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Capitolo Primo
Rodari: una vita divisa tra giornalismo e romanzi per l’infanzia
1.1. L’infanzia e la giovinezza
Gianni Rodari nasce ad Omegna, sul lago d’Orta, in provincia di Novara, il 23 ottobre
1920, da genitori lombardi. Il padre, Giuseppe, esercita l’attività di fornaio nella
centrale via Mazzini. È alle sue seconde nozze: quando si risposa con Maddalena
Aricocchi, ha già un figlio, Mario, di dodici anni.
Appena nato, Gianni è affidato ad una balia, in quanto la madre non può accudirlo,
dovendo aiutare il marito nel negozio. A circa un anno di distanza nasce il fratello
Cesare. Il negozio dei genitori si affaccia sulla via: sul retro c’è il forno, al piano
superiore l’abitazione. L’edificio è a pochi metri dalla riva del lago. Sono queste le
prime immagini che colpiscono il piccolo Rodari: il lago e la corona dei monti.
Gianni è un bambino schivo, basso e di corporatura minuta, che non lega con i
coetanei. Ha un buon rapporto con il fratello Cesare, ma non lo segue nelle sue
scorribande. Il fratello maggiore, Mario, ricordato come un ragazzo vivace, un po’
turbolento, non ha confidenza con i fratelli minori, anche per la notevole differenza di
età.
Gianni trascorre molto tempo da solo, rifugiandosi soprattutto nella lettura; forse è
proprio questa condizione di solitudine a stimolare in lui la contemplazione e le
fantasticherie e a renderlo precocemente pensoso.
Tre esperienze sembrano essere fondamentali nell’infanzia di Rodari: l’ambiente, il
padre e la religione. Gli basta infatti guardarsi intorno, dal cortile di casa, soprattutto
nella Omegna di allora, per abbandonarsi a suggestioni fantastiche. Le poche cose
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che ricorderà dell’infanzia, infatti, saranno soprattutto fantasie solitarie. Il rapporto
con la madre, persona controllatissima, rigida, molto credente e legata alla chiesa,
non deve essere stato facile; comunque non caldo ed espansivo. È ricordata come una
donna energica, ai figli impone in casa ordine e pulizia, e di fronte al vicinato è
un’impeccabile perbenista. È da lei che il piccolo Gianni subisce un forte influsso
religioso.
Con il padre Gianni ha un maggiore legame affettivo, anche perché, come il fratello
Cesare, trova in lui rifugio e compensazione alla disciplina pretesa dalla madre. Il
padre, infatti, è l’unico familiare a ricorrere più volte nei suoi ricordi. Così lo descrive
Rodari:
«seduto su un sacco di riso Vialone vuoto a metà, con gli occhi delle lenti ovali sul
naso che ora è mio, fornaio e anticlericale, l’uomo che chiuse gli occhi per non
vedermi vestito da Balilla, l’uomo che rivedo, ogni volta che guardo in una cartolina
il campanile di Omegna. Stessa espressione severa e ironica, stessa disperazione
saggia e ostinata. Stessi occhi, campane a parte. L’ultima immagine che conservo di
mio padre è quella di un uomo che tenta invano di scaldarsi la schiena contro il forno.
È fradicio e trema. È uscito sotto il temporale per aiutare un gattino rimasto isolato
tra le pozzanghere. Morirà dopo sette giorni, di bronco-polmonite. A quei tempi non
c’era la penicillina […]»
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.
Più volte, soprattutto nelle prime filastrocche, Rodari riprenderà il tema del forno e
del pane. Stranamente, però, la figura paterna non ha mai molto rilievo nelle sue
poesie, nei racconti, nei romanzi. Invece, come per un transfert, frequentissima è la
presenza dei gatti, l’animale così legato alla morte del padre e che questi amava
molto. Una notte che nel forno presero fuoco le fascine, fu proprio un gatto tenuto in
casa a irrompere terrorizzato nella camera dei coniugi e a svegliarli, permettendo di
spegnare l’incendio che stava sviluppandosi pericolosamente. Nessun altro scrittore
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M. Argilli, Gianni Rodari. Una biografia, Einaudi, Torino 1990, pp.68.69.
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per l’infanzia ha forse presentato una così sterminata galleria di gatti, sempre visti
con amore e simpatia.
La morte del padre, nel 1929, per Gianni è un trauma profondo, anche perché
determina un netto cambiamento nella vita e nelle condizioni economiche della
famiglia, e il trasferimento dalla natia Omegna. La madre, infatti, dopo la morte del
marito, manda il figlio da una sorella nubile, che lavora nella casa del capostazione di
Gavirate. Gianni vi resta un paio di mesi. A nove anni, solo e ancora traumatizzato
del lutto, si ritrova nella favolosa atmosfera di una stazione, affascinato dal passaggio
e dalle manovre dei treni, immerso in inevitabili fantasie di viaggio, e forse invidioso
della felice libertà dei viaggiatori. Anche i treni diventeranno un «motivo» della sua
opera, a cominciare dal secondo volume di poesie, Il treno delle filastrocche, del
1952.
A undici anni entra nel seminario di San Pietro Martire di Seveso, presso Milano, e
ne esce a quattordici anni. La vocazione è ormai sparita, anche se non ancora il
sentimento religioso.
Da privatista dà gli esami per il diploma di terza ginnasiale. Tra il 1934 e il 1937
frequenta l’Istituto magistrale Manzoni di Varese e per provvedere alle sue piccole
spese personali, dà lezioni private. Mentre frequenta le magistrali, per tre anni prende
lezioni di violino e sarà proprio la musica a farlo legare con alcuni coetanei; in questo
periodo, due amici influiscono fortemente su di lui: Nino Bianchi (che suona il
mandolino) e Amedeo Marvelli, che scrive poesie e dipinge, e con il quale ha comuni
interessi e rispondenze culturali. Sia Nino che Amedeo moriranno giovanissimi,
drammaticamente, e Rodari li ricorderà non solo nella Grammatica della fantasia, ma
soprattutto in molte poesie e scritti inediti:
«… Santa Caterina del Sasso, un santuario a picco sul lago Maggiore. Ci andavo in
bicicletta. Ci andavamo insieme, Amedeo e io. Siedevamo sotto un fresco portico a
bere vino bianco e a parlare di Kant. Ci trovavamo anche in treno, eravamo entrambi
studenti pendolari. Amedeo portava un lungo mantello blu. In certi giorni sotto il
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mantello s’indovinava la sagoma dell’astuccio del suo violino. La maniglia del mio
astuccio è rotta, dovevo portarlo sotto il braccio.[…]… spesso Amedeo e io
passavamo pomeriggi interi nei boschi a parlare di Kant, Dostoevskij, di Montale, di
Alfonso Gatto. Le amicizie dei sedici anni sono quelle che lasciano i segni più
profondi nella vita»
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.
Intanto, nel 1937, Rodari si è diplomato maestro, preparando da solo, in un anno,
l’ultimo biennio. All’inizio del 1938, a Cascina Piana (Sesto Calendre), per sei mesi è
istitutore presso una famiglia di ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania, e con loro
approfondisce la conoscenza del tedesco:
«Nell’inverno 1937-38, in seguito alla raccomandazione di una maestra, moglie di un
vigile urbano, venni assunto per insegnare l’italiano ai bambini in casa di ebrei
tedeschi che credevano - lo cedettero per pochi mesi – di aver trovato in Italia un
rifugio contro le persecuzioni razziali. Vivevo con loro, in una fattoria sulle colline
presso il lago Maggiore. Con i bambini lavoravo dalle sette alle dieci del mattino. Il
resto della giornata lo passavo nei boschi a camminare e leggere Dostoevskij. Fu un
bel periodo, fin che durò. Imparai un po’ di tedesco e mi buttai sui libri di quella
lingua con passione, il disordine e la voluttà che fruttano a chi studia cento volte più
che cento anni di scuola»
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Nel 1939 si iscrive all’Università Cattolica di Milano, alla facoltà di lingue: dà alcuni
esami, ma poi abbandona i corsi. Nell’anno scolastico 1939-1940 insegna per brevi
periodi a Ronco di Angera e a Cardana. Nel 1940 l’Italia entra in guerra, ma Rodari
non viene richiamato alle armi, essendo stato dichiarato rivedibile per ragioni di
salute. Nel 1941 vince il concorso per maestro e insegna ad Uboldo (Saronno) come
supplente.
«[..] dovevo essere un pessimo maestro, mal preparato al suo lavoro e avevo in mente
di tutto, dalla linguistica indo-europea al marxismo[…]…; avevo in mente di tutto
2
G. Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi Ragazzi, 2010, p. 12.
3
Ivi, p.7.
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fuor che la scuola. Forse, però, non sono stato un maestro noioso. Raccontavo ai
bambini, un po’ per simpatia un po’ per voglia di giocare, storie senza il minimo
riferimento alla realtà né al buonsenso, che inventavo servendomi delle tecniche
promosse e insieme deprecate da Breton»
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.
Il dramma della guerra lo colpisce profondamente anche nei suoi affetti personali: nei
primi giorni del conflitto Nino Bianchi muore nell’affondamento di una nave
militare, Amedeo Marvelli muore in Urss, il fratello Cesare viene internato in un
campo di concentramento in Germania. La tragica scomparsa dei due amici gli peserà
sempre: più volte li ricorderà in appunti e poesie, come nel 1964, quando tornato da
un viaggio in Urss, in una poesia intitolata Il treno del Caucaso, rievoca l’emozione
provata pensando ad Amedeo Marvelli:
«ed io rimasi solo
tra l’Europa e l’Asia
rotolando ai piedi dell’Elbrus
con un fischio lamentoso
rimasi solo atterrito
come l’uomo che si sveglia in treno
e capisce che non tornerà dalla guerra
A. dorme in terra russa
ha tutte le Russie per cimitero
una tromba grande come il mondo,
se c’è un mondo grande come una tromba,
una steppa sotto la neve
sotto la neve sotto la steppa
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Ibidem