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CAPITOLO PRIMO
Domenico Rea: una febbrile attività giornalistica
1.1 L‟esordio di Domenico Rea sulle testate giornalistiche
Dalle indagini svolte per comprendere al meglio i numerosi scritti
di Domenico Rea appaiono evidenti due livelli di scrittura: da un
lato quello narrativo, il quale risente dell‟influsso della prosa d‟arte
soprattutto per ciò che concerne il piano lessicale e prettamente
linguistico, dall‟altro quello critico, caratterizzato da un linguaggio
fulmineo, metaforico, per lo più aderente al reale, che influirà sui
suoi successivi racconti. Confrontando le due attività, si può
affermare che il Rea critico pare molto più avanti rispetto al Rea
narratore: nella narrativa, infatti, il nostro autore sembra molto più
preoccupato a rimanere attaccato a certi stili tipici della comunità
letteraria del tempo, di cui non riesce a liberarsi, fattore che non è
stato riscontrato, invece, sul piano giornalistico.
L‟attività giornalistica di Rea gioca un ruolo fondamentale nello
stabilire un certo legame dell‟autore con il suo lettore, attraverso la
rappresentazione del reale in una forma diretta ed immediata. Dal
novembre 1941 al maggio 1943 Domenico Rea collabora con il
settimanale di Salerno «Il Popolo Fascista» come giornalista,
producendo scritti di vario genere, tra cui diversi racconti di
ambientazione provinciale e svariati articoli. La lista completa degli
articoli, che spesso si presentano come semplici bozzetti, è la
seguente: Salerno, la città girasole, pubblicato il 23 marzo 1942;
Primavera: variazioni sul tema, pubblicato il 15 giugno 1942;
16
Dell‟Armonia, pubblicato il 28 settembre del 1942; La guerra dei
gangsters, pubblicato il 10 maggio 1943. L‟elenco, invece, dei
racconti, è il seguente: Viola e turchino, pubblicato il 17 novembre
1941; Notizie della provincia, pubblicato il 9 febbraio 1942; Affetti
perduti, pubblicato il 19 ottobre 1942; La “guardia”, pubblicato il 7
dicembre 1942; Il gendarme, pubblicato il 15 marzo 1943.
Allo stesso tempo, Domenico Rea cura la rubrica «Libri in vetrina»,
nata il 27 luglio 1942, e si firma con lo pseudonimo «do-re-mi».
Nella suddetta rubrica, egli recensisce opere maestre di diversi
autori, tra cui quella di Pavese, di Cardarelli, di Mauriac, di
Piovene, di Vittorini, di Faulkner.
«Libri in vetrina» contiene, tra l‟altro, un‟Antologia di Scritti e
discorsi di Benito Mussolini, pubblicata dalla casa editrice Hoepli,
due nuove collane delle Case editrici Bompiani ed Einaudi, create
per «favorire la cultura nazionale migliorando il gusto»
1
attraverso
le ristampe delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, della Sonata a
Kreutzer di Tolstoj, della Colonna infame di Manzoni, oltre ad
alcune opere di Melville e di altri autori italiani e stranieri. Ma non
solo. La rubrica contiene, inoltre, i «Quaderni di letteratura ed arte»
curati da De Robertis che comprendono le prose di Baldini e Un
anno di letteratura di Gianfranco Contini, oltre ad alcune opere in
preparazione come Un‟antologia della poesia italiana, curata da
Alfonso Gatto, i Primi volgarizzamenti da classici italiani di
Maggini, un commento alle Rime di Della Casa ed opere sull‟arte
moderna ed antica. Di particolare importanza è la scheda intitolata
La spiaggia riguardante l‟opera di Cesare Pavese pubblicata sulla
rivista romana «Lettere di oggi». Rea qui si sofferma sull‟opera
1
Domenico Rea, Collane, in «Il Popolo Fascista», Salerno, 27 luglio 1942, p. 3.
17
Paesi tuoi affermando «che fu un gran segno di rinnovamento e di
speranza»
2
. Del primo romanzo di Pavese Rea ravvede nei dialoghi
la matrice originaria della narrativa realistica americana, ma allo
stesso tempo ne coglie il carattere tradizionale e popolare tipico del
verismo verghiano. Ciò che colpisce il nostro autore è soprattutto lo
stile violento, acceso del naturalismo di Pavese connesso con
l‟espressività dell‟opera caratterizzata da brevità, accumulazione
nominale e il fitto dialogato, ma anche la tematica che poggia sulla
vita contadina e sulle relazioni di sesso e sangue ad essa connesse.
Un commento è rivolto anche al grande Ungaretti considerato da
Rea «un‟anima da fionda e da terrori»
3
. Attraverso la rubrica Rea
sembra non solo voler preordinare un canone letterario, ma sembra
voler acquisire un meritato riconoscimento pubblico, ufficiale,
legato al suo nome nell‟ambiente socio-culturale del tempo.
Data importante è il 10 agosto 1942, in cui Rea commenta l‟intera
raccolta poetica di Vincenzo Cardarelli pubblicata nella collana «Lo
specchio» di Mondadori. Citando alcuni versi, lo scrittore
napoletano asserisce: «Li ho letti tutti d‟un soffio, come quando
mangiavo, bambino, la frutta rubata dalla dispensa, e li ho gustati
come una cosa proibita»
4
. Rea, poi, paragona la collana «ad uno
specchio affatturato, esposto in una limpida sala moderna»
5
; e
ancora aggiunge: «E molte altre guide giorno per giorno arrivano e
lo specchio si arricchisce di nuovi incanti. E ciò non per annoiarvi,
ma per stabilire, fra noi, che non solo le “Meduse” affascinano ma
anche gli “specchi” mondadoriani»
6
. Da qui, il nostro autore passa a
2
D. Rea, La spiaggia, ivi, 27 luglio 1942, p. 3.
3
D. Rea, L‟ultima nave …, ivi, 27 luglio 1942, p. 3.
4
D. Rea, Un libro di poesie, ivi, 10 agosto 1942, p. 3.
5
D. Rea, Lo specchio, ivi, 10 agosto 1942, p. 3.
6
Ibidem.
18
commentare la collana «La Medusa» di Mondadori, affermando
quanto segue:
Medusa?! Non è l‟ombrella marina, né è una delle tre Gorgoni con gli occhi
pietrificati e i capelli anguicriniti. La Medusa è una nuova invenzione di
Mondadori che sta in altea via rispetto a quella dello Specchio; con guide
strane, cioè straniere. Per tutti quelli che non conoscono le loro lingue straniere
eccovi Vittorini, Pavese, Gigli, Piceni, traduttori guide interpreti, in gamba; che
ve ne fanno fare la conoscenza
7
.
Sul numero del 17 agosto 1942 Rea recensisce I due romanzi di
Thérèse Desqueyroux di François Mauriac e Il borgo di William
Faulkner. Il suo discorso qui appare più impegnativo sia sul piano
argomentativo che stilistico. L‟autore introduce il testo di Mauriac,
incentrato sulla storia di una donna piccolo-borghese soffocata dalla
vita provinciale, attraverso queste parole: «Una camera che ha il
colore delle viole appassite e in mezzo arde un fuoco, debole fuoco,
che quasi sembra guizzo fulgido d‟aria, ma brucia come fiamma a
illuminare la vita di Teresa»
8
. Soltanto dopo queste parole rivelerà
di quale opera si sta parlando e chi è l‟autore; poi riprende:
Non nego che stando in silenzio di notte e in gran calma provai paura. Paura
forse di me medesimo che mi svelavo nel suo dolce e silenzioso furore. Ella
infatti non compirà niente più di malefico dopo l‟umano delitto e il suo
avvenire è il ricordo del passato su di un orlo di continua ricaduta. Forse ella è
tutta peccato; il suo sottile pensiero, l‟istessa sua forma fisica, i capelli, gli
occhi che tu puoi sentire ma non vedere: un fatale peccare in un‟atmosfera
d‟incompiuta illusione di Dio
9
.
7
Ibidem.
8
D. Rea, Stanza n.53, ivi, 17 agosto 1942, p. 3.
9
Ibidem.
19
Si può, dunque, notare la reazione d‟angoscia di Rea provocata dal
furore omicida della protagonista, reso ancora più straniante dagli
aggettivi «dolce e silenzioso»
10
che egli propone. Lo scrittore
partenopeo, poi, pone particolare attenzione alla tematica del
peccato, alla rappresentazione del furore, alla disintegrazione e al
senso di morte, servendosi di un ritmo sintattico ed un lessico
barocco. Si tratta di un narrare attraverso «rapidissime
illuminazioni»
11
, è una «scrittura a lampo di magnesio»
12
, una
scrittura dirompente ed esplosiva come si può ben notare in questa
frase posta a esempio: «allucinante come un ramarro trepidante in
un fiotto di sole»
13
.
L‟influenza di Faulkner su Rea si può ben intravedere nel
commento del nostro autore circa le modalità discorsive del
narratore americano:
Il suo romanzo non è la pagina bella e pulita: il suo stile risulta da tutto un
gruppo di azioni che rafforzano una sola passione; la sua punteggiatura si
scande in una parola forte, in una calda, rude o pietosa legate da un continuo
ritornello: un indomabile commento della vita
14
.
«Indomabile» e «furore» sono due parole chiave che legano i due
autori: Faulkner scrive L‟urlo e il furore, uno dei suoi più celebri
romanzi, mentre Rea intitola una sua opera Napoli, l‟indomabile
furore, raccolto ne Il fondaco nudo, volto a descrivere «la terribilità
10
Ibidem.
11
Mario Pomilio, I racconti di Rea, in «Realtà del mezzogiorno», n. 3, 1966, p. 230.
12
Emilio Cecchi, Scrittori al lampo di magnesio: Domenico Rea (1948), in Letteratura italiana
del Novecento, in P. Citati (a cura di), Milano, Mondadori, 1972, p. 1129.
13
D. Rea, Stanza n.136, in «Il Popolo Fascista», cit., p. 3.
14
Ibidem.
20
del vivere»
15
nella sua cara città. Per quanto riguarda l‟urlo, esso è
un‟altra caratteristica fondamentale nella narrativa reana: basta fare
riferimento a quel «Maronna!» urlato nel racconto La «Segnorina»
raccolto in Spaccanapoli
16
.
Il carattere antropologico dell‟opera di Rea, portatore di un
messaggio morale, è ben descritto nel testo Principio di settimana,
apparso all‟interno della rubrica «Libri in vetrina» sul numero del 7
settembre 1942. Nel testo un critico-imbonitore colloca il suo
banchetto di libri accanto al banchetto di un cingaliere che mostra
«posate, chicchere, piatti, bicchieri e pentole e mestoli e coppie
d‟ampolline e vasetti». Il libro in quanto tale sembra collocarsi nella
sfera del «”meno utile”, un prodotto per niente armonioso quanto il
primo, anzi silenziosissimo, misterioso»
17
. Rea qui sostiene che:
i libri «Lettera di una novizia» di Guido Piovene, i «Tre libri» di Cesare
Zavattini e la «Conversazione in Sicilia» di Elio Vittorini hanno ottenuto
grande fortuna di vendita. Ce ne rallegriamo perché al mercato si compra la
frutta buona. Ma noi di un libro soprattutto desideriamo la conquista morale,
aspettiamo dove questo libro si sfabbrica, si sgretola, rimane bianco sulla
pagina, e ritorna sangue vita costume negli uomini
18
.
Sullo stesso numero della rivista, emerge anche il romanzo
epistolare di Guido Piovene Lettere di una novizia, di cui Rea mette
in evidenza il carattere ambiguo della protagonista, i «tragici
giochi» che «deve arrischiare la sua anima per abbracciare tutti i
15
Annalisa Carbone, La scrittura critica di Domenico Rea, Tesi di Dottorato di ricerca in
Filologia moderna, Università di Napoli Federico II, 2008.
16
Per l‟approfondimento di questo aspetto rimando alla lettura di: Antonio Saccone, Qui vive,
sepolto, un poeta: Pirandello, Palazzeschi, Ungaretti, Marinetti e altri, Napoli, Liguori, 2008.
17
D. Rea, Principio di settimana, in «Il Popolo Fascista», cit., p. 3.
18
Ibidem.
21
prementi bisogni»
19
attraverso la citazione dell‟incipit del romanzo.
E ancora, nella rubrica affiora il romanzo di Elio Vittorini
Conversazione in Sicilia. Rea parla di un «grande avvenimento»
20
editoriale, «un intendimento lirico della nostra gravissima epoca». Il
carattere lirico di Vittorini è evidenziato dal nostro autore in questi
termini: «Le parole dei suoi uomini sembrano dette in piazza,
lanciate contro i monti affinché rimbalzino e siano udite»
21
. Il
motivo del viaggio del protagonista è visto da Rea sotto una chiara
luce melodrammatica; esso si rivela come un intreccio di una
conversazione collettiva dove
i personaggi sono orali: o meglio la loro presenza fisica si palesa nella
creazione stessa del linguaggio. Il quale è veramente inventato: non proviene
da memoria – il che non sembra di primo acchito – ma scoppia
immediatamente secondo che quelli guardano una cosa, un uomo, secondo che
s‟incontrano due esseri naturalmente vissuti in uno stesso silenzio, che subito si
rompe in coro. Ognuno dice come se non parlasse all‟altro; come seduto al
tramonto, davanti alla casa, cantasse un‟aria. Un mutare continuo della realtà in
favola per sopportarla meno amaramente
22
.
Il giorno 18 gennaio 1943 rappresenta una data importante: il nostro
autore non si firmerà più con lo pseudonimo «do-re-mi», ma lo farà
col suo vero nome. In questa occasione Rea recensisce il volume di
poesie In cammino di Angelo Iovino, suo amico e maestro.
Nel 1943 Rea passa a scrivere per la rivista quindicinale «Noi
Giovani», in cui pare abbia scritto diversi testi che, però, risultano
19
D. Rea, Lettere di una novizia, ivi, p. 3.
20
D. Rea, Conversazione in Sicilia, ivi, p. 3.
21
Ibidem.
22
Ibidem.
22
di scarsa reperibilità
23
. Di certo, si sa che l‟autore scrisse il racconto
Il ponte delle Serenne pubblicato nella rivista il 5 maggio 1943.
Suddetto scritto rappresenta un primo abbozzo del racconto
L‟Americano, pubblicato nella prima silloge narrativa Spaccanapoli
del 1947. Il protagonista è Auricchio, un giovane ragazzo che non
avendo futuro né dal punto di vista lavorativo (lavora in una
panetteria) né dal punto di vista affettivo (è innamorato di Leonora
che è promessa sposa a Don Fabrizino) un giorno si ritrova su una
nave che punta dritto verso l‟America. La decisione è dettata anche
dalla fatale colluttazione, per amore di Leonora, che avviene tra
Auricchio e don Fabrizino, il quale rimane ucciso. A “Neviorco”
per guadagnarsi un futuro diventerà “ganghesterro”, conducendo
una vita indegna, dettata dal regolamento che egli ripassava tutte le
notti:
Il ganghesterro deve usare poco, perché l‟amore è come il vino. Il ganghesterro
deve essere giusto coi poveri. Perché i poveri sono tutti ganghesterri prossimi,
diventati o ritirati. Il ganghesterro deve fare pochi gesti, mai grattarsi,
specialmente il prurito, perché dovrà sostenere le torture dei poliziotti quando
lo prendono.
E poi al malcapitato:
con la mano tagliategli il dito col diamante […]. Gettate il dito. Ponete l‟anello
nei posti più delicati, dove anche i poliziotti hanno schifo di verificare
24
.
In America conoscerà Niciuccia (così come lui chiama la giovane
americana) e la ingraviderà. E rivolgendosi all‟Onnipotente griderà:
23
Della reperibilità degli scritti di Rea nella rivista «Noi Giovani» se ne sta, attualmente,
occupando il letterato John Butcher.
24
D. Rea, L‟Americano, in Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Francesco Durante e
Ruggero Guarini, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2005, p. 37.
23
«”Signore, aiutatemi, ché ho fatto un figlio senza concepirlo, in
mezzo alla lussuria”. E a lei: “Vattene. Non ne voglio più sapere di
te». Intanto, Auricchio si imbarca per l‟Italia, senza Niciuccia,
lasciando un bambino senza padre, rappresentando così la sua stessa
storia. Auricchio, ormai cinquantenne, arriva in Italia con tanto di
«panama in testa, gli anelli sulle mani, la catena d‟oro intorno alla
pancia»
25
, insomma da gran ricco: la vita lo aveva reso insensibile e
a tratti indifferente. Raccomanda l‟anima di Niciuccia alla Madonna
di Pompei, sentendosi così di aver fatto una buon‟ azione.
Nel 1944 Rea scrive su «Libertà», organo salernitano del Comitato
di Liberazione Nazionale, in cui emerge l‟articolo I giovani o delle
apparenze, pubblicato il 17 luglio 1944. Non sono noti altri scritti
pubblicati su questa testata.
Nel 1946 Rea collabora con «Il giornale di Salerno», settimanale
diretto da Mario Parilli, per il quale cura la rubrica «Tempi
Moderni» sottotitolata «Collanetta di appunti, umori, note al
vecchio e al nuovo». La rubrica occupava lo spazio posto
nell‟ultima colonna della seconda pagina ed era suddivisa in
paragrafi, così come emerge dal solo numero rinvenuto della
testata, datato 31 gennaio 1946, in cui Rea si era occupato di
scrivere il ritratto di Roosvelt, che viene definito «mistico
americano» e di Primo Carnera, famoso pugile italiano degli anni
Trenta.
L‟attività giornalistica fin qui analizzata offre già un‟idea del
fertilissimo repertorio di cui disponeva Rea per la stesura delle
opere narrative che avrebbe creato di lì a poco.
25
Ivi, p. 40.
24
1.2. La collaborazione giornalistica da «Il giornale» a «Milano-
sera»
Da quanto analizzato finora, attraverso l‟attività ne «Il Popolo
Fascista» curando la rubrica «Libri in vetrina», Rea si cimenta nel
lavoro sia di recensore che di narratore, pubblicando
contemporaneamente anche brevissimi racconti. Se nella prima fase
giornalistica, dunque, appare un Rea più lirico, attaccato alla prosa
d‟arte cosicché possa in qualche modo essere recepito ed accettato
dalla comunità intellettuale del suo tempo, adesso vedremo come,
nell‟attività giornalistica che segue, cambiano i tratti essenziali del
suo stile.
Dal 1947 al 1950 Rea collabora a «Il Giornale», quotidiano liberale
napoletano nato nel 1944 e diretto da Carlo Zaghi. Il materiale qui
pubblicato costituirà, assieme agli scritti apparsi
contemporaneamente - e successivamente - su «Milano-sera», il
primo rilevante patrimonio giornalistico del nostro autore. Sul
quotidiano egli scriverà una grande quantità di articoli e racconti,
sui quali tornerà spesso, ampliando, correggendo, perfezionando la
struttura formale, ma senza alterare più del dovuto il contenuto
degli stessi, come accadde per l‟articolo intitolato Mastriani
romanziere, apparso per la prima volta sul quotidiano napoletano il
20 giugno 1949. Successivamente, esso sarà pubblicato su «Paese
sera» (1956), poi nel volume Il re e il lustrascarpe (1961) che
contiene saggi composti tra il 1949 e il 1960. E ancora, apparirà in
Fate bene alle anime del Purgatorio (1973-1977) con una novità
nel titolo Le illuminazioni di Mastriani. Rea, in questo articolo,
25
vuol mettere in evidenza la figura dello scrittore napoletano
Francesco Mastriani e soprattutto vuole enfatizzare il rapporto di
costui con il popolo napoletano, al quale era conosciuto come “il
professore”, appellativo dato dalla gente comune non per designare
una professione vera e propria, ma per indicare persone con un
livello di cultura superiore a quello comune. Rea scrive che, in
realtà,
il popolino avrebbe dovuto chiamarlo l‟avvocato dei poveri o, come qua si
dice, delle cause perdute, giacché tutte cause fatalmente perdute difendono i
suoi romanzi. Di quelle cause, è vero, che appassionano gli ascoltatori per il
dettato pietoso e sentimentale che ispira l‟avvocato e sulla storia che pesa sulle
fragili spalle dell‟imputato. Mastriani, insomma, era un uomo comune, un
galantuomo, ma senza un ingegno superiore, fornito di un‟anima
sensitivissima, che s‟impietosiva di ogni ingiustizia, d‟ogni povertà, d‟ogni
destino o spettacolo dell‟umana miseria, innamorato della povera gente
26
.
Allo stesso tempo, Rea è vicinissimo alla sostanza dell‟opera di
Mastriani, attraverso la descrizione di quel mucchio di personaggi
tirati fuori dalle realtà più umili che popolano il mondo partenopeo
e ponendosi anch‟egli – al pari del Mastriani - come avvocato delle
cause perdute. Partendo dalle classi e dagli ambienti più umili Rea
pare voler riflettere su problematiche particolari per arrivare
probabilmente a problematiche generali della sua città. Vuole,
dunque, porsi al di là della semplice rappresentazione del vicolo
operata già dal Mastriani, del quale poi aggiunge:
26
D. Rea, Mastriani romanziere, in «Il Giornale», 20 giugno 1949, p. 3.
26
egli non ha un occhio osservatore, non sa prescegliere tra tante cose, che
sembrano uguali, la vera, che provocò le umiliazioni. Gli manca il freno, la
misura delle proporzioni e il lavoro della lima
27
.
Secondo Rea, dunque, nonostante il Mastriani indaghi sulla plebe
napoletana svelando la drammatica condizione sia sociale che
economica che vive il popolo partenopeo, egli manca della fantasia
creatrice e non riesce ad indagare la causa, scivolando nel difetto di
«non volere, il non sentir dire tutta la verità»
28
. Ma qual è la verità
per Rea? Per il nostro autore se i napoletani avessero avuto la
possibilità economica si sarebbero distinti certamente per il fatto di
essere stati dei veri galantuomini, lasciando la parvenza di esseri
senza valori alcuni, senza nobili ideali. Quindi è il denaro il
nocciolo attorno a cui gira il tutto. In questo senso, è proprio la
miseria che crea disperazione negli uomini ed è la causa di tutti i
mali.
Ma cosa dice il Mastriani di Rea? Ebbene, dichiara che «l‟unica sua
Musa è Napoli, l‟unica in cui egli credette e nei cui capelli
pidocchiosi non ebbe schifo di passare le mani paterne»
29
. In fondo,
il Mastriani dice di Rea ciò che potrebbe essere attribuito a se
medesimo, in quanto entrambi ebbero come oggetto della loro opera
la città di Napoli, e non solo; essi ne dipinsero il carattere avverso
della città, descrissero la disperata ricerca da parte del popolino del
soddisfacimento dei loro bisogni primordiali: la fame, la carne, la
ricerca disperata ed infinita di un lavoro, la sicurezza, la stabilità, il
denaro grazie al quale “campare”. Per Rea, in ogni caso, quello di
Mastriani è un insuccesso poiché nonostante le “nozioni”, i “cunti”,
27
Ibidem.
28
Ibidem.
29
Ibidem.
27
gli “intrighi” egli non ha saputo catturare la reale psicologia dei
napoletani che, diversamente da come sono da sempre ritratti nelle
canzoni e nelle menti plagiate dal cliché naturalistico, sanno essere
cattivissimi. Mastriani «sarebbe potuto essere il primo romanziere
di Napoli, mentre ora si deve accontentare d‟essere il farraginoso
autore di un farraginosissimo mondo»
30
.
Compaiono sul «Giornale» anche una serie di articoli di tema
brasiliano , talora con la dicitura “Viaggio in Brasile – Dal nostro
inviato”, tra cui segnaliamo: Perché gli emigranti ritornano dal
Brasile, datato 3 agosto 1948; Con gli occhi chiusi bisogna entrare
a S. Paulo, datato 30 agosto 1948; Mussolini in Brasile, datato 12
settembre 1948. Dello stesso anno è anche lo scritto L‟avventura di
Piededifico ladro di prosciutti in Grazia di Dio, datato 2-3 febbraio,
il quale diventerà semplicemente Piededifico nella seconda raccolta
di racconti Gesù, fate luce del 1950, il cui titolo deriva proprio da
una esclamazione proferita dal protagonista della storia. Del 1949 è
lo scritto Il Bocciuolo, apparso il 18-19 gennaio, ancora sul
quotidiano napoletano. Esso verrà ripreso ed inserito nella seconda
silloge narrativa Gesù, fate luce del 1950. Il “bocciuolo” non è altro
che l‟appellativo dato da una madre per designare la giovane età
della figlia nel momento in cui cerca di convincere un vecchio
magistrato ad unirsi in matrimonio con la sua bambina. Il
“promesso sposo” è un professionista anziano e scapolo ed ha
trent‟anni più di lei. Nonostante la ragazza sia tenera, dolce, a tratti
ingenua, scatta nell‟uomo una certa gelosia e diffidenza nei suoi
confronti, alimentata dall‟arrivo di due lettere anonime in cui
l‟autore delle epistole fa sapere che avrebbe sparato il magistrato
30
Ibidem.
28
qualora non avesse smesso «di brigare con la madre della “povera
mia Rosa”»
31
. A rincarare la dose di gelosia ci pensa anche la
ragazza che più volt afferma: «Tu sì che sei buono” per stabilire un
paragone che lei sola sapeva»
32
. Tra le lacrime della ragazza che
supplica l‟uomo di credere al suo amore e gli allontanamenti e
riavvicinamenti di lui sfiduciato da quest‟amore, la storia finisce
con il matrimonio dei due, ma a questo punto ecco che si
materializzano i dubbi del magistrato, nel momento in cui appare il
“terzo incomodo”:
egli entrò. Era un giovanottino pallido, magro come un cerino. E c‟era davvero
da ridere. Avanzava da cadavere cui si sia dato una spinta: con quel solo nome
in bocca, quasi non conoscesse altri. […] Puntava nei suoi occhi per cercarla
oltre l‟abito nuziale, in una solitudine a loro soli nota. Attaccata al suo sguardo,
Rosa gridava: “No, non t‟avvicinare, non ti amo più. Ho sposato lui”
33
confermando così tutti i dubbi del marito. La scena finale è davvero
commovente e da dell‟amore un valore del tutto estraneo alla
razionalità dei singoli soggetti. Ognuno dei tre personaggi sembra
seguire il proprio cuore in un miscuglio di incongruenze, così come
testimoniano le parole del vecchio:
Egli si mise a piangere, mentre tutti continuavano a buttargli in faccia bucce e
bave di sciampagna. Solo Rosa, dimenticandosi di me, andò a rannicchiarglisi
accanto, accarezzandolo, prendendogli le mani e portandosele alle guance. Non
riuscì a togliere gli occhi da loro, che non si curavano di me
34
.
31
D. Rea, Il bocciuolo, in Opere, cit., p. 244.
32
Ivi, p. 243.
33
Ivi, p. 257.
34
Ibidem.