grande rilevanza per lo sviluppo della
crisi: il mantenimento dello status quo nei Balcani dipendeva effettivamente dalle
scelte strategiche e dalla politica estera dell’Unione sovietica
4
. Il pericolo di
un’invasione dell’Armata Rossa era sempre stato un elemento determinante nelle
scelte politiche della Lega dei comunisti jugoslavi. Il comune timore di un intervento
sovietico aveva rappresentato uno dei più forti fattori di coesione tra le Repubbliche
5
.
La situazione interna all’Unione sovietica era, dunque, al centro dell’attenzione dei
2
Limes, “La Russia e noi”, 1/1994, pg. 207.
3
Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991-1999, Torino, Einaudi, 2002, pg. 36.
4
Limes, op. cit., pg. 203.
5
Ibidem.
9
governi repubblicani, dato che la scomparsa del pericolo di invasione sovietica
avrebbe reso l’azione delle Repubbliche secessioniste molto più fluida. La mancanza
di controllo da parte dell’Unione sovietica faceva svanire l’unico limite che avrebbe
potuto frenare il crollo dello Stato jugoslavo.
Allo scoppio del conflitto in Slovenia, l’Unione sovietica cercò di tenersi al di fuori
della questione. Il 3 luglio 1991, il portavoce del governo sovietico, Vitali Ciurkin,
espresse grande rammarico per le vittime degli scontri tra l’Armata popolare
jugoslava e la Difesa territoriale slovena, ed invitò le parti a risolvere la crisi con un
compromesso politico
6
. Il governo russo sperava che tale compromesso potesse
essere agevolato dalla moratoria di tre mesi dell’indipendenza proposto dalla
Comunità europea. In un messaggio congiunto, Gorbaciov ed il Ministro degli Esteri
Bessmertnikh si dichiararono a favore di una soluzione che non modificasse i confini
federali
7
.
Un elemento che rendeva ancor più complessa la presa di posizione sovietica, era
rappresentato dal fatto che la Serbia considerava l’Unione sovietica come un suo
alleato. Storicamente, la Russia e poi l’Unione sovietica avevano avuto un rapporto
privilegiato con Belgrado, piuttosto che con Lubiana e Zagabria. Il retaggio storico
legava i due Paesi ma, in questo caso, l’Unione sovietica non poteva schierarsi dalla
parte del nazionalismo serbo. Prendere le parti della Serbia significava allontanarsi
dalla posizione assunta dai Paesi occidentali, perdendone l’appoggio in un momento
molto delicato per la propria situazione interna. La dirigenza serba, e soprattutto
Milosevic, contavano sulla mediazione sovietica. Essa avrebbe potuto fare da
contrappeso all’intervento della CEE che, con l’evolversi della crisi, la Serbia
considerava sempre meno orientato a suo favore
8
.
A novembre, Milosevic e Tudjman firmarono un accordo sul cessate il fuoco grazie
alla mediazione di Gorbaciov, il quale continuò a sostenere la sopravvivenza della
Jugoslavia, considerando il favore verso l’indipendenza della Slovenia e della
Croazia come un approccio superficiale ed irresponsabile
9
.
6
Il Corriere della Sera, 4 luglio 1991.
7
Ibidem, 8 luglio 1991.
8
Limes, op. cit., pg. 208-209.
9
Ibidem.
10
Il suo atteggiamento fu probabilmente dettato dalla convinzione di poter salvare
almeno in parte il sistema federale jugoslavo, soprattutto facendo riferimento a
quanto stava avvenendo all’interno del sistema sovietico.
Gli Stati Uniti, così come molti Stati europei, guardavano alla crisi balcanica
proprio in prospettiva di eventuali ripercussioni sulla situazione interna della
Federazione sovietica. Inizialmente il governo di Washington aveva tentato di restare
fuori dalla crisi jugoslava, sostenendo che si trattava essenzialmente di un conflitto
interno allo Stato jugoslavo. Alcuni autori sostengono che questa presa di posizione
sia stata il frutto della tradizionale politica statunitense, risalente a Woodrow Wilson,
che consisteva nel mantenere le distanze dall’aggressività e ambiguità balcanica
10
. La
crisi jugoslava era una questione europea e quindi, secondo gli americani, se ne
doveva occupare, a questo punto, la Comunità europea. Sull’efficacia dell’intervento
europeo vi erano però, all’interno del Dipartimento di Stato, due correnti di pensiero
opposte tra chi credeva che l’Europa sarebbe stata capace di gestire la crisi e chi
rimaneva scettico, considerando ancora forte la dipendenza europea dall’intervento
statunitense
11
. Sta di fatto che la fine del bipolarismo dava alla Comunità europea la
possibilità di ridefinire il proprio ruolo strategico.
La Slovenia e la Croazia, secondo il governo statunitense, non dovevano essere
riconosciute come nazioni sulla strada dell’indipendenza ma come Repubbliche
ribelli che sfruttavano la crisi istituzionale della Federazione per i loro scopi
12
. Tale
posizione era stata preceduta da una dichiarazione del Segretario di Stato, James
Baker, che aveva evidenziato, di ritorno da Belgrado, i rischi della dissoluzione della
Jugoslavia ed affermato la volontà della Casa Bianca di non ricompensare eventuali
atti unilaterali delle autorità repubblicane
13
. Progressivamente, l’amministrazione
americana si spostò su una posizione meno dura verso le Repubbliche secessioniste.
Il Presidente Bush invitò le parti in lotta, con un comunicato, a rispettare il cessate il
fuoco promosso dalla missione CEE
14
.
10
Pirjevec J., op. cit., Torino, Einaudi, 2002, pg.47.
11
Ibidem, in questo periodo si era aperto anche il dibattito sui rapporti tra NATO e Unione
occidentale europea.
12
La Repubblica, 8 luglio 1991.
13
Il Corriere della Sera, 3 luglio 1991.
14
L’intervento della missione europea verrà descritto nel “Capitolo III”.
11
Il sottosegretario di Stato Lawrence Eagleburger, ex ambasciatore a Belgrado,
sollecitò il governo federale a richiamare l’Armata popolare nelle caserme. La
portavoce del governo, Tutwiler, affermò che l’impiego della forza per mantenere
l’unità non sarebbe stato appoggiato dagli Stati Uniti, ma che si sarebbe riconosciuta
l’indipendenza delle Repubbliche secessioniste soltanto se si fosse conseguito un
accordo in modo pacifico
15
.
L’atteggiamento cauto e a volte contraddittorio degli Stati Uniti era determinato dalla
visione della Jugoslavia diffusa nel Dipartimento di Stato: era in ogni caso uno Stato
inserito nell’area sovietica e, da parte americana, non si voleva assolutamente
rischiare di favorire forze centrifughe in Unione Sovietica o all’interno di altri Stati
in fermento dell’Europa centro-orientale. Si trattava, forse, di una strategia per
guadagnare tempo e non favorire lo sviluppo di critiche, aumentate notevolmente
dopo la guerra del Golfo, relative alla presunta politica americana di ingerenza negli
affari interni di altri Stati.
Prima che gli ulteriori sviluppi portassero all’ampliamento degli scontri in Croazia
ed in Bosnia, spettò all’Europa occidentale occuparsi con le proprie forze politico-
diplomatiche della questione jugoslava. Si può azzardare l’ipotesi che la potenza
statunitense volesse quasi sfidare, ormai orfana del proprio vecchio antagonista
sovietico, la Comunità europea per saggiarne la compattezza e le capacità politiche di
fronte al mutamento del contesto geopolitico precedente. Con l’aggravarsi degli
scontri ed il fallimento della mediazione europea, gli Stati Uniti dovettero però
intervenire attivamente nella crisi.
15
Ibidem.
12
I.2: La posizione della CEE e quella dei singoli Stati europei
L’Europa guardava con grande attenzione alla crisi del comunismo ma sapeva ben
poco riguardo al pericolo di disgregazione della Federazione jugoslava. La Comunità
europea entrò in scena piuttosto tardi affermando, il 16 ottobre 1990, di essere
preoccupata per gli sviluppi della situazione in Jugoslavia
16
. In una conferenza
stampa concessa a Vienna, il Ministro degli Esteri italiano, Gianni De Michelis,
dichiarò a nome dell’intera Comunità europea che la Jugoslavia sarebbe dovuta
rimanere unita ed avrebbe dovuto garantire condizioni di democrazia, poiché soltanto
tali requisiti avrebbero agevolato il suo ingresso in Europa
17
. La CEE invitava in
modo indiretto la Repubblica jugoslava a studiare una soluzione per un nuovo assetto
da dare allo Stato federale. A tale dichiarazione rispose il consigliere del Presidente
croato Tudjman, Darko Bekic, affermando che la Croazia si sarebbe candidata al
processo di integrazione europea ma come Stato sovrano internazionalmente
riconosciuto
18
. Ed in tal modo si sarebbe presentata anche la Repubblica di Slovenia.
L’Europa non si era resa conto che la crisi politico-istituzionale gravante sulla
Jugoslavia aveva raggiunto ormai uno stadio molto avanzato e che i contrasti
interetnici prescindevano dai problemi di carattere economico ai quali la Comunità
europea dava priorità, visti gli strumenti di intervento in suo possesso. La CEE
presentò la propria posizione attraverso il Ministro De Michelis: l’Europa non voleva
intervenire negli affari interni del Paese ma, per entrare nella Comunità europea, la
Jugoslavia avrebbe dovuto reprimere le istanze nazionaliste ed antidemocratiche
presenti al suo interno. In modo involontario, si favorivano le tesi centraliste della
Serbia. Come sottolinea Pirjevec, unità e democrazia si escludevano a vicenda nel
sistema federale jugoslavo
19
.
16
Il Corriere della Sera, 17 ottobre 1990.
17
Ibidem.
18
Il Corriere della Sera, 18 ottobre.
19
Pirjevec J., op. cit. , pg. 37.
13
Quando Slovenia e Croazia proclamarono la loro indipendenza, l’Europa si trovò a
dover affrontare una crisi effettivamente sottovalutata e poco studiata. Le nuove
responsabilità della CEE la chiamavano a questo punto ad essere il baricentro delle
vicende balcaniche e di tutta la parte orientale del continente europeo, benché i
meccanismi comunitari non le permettessero ancora di avere grandi potenzialità di
intervento al di fuori dell’ambito economico. La disponibilità comunitaria a sostenere
lo sviluppo dell’area centro-orientale europea si era espressa, dalla fine del 1989,
attraverso varie iniziative di tipo puramente economico-finanziario, quali i
programmi “Phare” (Poland and Hungary Reconstruction, successivamente esteso ad
altri Paesi dell’Est, tra cui la Jugoslavia) e “Peco” (Paesi dell’Europa centro-
orientale). A questi si aggiungevano finanziamenti della Banca europea per la
ricostruzione e lo sviluppo e della Banca europea per gli investimenti.
Con il crollo del comunismo e l’emergere di nuove democrazie ad Est, i Paesi
dell’Europa orientale erano destinati a rivolgersi sempre di più alla CEE per cercare
l’ancoraggio economico e politico indispensabile per il proprio processo di
transizione. Mentre si faceva strada la paura di perdere le certezze raggiunte
attraverso l’integrazione europea, la CEE doveva far fronte al “bisogno dell’Est di
conquistare al più presto la sicurezza del mondo occidentale”
20
.
Dal punto di vista europeo, alla base di qualsiasi decisione riguardo alla crisi
jugoslava, vi era il problema di definire in modo preciso i confini orientali d’Europa,
ovvero quelli tra Europa occidentale ed Europa orientale, per poi riconsiderarne
completamente i rapporti. Questa definizione teorica avrebbe costituito la base per la
classificazione degli attori internazionali ammissibili nell’Unione europea, nella
NATO e nelle altre organizzazioni internazionali create nella parte occidentale
d’Europa.
Il confine generalmente riconosciuto quale spartiacque storico è quello esistente tra
i popoli dell’Occidente cristiano e quelli musulmani ed ortodossi d’Oriente ed ha
origine nella divisione dell’Impero romano del IV secolo e nella creazione del Sacro
Romano Impero del X secolo.
20
Kosic V., Echi di guerra su Trieste, Udine, Campanotto editore, 1997, pg. 43.
14
Questa divisione ideale percorre la Jugoslavia lungo il confine che separa Slovenia e
Croazia dalle altre Repubbliche jugoslave
21
. Si trattava di ridiscutere la distinzione,
dimenticata durante gli anni del bipolarismo, tra Europa centrale o mitteleuropea, ed
Europa orientale. Se la CEE avesse sostenuto da subito tale linea di confine avrebbe
di fatto concepito due zone distinte all’interno della Federazione jugoslava: una zona,
comprendente Slovenia e Croazia, definita propriamente europea ed una zona
ortodossa e musulmana appartenente all’Europa orientale vera e propria. Tale
concezione avrebbe quindi l’Europa a sostenere la disgregazione della Jugoslavia e
lo sconvolgimento dello status quo. Le posizioni dei Dodici restarono perciò molto
incerte riguardo a tali teorie divisorie. I governi occidentali preferirono continuare a
sostenere il governo federale di Ante Markovic e le riforme, con l’obiettivo di
mantenere l’unità dello Stato jugoslavo e lo status quo nei Balcani.
Un altro problema riguardava il fatto che l’Europa occidentale, così come gli Stati
Uniti, sosteneva due principi la cui contraddittorietà era evidente: il diritto
all’autodeterminazione dei popoli e l’intangibilità dei confini. I membri della
Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa
22
avevano firmato a Parigi,
nel 1990, una dichiarazione nella quale si riconosceva il diritto dei popoli
all’autodeterminazione ma, d’altro canto, si stabiliva anche l’intangibilità dei confini.
A tale contraddizione era difficile trovare una soluzione di compromesso: basarsi
sull’intangibilità delle frontiere significava sostenere in modo assoluto la
sopravvivenza della Jugoslavia ed affermare soltanto in via teorica il diritto
all’autodeterminazione. Si trattava di trovare il giusto equilibrio tra la salvaguardia
della stabilità in Europa ed il diritto all’autodeterminazione.
L’indipendenza della Slovenia e della Croazia non poteva realizzarsi se
condizionata al divieto di modificare i confini della Federazione. D’altra parte, la
disgregazione della Jugoslavia avrebbe potuto innescare un effetto a catena in tutta
l’Europa orientale. Le variabili etniche, linguistiche e socio-economiche erano molto
complesse, soprattutto in Unione Sovietica dove, con il crisi del regime, si stavano
moltiplicando e rafforzando le spinte secessioniste. Riconoscere l’indipendenza di
21
Huntington S. P. , Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997, pg.
228-229.
22
Per semplicità da ora in poi useremo l’acronimo CSCE.
15
Slovenia e Croazia avrebbe implicato il riconoscimento delle aspirazioni autonomiste
di molte altre entità in Europa orientale e non solo.
Quando scoppiò il conflitto armato, ci si trovò di fronte ad un altro problema:
bisognava decidere se considerare la guerra in Slovenia come un conflitto interno
alla Federazione jugoslava e limitarsi ad intervenire con mezzi diplomatici, o come
un’aggressione da parte dell’esercito contro dei soggetti autonomi, riconoscendone
così l’indipendenza. Vista dall’esterno, la crisi jugoslava manifestava lo stesso stato
di confusione esistente all’interno della Federazione e non sembrava per nulla
semplice scegliere se affrontarla come una guerra interna o come un conflitto
internazionale
23
, basandosi su argomenti giuridicamente validi.
Il diritto di secessione, menzionato nel Preambolo della Costituzione jugoslava, non
era tutelato da precise norme di attuazione, l’articolo 5 affermava: “Le frontiere della
Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia non possono essere modificate senza
l’accordo di tutte le Repubbliche e Province Autonome.” Le Repubbliche godevano
di una sovranità individuale non assoluta, bensì relativa ai poteri ed ai compiti fissati
dal dettame costituzionale. Dal punto di vista giuridico, dunque, risultava valido
sostenere l’unità della Federazione. L’uso della forza da parte dell’Armata popolare
jugoslava per reprimere le istanze autonomiste e la confusione all’interno
dell’apparato politico-istituzionale jugoslavo rendevano però molto difficile una
presa di posizione definitiva. Le posizioni dei singoli Stati all’interno della CEE e
della comunità internazionale nel suo insieme oscillavano a seconda dei rischi del
conflitto.
Tutte le questioni analizzate finora furono in un certo senso sottovalutate dalla CEE,
impegnata in quel momento a dare prova delle proprie capacità di gestione delle
crisi, e dell’efficacia della propria azione al di fuori dell’ambito economico. Ma, se
da una parte si cercava di dare un’immagine unitaria e ben consolidata della
Comunità europea, d’altra parte, le posizioni dei singoli Stati membri cominciavano
a farsi sempre meno omogenee. Di fronte al conflitto jugoslavo, i singoli governi
reagirono, per diverse ragioni, secondo due punti di vista contrapposti.
23
Panebianco M., Ascolese C., Tafuri A., Dossier ex-Jugoslavia 1991-1992, Salerno, Elea Press,
1993, pg. 106.