5
Per riuscire a comprendere l’importanza del saggio di Bobbio, nella nascita prima,
e nello sviluppo poi, della scuola analitica, è necessario compiere innanzitutto un
excursus che chiarifichi, seppur in termini molto generali, che cosa si intenda per
empirismo logico, per filosofia analitica, e per positivismo giuridico di stampo
kelseniano. Solo al termine di questo excursus cercheremo di analizzare il saggio di
Bobbio.
Quanto al primo, l’empirismo logico (o neopositivismo logico), esso altro non è
che un particolare e variegato movimento filosofico affermatosi all’inizio del nostro
secolo, il cui oggetto precipuo d’interesse è costituito dal problema della
metodologia della scienza. Problema intimamente connesso con quella grandiosa
trasformazione dei fondamenti del sapere scientifico (conosciuta anche come ‘crisi
delle scienze’) sorta sulle ceneri dell’illusione positivistica ottocentesca. Ad entrare
in crisi sono le due discipline più rappresentative della scienza: la matematica e la
fisica.
Per quanto riguarda la matematica, essa subisce una svolta rivoluzionaria in seguito
alla teorizzazione di geometrie non euclidee che, pur altrettanto rigorose di quella
euclidea, risultano però fondate su diversi principi. Ora, se le proposizioni prime di
un ragionamento matematico possono venire sostituite da altre, senza che questa
operazione comporti la non validità delle sue conclusioni − si argomenta − ciò
significa che vi è libertà nella scelta dei fondamenti primi. La scelta delle premesse
da cui parte ogni ragionamento scientifico non consegue, quindi, dall’evidenza in
qualche ordine fisico o metafisico di tali proposizioni, ma è libera, o meglio
convenzionale. La matematica si palesa così come una scienza dal carattere
ipotetico. Cade in tal modo l’idea aristotelica dell’apoditticità dei postulati, e con
essa uno dei fondamenti ritenuti più saldi della matematica stessa. Alle verità
iniziali ritenute di per sé evidenti e perciò assunte come postulati indiscutibili del
ragionamento scientifico, si sostituisce il nuovo concetto della convenzionalità
delle premesse, assunte altresì sulla base del risultato che si vuole ottenere.
sistematicamente Kelsen e il giuspositivismo in termini analitici o neoempiristi”. (Tutte le
citazioni sono tratte da M. JORI, Il giuspositivismo analitico italiano prima e dopo la crisi,
Milano, 1987, 22).
6
Per quanto riguarda gli schemi e le categorie della fisica classica sono da ricordare
come fattori scatenanti la crisi la teoria della relatività di Einstein e più ancora il
principio di indeterminazione di Heisenberg e la meccanica quantistica di Planck.
Le tre teorie si pongono, infatti, come una spada di Damocle sospesa su qualsiasi
verità assoluta che si voglia trarre dalle teorie fisiche.
E’ soprattutto sotto l’influenza di questa crisi, e come risposta ad essa, che si
forma il neopositivismo logico. Esso viene a proporre una nuova visione della
filosofia, la quale viene adesso vista come studio della metodologia scientifica:
scientia scientiarum.
Cerchiamo ora di affrontare lo sviluppo dell’empirismo logico poiché solo
attraverso l’analisi di tale sviluppo è possibile comprendere fino in fondo le tesi
fondamentali che esso ha proposto. La sua evoluzione può essere divisa, pur con la
consapevolezza dei limiti conoscitivi insiti in ogni classificazione, in almeno tre fasi.
La data di nascita ufficiale del neopositivismo è tradizionalmente posta nel 1922,
anno in cui Moritz Schlick assume la cattedra di filosofia delle scienze induttive a
Vienna. Ed è proprio nella città austriaca, sede di periodici incontri di discussione
fra quel gruppo di filosofi e scienziati4 che dal 1928 si definirà Circolo di Vienna5,
che matura la fase iniziale del neopositivismo. Tale prima fase, che può essere
definita, seguendo la classificazione fatta da Giulio Preti6, “empirismo stretto”
risente in particolare delle idee di Moritz Schlick (considerato con Hans Hahn
fondatore del Circolo), di Otto Neurath e del primo Carnap. Di quest’ultimo è da
ricordare Der Logische Aufbau Der Welt (1928), che costituisce l’opera
maggiormente rappresentativa di questa prima fase. L’empirismo in senso stretto
muove dalla constatazione che solo le proposizioni che rappresentano fatti sono
sensate. Solo le proposizioni empiricamente verificabili possono essere, infatti,
predicate di vero o di falso; nulla invece è possibile affermare con certezza su ciò
che esula dai fatti di esperienza. Tutto ciò che non è verificabile sensorialmente, in
quanto inaccessibile alla conoscenza scientifica, è quindi privo di senso. Ciò
4
Tra gli altri: R. Carnap, H. Feigl, P. Frank., H. Hahn, O. Neurath, M. Schlick, F. Waismann.
5
Al Circolo di Vienna si ricollegano le varie scuole neopositiviste inglese, tedesca, polacca,
scandinava e americana.
6
G.PRETI, “Le tre fasi dell’empirismo logico”, in Riv. critica di storia della filosofia, 1954, I,
38-51:40.
7
comporta un risoluto rifiuto verso ogni prospettiva metafisica, cioè verso ogni
tentativo di comprensione di ciò di cui nulla si può dire poiché trascende la
conoscenza ‘vera’, quella empirico-scientifica: le proposizioni metafisiche, e con
esse quelle teologiche od etiche, sono proposizioni non riducibili ai fatti e quindi
insensate. La metafisica è sinonimo di irrazionalità e come tale va combattuta, non
praticata. Essa crea confusione, disordine, ed allontana dalla conoscenza. “I termini
metafisici dividono − scrive Neurath nel 1933 − quelli scientifici uniscono”7.
Partendo da questo fondamento empirico della conoscenza scientifica, per il quale
un discorso che voglia essere significante deve necessariamente partire da
esperienze date, i filosofi del Wiener Kreis cominciano ad occuparsi della
costruzione del discorso stesso. Il compito della filosofia, in tal chiave, diventa
sempre più l’analisi del linguaggio; un linguaggio che deve svolgersi in modo
coerente con le regole logiche che si è preventivamente dato. Ma cosa sono queste
regole logiche che presiedono alla costruzione del linguaggio? Altro non sono che
le regole di formazione e di trasformazione degli enunciati, cioè le regole
determinanti l’uso del linguaggio stesso al fine di renderlo chiaro e rigoroso.
La filosofia come attività di analisi logica del linguaggio è l’idea centrale su cui si
muove la seconda fase dell’empirismo logico, che ha in Neurath e soprattutto in
Carnap i suoi più prolifici esponenti. Potremmo anche dire che in tale seconda fase
si pone l’attenzione sulla componente sintattica dell’originaria tesi neopositivista.
Questa fase, del cosiddetto “empirismo liberalizzato”8 secondo Preti, si occupa
della struttura del linguaggio della scienza. Sarà questa la fase, come vedremo in
seguito, che influenzerà maggiormente Bobbio.
Ma cos’è la scienza per i neopositivisti? La scienza è un sistema di enunciati che
sviluppandosi da proposizioni iniziali poste convenzionalmente e seguendo
determinate regole logiche, trae delle conclusioni coerenti con esse. E’ importante
sottolineare cosa implica questa semplice definizione di scienza. Innanzitutto dire
che la scienza è un sistema di proposizioni che viene costruito su basi iniziali
7
Vedi F.GENTILE “La cultura giuridica contemporanea tra scienza e storia” in Diritto e società,
1978, 495-505:496.
8
G.PRETI, “Le tre fasi” cit., 40.
8
convenzionali significa, come si è brevemente accennato parlando della crisi della
matematica, prescindere da ogni fondamento metafisico nella costruzione di un
discorso. Le proposizioni primitive non sono verità assolute, ma piuttosto
premesse ipotetiche (protocolli, nella terminologia neopositivista); la loro verità,
potremmo dire, è data esclusivamente dal fatto che su di esse si conviene che siano
vere. Ciò significa in sostanza che il neopositivismo logico ammette la pluralità
delle convenzioni: poiché le proposizioni di partenza di un discorso scientifico non
si assumono per una loro pretesa verità oggettiva, qualsiasi convenzione che riesca
a garantire coerenza e rigorosità al discorso può costituirne la premessa. Ciò che
rende scientifico un discorso è infatti il rigore con cui viene condotto, non il fatto
che si appoggi su proposizioni incondizionatamente vere. Il sapere scientifico si
riduce a sapere convenzionale in quanto si fonda su premesse ipotetiche. Ma qual è
l’atteggiamento psicologico che sta dietro alla scelta di porre convenzionalmente le
premesse? E’ la sfiducia nei confronti della conoscenza fondata sull’essenza, la
quale altro non comporta che infinite dispute senza risultati. Carattere
fondamentale della scienza per i neopositivisti logici non è, infatti, la sua verità
assoluta, bensì la sua validità.
Ci si allontana in questo modo decisamente dall’empirismo della prima fase, nel
quale attraverso la verifica empirica si poteva controllare la verità o la falsità di un
discorso. La validità delle proposizioni di partenza di un discorso non dipende più
dalla corrispondenza con l’oggetto (nella prima fase si richiedeva che ogni
enunciato fosse direttamente verificabile sensorialmente) ma dalla coerenza con la
totalità degli enunciati del sistema. Il metro per distinguere ciò che ha senso da ciò
che non ne ha (e di cui nulla dunque si può affermare) diventa quello della coerenza
col sistema, del rigore. Afferma efficacemente Luigi Caiani: “Gli asserti che [...] si
enunciano” in un discorso che voglia essere scientifico secondo il modello
epistemologico neoempiristico “non tanto reclamano la verità [...] di un certo
ordine di esperienze, o della totalità dell’esperienza stessa, quanto piuttosto la non
equivoca e rigorosa costruzione dei relativi punti di partenza e la comunicazione
metodologicamente ineccepibile dei propri convenzionali complessi di conoscenza;
non tanto si tratta di condurre e concludere la ricerca secondo regole di universale
[...] certezza, quanto di rispettare le convenzioni iniziali del discorso al fine della
9
sua relativa coerenza. Al concetto dogmatico della verità [...] si sostituisce, nella
concezione neo-positivistica della scienza, il concetto critico del rigore. Questo, e
non quello, in definitiva, è il criterio decisivo e determinante ai fini della
qualificazione della scientificità di una ricerca”9.
In secondo luogo la visione della scienza propria del neopositivismo logico è una
visione ‘neutrale’. Essa, infatti, non considera la morale o l’etica, non si occupa dei
valori. E’ una visione oggettiva, nel senso in cui si assume che le proposizioni
etiche sono soggettive, e dunque incerte.
Vi è, infine, un’ultima constatazione che non può sfuggire: dire che un sistema di
enunciati è scientifico se procede nel rispetto delle regole logiche che ha
preventivamente stabilito, comporta che tali regole di formazione e di
trasformazione degli enunciati possano variare da un sistema scientifico ad un altro
(è la cosiddetta pluralità delle logiche). “Ognuno è libero − dice Carnap in
Logische Syntax Der Sprache (1934) − di costruire la propria logica, cioè la
propria forma di linguaggio, nel modo che vuole. Tutto quello che si esige da lui,
se egli intende dar ragione del proprio metodo, è che lo stabilisca chiaramente e
suggerisca regole sintattiche invece di argomenti filosofici”10. Ciò che importa al
neopositivista, infatti, non è l’esistenza di una ‘vera’ logica, ma il fatto che le
regole logiche che presiedono a quel determinato discorso scientifico, una volta
poste, vengano rispettate. La pluralità delle logiche implica necessariamente la
molteplicità dei linguaggi; al variare delle regole logiche si accompagna, infatti, il
variare del linguaggio. Non esiste un unico ed assoluto linguaggio scientifico, ma
molteplici linguaggi tutti scientifici se rispettano le regole logiche che si sono dati.
La scientificità dei diversi linguaggi non dipende, quindi, dalla loro veridicità, ma
dal rigore con cui procedono, dalla loro coerenza. Il fondamento della scienza,
intesa in tal senso come sistema coerente di enunciati, sta tutto all’interno del
discorso scientifico. Il discorso dello scienziato neopositivista è un discorso che “si
preoccupa, per così dire, soltanto di se stesso: della coerenza del suo intrinseco
procedimento”11.
9
L. CAIANI, “Formalismo ed empirismo nella scienza del diritto” in Riv. Trim. di diritto e
procedura civile, 1953, 83-114: 88.
10
R. CARNAP, Sintassi logica del linguaggio, tr. it., Milano, 1961, 89.
11
L. CAIANI, “Formalismo” cit., 88.
10
Ciò non comporta, però, l’abbandono dell’empirismo. Il discorso scientifico,
infatti, rimane “un mero gioco, un semplice muovere (combinare) dei ‘pezzi’
secondo regole convenzionali”, se attraverso di esso non “si giunga a dire
qualcosa intorno al mondo delle cose empiriche”12. L’importante è, quindi, che il
sistema di enunciati che si è costruito non rimanga fine a se stesso, ma possa essere
interpretato in termini empirici, cioè possa essere tradotto in un enunciato di
osservazione.
La terza fase dell’empirismo (Preti parla di “empirismo largo”)13 si caratterizza per
uno sviluppo extra-europeo. Il Circolo di Vienna viene infatti disciolto alla vigilia
della seconda guerra mondiale e molti dei suoi esponenti di spicco, che sono in
gran parte ebrei, si rifugiano negli Stati Uniti per evitare di essere perseguitati. Qui
essi si raccolgono intorno alla cosiddetta scuola di Chicago, la quale può a buon
diritto considerarsi l’erede del Wiener Kreis. Grazie all’incessante ripensamento e
all’articolazione delle tesi precedenti da parte dei membri emigrati, influenzati dal
pragmatismo americano, le idee del Circolo subiscono, però, una evidente
trasformazione. Uno degli aspetti più caratteristici di tale trasformazione è che il
linguaggio scientifico non costituisce più, come in precedenza, l’oggetto specifico
ed unico dell’indagine filosofica neopositivista. Il neopositivismo non è più solo
analisi del linguaggio della fisica o della matematica, non è più solo filosofia della
scienza. La prospettiva d’indagine si allarga infatti verso campi del sapere come
quello valutativo o persuasivo, sconosciuti all’indagine viennese. Ma in questa
terza fase del neopositivismo la stessa analisi del discorso scientifico si fa più
attenta. Questa attenzione maggiore porta alla chiara esplicitazione della struttura
duale della scienza empirica14. Nella scienza empirica convivono, infatti, due
diverse componenti: da una parte l’apparato deduttivo che permette la
“definizione-costruzione convenzionale”15 di concetti formali; dall’altra la necessità
di far corrispondere a tali concetti formali dei contenuti empirici, cioè la necessità
di associare i concetti formali a fatti sperimentalmente osservabili. Ogni discorso
12
G.PRETI, “Le tre fasi” cit., 45.
13
Ibid., 40.
14
Tale concezione si fa risalire a H. Reichenbach, esponente di spicco della scuola neopositivista
di Berlino.
15
G.PRETI, “Le tre fasi” cit., 48
11
scientifico, quindi, si risolve in un sistema deduttivo di enunciati-simboli che avrà
senso fattuale quando tali enunciati, o almeno alcuni di essi, saranno associabili ad
enunciati osservabili.
Con la fine della guerra ed il ritorno in Europa di molti dei suoi rappresentanti
l’empirismo, ormai molto diverso da quello originario, si risolve nel vasto e
composito movimento della Filosofia analitica. Tale movimento, nato presso
l’università di Cambridge, fiorisce soprattutto ad Oxford e da qui si diffonde, in
maniera più o meno originale, in molte università australiane ed americane, oltre
che nella maggior parte di quelle britanniche. Nonostante tale enorme diffusione è
certamente possibile una definizione unitaria di filosofia analitica. Vi è infatti
almeno un comune punto di partenza fra gli analisti americani, prevalentemente
pragmatisti, gli oxoniensi del linguaggio comune, e gli analisti degli altri paesi. Tale
comune punto di partenza, il concetto fondamentale dal quale si sviluppano le
diverse idee delle diverse correnti, è che “fa parte dell’essenza del pensiero essere
comunicabile senza residui attraverso il linguaggio”16. Da ciò deriva che il
linguaggio non è solo un essenziale strumento comunicativo, un modo per
esprimersi; esso è anche e soprattutto il necessario veicolo del pensiero. Su tale
concezione del rapporto pensiero-linguaggio si fonda quel peculiare modo, proprio
della filosofia analitica, di concepire e praticare il lavoro filosofico che è l’analisi
del linguaggio. Se il pensiero è comunicabile attraverso il linguaggio, infatti, ciò
significa che se si vuole analizzare tale pensiero, se si vuole comprenderne le regole
di funzionamento, si deve studiare il modo in cui ci serviamo del linguaggio.
L’analisi del pensiero passa necessariamente, in tal chiave, per l’analisi del
linguaggio. Poiché la struttura del conoscere è la struttura del linguaggio −
potremmo anche dire − sorge la necessità filosofica di fare luce sull’uso degli
strumenti linguistici. La filosofia analitica concepisce quindi come ‘vero’ metodo
della filosofia l’analisi del linguaggio, cioè la determinazione ed il controllo del
modo d’uso dei segni linguistici. Può essere di notevole chiarimento a quanto detto
la definizione di filosofia analitica di Uberto Scarpelli. La filosofia analitica è
“l’insieme della attività di quei filosofi che sono caratterizzati da una viva
16
M. DUMMET, Truth and Other Enigmas, trad. it. parziale, Milano, 1986, 33.
12
preoccupazione per il linguaggio, il modo di usarlo, i significati dei segni linguistici
e le loro regole logiche”17.
Solo attraverso l’indagine sul linguaggio si possono, nella prospettiva analitica,
affrontare ed eliminare i tradizionali problemi filosofici. “I problemi filosofici −
sono ancora parole di Scarpelli − nascono nel linguaggio e si risolvono lavorando
sul linguaggio”18. Ciò significa, in sostanza, che le tradizionali questioni filosofiche
vengono trasformate da questioni ontologiche in questioni sul significato, cioè sul
senso degli enunciati che le esprimono. I problemi della conoscenza si riducono,
per gli analitici, a problemi di linguaggio. Potremmo concludere che per un
analitico sapere come l’uomo parla equivale a sapere come l’uomo conosce.
Questa scelta metodologica di carattere linguistico, sia detto per inciso, avvicina la
filosofia analitica all’ermeneutica, visto che anche per quest’ultima il problema
linguistico costituisce l’oggetto principale dell’indagine filosofica.
La definizione di filosofia analitica sarebbe però troppo superficiale se non si
accennasse perlomeno ai suoi quattro strumenti concettuali fondamentali,
individuati da Mario Jori. Qualsiasi filosofo analitico che voglia dirsi tale non può
prescindere:
1) Dalla distinzione tra analitico-empirico e sintetico-logico. E’ empirico un
giudizio che produce nuova conoscenza, che ci da informazioni sui fatti. E’ logico,
invece, un giudizio che non aggiunge nulla di nuovo al conosciuto, ma
semplicemente lo ripete in termini diversi. Il giudizio logico, in sostanza, ridispone
dati che già abbiamo nelle premesse, cioè formalizza diversamente ciò che già
sappiamo.
2) Dalla distinzione tra livelli di discorso-linguaggio. Bisogna distinguere i
discorsi dai metadiscorsi. I primi sono quella parte del linguaggio che parla della
realtà, delle cose. Essi rappresentano i fatti. I secondi sono discorsi che parlano di
altri discorsi. L’oggetto dei metadiscorsi sono, quindi, i vari linguaggi. I
metadiscorsi possono essere a loro volta distinti in descrittivi (pensiamo al caso di
un linguista che descrive la lingua italiana) o prescrittivi (pensiamo al caso di un
grammatico che prescriva come parlare correttamente).
17
U. SCARPELLI, Filosofia analitica, norme e valori, Milano, 1962, 9.
18
Ibid., 15.
13
3) Dalla cosiddetta ‘grande divisione’ tra essere e dover essere. Ogni buon
analitico è pienamente consapevole di non poter trarre giudizi di valore
(prescrizioni) da giudizi di fatto (descrizioni). I due ambiti sono fra loro
completamente separati e irriducibili.
4) Dalla distinzione tra contesto di giustificazione e contesto sociologico. Il
primo si occupa delle regole che presiedono alla formazione, al mantenimento, al
controllo del linguaggio. Il contesto di giustificazione è un contesto che astrae dalla
realtà. Non astrae invece dalla realtà, bensì si accorda con essa, il contesto
sociologico. In esso si producono i fatti.
Veniamo ora a parlare del positivismo giuridico di tipo kelseniano. Esso può essere
fatto rientrare, seguendo la classificazione di Jori19, nel giuspositivismo della
seconda fase. Il giuspositivismo, dice Jori, è quella particolare concezione del
diritto che riduce il diritto stesso a norma positiva . Ciò che discerne le due diverse
fasi è la differente concezione di cosa si debba intendere per norma. Nella prima
fase (cosiddetto imperativismo) la norma viene configurata come il comando del
sovrano, sostenuto dalla minaccia della sanzione, di fare o di non fare alcunché. Il
diritto, quindi, può definirsi come l’insieme degli imperativi emanati dal sovrano.
Solo ciò che è ‘posto’ dal sovrano, cioè da colui che a nessuno obbedisce e a cui
tutti devono obbedire, può assumere al rango di diritto. La fonte del diritto è,
perciò, la volontà del legislatore stesso. Questa concezione imperativista è
particolarmente importante nella storia contemporanea in quanto “accompagna il
sorgere degli stati nazionali moderni (in Europa) e la monopolizzazione da parte di
questi del diritto”20, che diventa instrumentum regni. L’idea centrale che il diritto
si risolva nella manifestazione di volontà del sovrano innanzitutto riduce il compito
della giurisprudenza a mera “lettura di comandi”21. La giurisprudenza, cioè, si
risolve nell’interpretazione delle intenzioni implicite negli imperativi del sovrano.
Questa concezione dell’interpretazione come ricostruzione, come accertamento
dell’effettiva volontà del sovrano, è anche conosciuta come “formalismo
19
M.JORI, Il giuspositivismo analitico cit., 9.
20
Ibid., 10.
21
Ibid., 11.
14
interpretativo”. In secondo luogo distacca l’obbedienza alla legge da ogni
considerazione morale; l’obbedienza alla legge si risolve, infatti, nell’obbligo
eticamente neutrale di obbedire all’ordine sostenuto da quella minaccia di un male
che è la sanzione.
Prima di passare all’esame della seconda fase del giuspositivismo è necessaria una
precisazione. Il fatto che l’imperativismo sia stato criticato e superato, come
vedremo fra breve, dal giuspositivismo kelseniano, non deve indurre a credere che
esso sia morto. Ne è consapevole, del resto, anche Jori: “Non si deve [...] pensare
− afferma infatti il nostro − che l’imperativismo, e le forme semplici di
giuspositivismo, siano scomparse dalla cultura giuridica per il fatto che nessun
teorico del diritto oggi le sostiene. Al contrario esse rappresentano la concezione
del diritto, di solito implicita, probabilmente più diffusa tra i giuristi positivi”22.
La seconda fase del giuspositivismo, quella che a noi interessa più direttamente, ha
proprio in Kelsen il suo più apprezzato rappresentante. Egli mantiene l’idea
centrale del positivismo giuridico, cioè la riduzione del diritto a norma, ma rifiuta
decisamente l’imperativismo. La norma giuridica, per Kelsen, non è un vero
comando di una vera persona. Essa è piuttosto una entità impersonale, un giudizio
ipotetico di dover essere. Tale giudizio ipotetico di dover essere può venire bene
espresso come regola del seguente tipo: ‘se si verificano queste date condizioni
allora deve essere inflitta quella data sanzione’. Dal che consegue che la norma è la
relazione fra il comportamento illecito, la condizione, e la sanzione, cioè la
coazione stabilita come conseguenza del comportamento illecito.
Tale concezione kelseniana della norma pone il problema della realtà del diritto,
della sua esistenza. Qual è, infatti, la realtà di un giudizio impersonale? A questo
interrogativo risponde la celebre teoria della norma fondamentale. Ogni norma,
sostiene Kelsen nella sua Dottrina pura del diritto (1934), poggia la propria
validità23 su un’altra norma superiore e precedente dell’ordinamento, la quale, a
sua volta, si fonda su una ulteriore norma di ordine superiore, e così di seguito fino
a giungere alla norma fondamentale (Grundnorm). Tale norma fondamentale, o di
22
Ibid., 12s.
23
Va sottolineato, a giustificazione di quanto detto, come Kelsen sostenga che una norma è
esistente come tale quando è valida, ed in tal modo identifichi il problema dell’esistenza della
norma giuridica con quello della sua validità.
15
riconoscimento, costituisce in sostanza il criterio finale di validità dell’ordinamento,
cioè conferisce validità a tutto il sistema giuridico così costruito.
Ogni norma si trova, seguendo la teoria kelseniana, in una posizione duplice: di
preminenza rispetto alle norme subordinate che traggono da essa validità, ma allo
stesso tempo in una posizione di subordine rispetto alla norma che la controlla. Le
norme giuridiche, cioè, stanno fra di loro in scala gerarchica e costituiscono un
sistema unitario e coerente di norme valide. L’ordinamento giuridico viene quindi
presentato come una costruzione a diversi gradi (Stufenbau) di norme giuridiche
che traggono tutte validità dalla norma fondamentale, che da tutte è presupposta e
da cui tutte deriverebbero24. E’ emblematico, a tal proposito, il passo in cui Kelsen
afferma che l’ordinamento giuridico è “un sistema di norme generali ed individuali,
connesse fra di loro in base al principio che il diritto regola la propria creazione” e
che “ogni norma di tale ordinamento è creata secondo le disposizioni di un’altra
norma, ed alla fine secondo le disposizioni della norma fondamentale, la quale
costituisce l’unità di quel sistema di norme”25.
Ma da dove trae la propria validità questa norma fondamentale?
La Grundnorm, afferma Kelsen, è norma “non posta ma presupposta”26. Essa, cioè,
a differenza delle altre norme giuridiche, che sono valide in quanto poste secondo
le prescrizioni di norme a loro superiori, non è posta secondo le indicazioni di una
qualche norma ancora superiore, ma è presupposta dalla scienza del diritto. Ma il
fatto di essere norma “non posta ma presupposta”, non basta di per sé, sostiene
Kelsen, a dar validità alla norma fondamentale. Ci vuole un criterio,
scientificamente giustificato (cioè in sostanza neutrale), che permetta di individuare
la norma fondamentale esistente fra le infinite teoricamente possibili. Il criterio al
quale ricorre Kelsen è quello dell’effettività, dell’efficacia: perché la Grundnorm sia
valida è necessario, egli sostiene, che l’intero ordinamento sia efficace.
Vediamo ora due implicazioni fondamentali della teoria giuridica kelseniana.
1) In primo luogo va sottolineato lo sforzo teorico fondamentale di Kelsen,
quello di emancipare dal processo conoscitivo giuridico ogni elemento valorativo e
24
Poiché tutte le norme giuridiche derivano dalla norma fondamentale, l’ordinamento giuridico
kelseniano si presenta come un sistema ‘chiuso’.
25
H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., Milano, 1959, 134.
26
H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, tr. it., Torino, 1952, 75.
16
con esso l’irrazionalità, l’emotività, la soggettività. Ogni giudizio di valore,
essendo emozionale ed ideologico, riduce la conoscenza a pseudo-conoscenza, a
conoscenza illusoria, proprio perché esso è conoscitivamente inammissibile27.
Partendo da queste premesse Kelsen propone la propria teoria generale del diritto,
una teoria basata sulla esigenza di un affinamento scientifico della ricerca giuridica.
L’ideale al quale deve aspirare la scienza giuridica, se vuole essere avalutativa, è
quello della scienza contemporanea, l’ideale della purezza scientifica. Compito
primo della scienza giuridica, in tal chiave, è quello di delimitare precisamente
l’oggetto del proprio conoscere, escludendo da esso tutto ciò che trascende quanto
è esattamente determinato come diritto. Abbiamo visto precedentemente come tale
delimitazione si compia in sostanza nel ridurre il diritto a norma; con tale riduzione,
che fa di Kelsen un giuspositivista a tutti gli effetti, egli in ultima analisi disconosce
la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo: non esiste altro diritto che
quello posto. Ciò comporta che la scienza giuridica in niente altro si risolve che in
scienza limitata alla conoscenza delle norme; oggetto di analisi della scienza
giuridica sono solo le proposizioni normative e − fra queste − in modo eminente
quelle legali .
Possiamo anche dire, quindi, che essendo le norme giudizi ipotetici di dover essere,
la scienza del diritto è una scienza del dover essere. Questa conclusione, a scanso
di equivoci, va correttamente analizzata alla luce di quanto già detto. Dire che la
scienza giuridica è la scienza del dover essere, non significa in alcun modo
assumere una prospettiva morale. La scienza giuridica, infatti, poiché è conoscenza
del diritto, non può che rappresentare il diritto cosi come esso è, non può che
descriverlo, prescindendo da come esso dovrebbe invece essere. Il diritto viene in
tal modo liberato dalla scienza giuridica da ogni contaminazione metagiuridica, da
ogni obbligatorietà morale. Parlare di giustizia del diritto, di diritto naturale, dice
Kelsen, altro non comporta che indebite intrusioni ideologiche ed etico-politiche
che conducono distante dalla ‘vera’ conoscenza. Kelsen rifiuta quindi
drasticamente ogni possibile rapporto fra diritto e morale. Diritto e morale vanno
decisamente separati. La Giustizia, intesa come valore assoluto, è un ideale
27
Non è possibile nascondere l’influenza su Kelsen del pensiero neopositivista, e più in
particolare del neopositivismo della prima fase. Kelsen fu infatti in contatto (forse si potrebbe
17
irrazionale sganciato da ogni esperienza empirica e in quanto tale inaccessibile alla
nostra conoscenza razionale. Riassumendo si può dire che, poiché l’essenza della
scienza giuridica è di comprendere il proprio oggetto e solo esso, non può non
rimanerle estraneo il problema del valore, che è problema estrinseco rispetto al
dato conoscibile come propriamente giuridico: la scienza giuridica, in quanto
scienza, ha il compito di conoscere il diritto, di studiarlo, non di prescrivere come
vorrebbe che fosse.
Prima di concludere, è necessario sottolineare come il tentativo di Kelsen di
emancipare dal processo conoscitivo giuridico ogni elemento valorativo, è
generalmente considerato oggi un tentativo non riuscito. Fra le varie critiche alla
‘purezza’ della teoria kelseniana, due sono particolarmente diffuse, entrambe
fondate su una attenta analisi del concetto kelseniano di norma fondamentale.
La prima si concentra, in particolare, sul problema della validità della norma
fondamentale in Kelsen. La norma fondamentale è valida per Kelsen, lo abbiamo
visto supra, quando l’intero ordinamento è efficace, cioè “quando le norme di
questo ordinamento giuridico sono, in generale, obbedite da chi [vi] è soggetto”28.
Ora, se la validità della Grundnorm riposa sull’efficacia dell’ordinamento, ciò
significa in sostanza che una valida norma fondamentale può venir posta solo da chi
sia riuscito, di fatto, ad affermarsi sugli altri e a mantenere il predominio, ovvero
solo da chi detiene il potere. “Chi ha vinto − scrive Capograssi − diventa padre
della costituzione, legislatore e la sua volontà in quanto e fino a quando ha la forza
di farsi obbedire, diventa valida”29. Il diritto viene, quindi, a stringere un rapporto
di dipendenza dalla politica, e si trasforma in un prodotto del potere politico. Una
conclusione questa che, in sostanza, nega la possibilità di spiegare il diritto positivo
dall’esclusivo punto di vista giuridico, ed in tal modo fa barcollare, proprio nelle
sue fondamenta, la validità della costruzione kelseniana.
La seconda, invece, sottolinea come la decisione di Kelsen di fondare l’intero
edificio dell’ordinamento giuridico sulla Grundnorm sia una decisione non
teoretica, ma di natura ideologica (l’ideologia che la regge sarebbe quella dello
addirittura parlare di collaborazione) col Circolo di Vienna.
28
H. KELSEN, Teoria generale cit., 173.
29
G. CAPOGRASSI, “Impressioni su Kelsen tradotto”, in Riv. Trim. di diritto pubblico, 1952,
767-810: 782.
18
stato di diritto). Solo esplicitando tale natura ideologica, la teoria kelseniana può
dirsi coerente.
2) L’altra implicazione della teoria kelseniana che occorre sottolineare è questa:
la teoria pura del diritto non combatte solo contro il diritto naturale, inteso come il
campo dei valori soggettivi ed irrazionali in quanto tali irriducibili a conoscenza
razionale. Essa combatte anche contro la confusione tra sociologia e scienza
giuridica. La prima studia i fenomeni sociali, i fatti. Il suo campo di indagine è
l’essere. La seconda, invece, studia il diritto, le norme, cioè strutture di
qualificazione dei fatti. Il suo campo di indagine è il dover essere. Giurisprudenza e
sociologia vanno, perciò, separate nettamente essendo differenti i loro oggetti.
I.2. IL CONTRIBUTO DI N. BOBBIO
Avendo così succintamente chiarito cosa si intenda con empirismo logico, filosofia
analitica e positivismo giuridico di stampo kelseniano, ci accingiamo ora ad
analizzare il saggio di Bobbio Scienza del diritto e analisi del linguaggio. In
questo saggio Bobbio cerca di risolvere l’annoso problema della scientificità della
giurisprudenza. L’idea fondamentale da cui parte Bobbio è che tale problema,
tradizionalmente affrontato negando alla giurisprudenza valore di scienza, debba
essere ricondotto alla concezione della scienza stabilita dall’empirismo logico. La
negazione del valore scientifico alla ricerca del giurista è conseguenza, secondo
Bobbio, di vecchie concezioni epistemologiche. “La giurisprudenza − egli dice −
sino ad oggi non è mai riuscita a riconoscere pienamente se stessa nella definizione
di scienza che è stata via via formulata dalle diverse teorie della scienza”30. Infatti,
egli argomenta, se prendiamo come esempi storici le due più grandi concezioni
della scienza che abbiano avuto corso nell’età moderna, potremmo facilmente
constatare come entrambe siano tali da non permettere di definire scientifiche le
ricerche dei giuristi .
30
N. BOBBIO, “Scienza” cit., 343.