LA SCHIZOFRENIA DI ITALO SVEVO: NARRATIVA O TEATRO?
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Introduzione
Il titolo di questa tesi è un effetto voluto per indurre polemicamente i sospirati
“venticinque lettori”, direbbe il Manzoni, a prender coscienza di una problematica
poco indagata all’interno della produzione sveviana. Si intende in qualche modo
volgere gli occhi, con uno sguardo globale, sull’autore triestino, allo scopo di
comprendere meglio e più a fondo i messaggi di cui, attraverso le sue opere, si è
fatto portatore. Per il raggiungimento di questo fine, l’indagine verterà, fatto che
forse qualcuno noterà esser desueto rispetto agli approcci normalmente proposti e
diffusi tra il grande pubblico, e mi riferisco in questo senso soprattutto a quello
rappresentato dalla scuola, sulla produzione teatrale di Svevo, poco studiata e poco
apprezzata, per mettere in luce quanta importanza ebbe invece per lui, al punto da
essere al centro di un travaglio personale che lo spingeva da una parte ai tentativi
drammaturgici, spesso falliti con grande rammarico da parte dell’autore, dall’altra
verso la prosa, che sebbene non sentita come aspirazione principe, era una forma
che gli fluiva in corpo con naturalezza e che controllava con intelligente sapienza.
È a mio avviso fondamentale cercare di capire i meccanismi sottesi a questa
dicotomia dedicando attenzione sia alle vicende di vita di cui fu protagonista,
prendendo in considerazione le relazioni che strinse con famigliari e amici, sia
all’ambiente in cui si formò, cercando di cogliere gli stimoli offerti dalla Trieste
dell’epoca e sottolineando la particolare realtà costituita da questa città di frontiera,
sia dando il giusto peso all’influenza che la cultura europea di inizio Novecento, e
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in particolare le sue manifestazioni letterarie, ebbe nella scelta di generi, stili,
argomenti, gusti da parte di Ettore Schmitz.
Prima di addentrarci nel mondo del teatro sveviano e nei satelliti che vi gravitano
attorno a cui si è testè fatto cenno, è opportuno indugiare brevemente sul panorama
storico europeo dell’ epoca, per poter dare poi spazio allo studio particolare della
tesi.
Nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento fin oltre la metà del Novecento si assiste
a un’accentuazione dei fenomeni di mutamento: il decollo della rivoluzione
industriale nei vari paesi d’Europa, negli Stati Uniti, in Giappone si accompagna a
grosse crisi economiche, sociali e politiche provocate da questa trasformazione.
A partire dal 1896, infatti, l’introduzione di politiche protezionistiche da parte di
molti Stati produttori, la scoperta di nuovi giacimenti auriferi in America, Australia e
Africa e soprattutto le innovazioni tecnologiche dell’acciaio, della chimica,
dell’elettricità, del motore a scoppio stimolarono un nuovo ciclo espansivo che
caratterizzò l’economia mondiale fino al 1913. Il capitalismo della libera
concorrenza tramontò con la formazione di concentrazioni monopolistiche e
oligopolistiche dette “trust” e si avviò un processo di fusione e interdipendenza fra
capitale bancario e imprese produttive rendendo possibile l’egemonia finanziaria
sull’industria. Cambiò sia l’organizzazione pianificata del lavoro, sia la quantità di
merci prodotte e trasportate in mercati lontani, offerte al pubblico con l’appoggio di
grandi campagne pubblicitarie: ciò si deve all’elaborazione del “taylorismo”. Il salto
di qualità avvenne innanzitutto negli Stati Uniti, dove l’ingegnere FrederickW.
Taylor (1865-1915) elaborò un metodo, che ricevette il nome di “taylorismo”, per
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razionalizzare l’organizzazione del lavoro degli operai in fabbrica, con l’affidamento
a ciascuno dell’esecuzione di operazioni semplici scientificamente misuarate, e dove
l’imprenditore Henry Ford (1863-1947), applicando le teorie di Taylor, fu il primo a
introdurre la “catena di montaggio” nella sua fabbrica automobilistica. Alla vigilia
del conflitto mondiale le automobili uscivano dalla linea di montaggio al ritmo di una
ogni due minuti. Nel giro di pochi anni questo tempo venne dimezzato. La quantità
complessiva di vetture Ford modello T prodotte nel 1914 raggiunse il numero di oltre
300 000. in Francia le fabbriche automobilistiche Renault e Berliet furono tra le
prime a introdurre, ancor prima che in Germania, i metodi di razionalizzazione del
lavoro proposti negli Stati Uniti da Taylor.
Accanto ai mutamenti tecnologici si ebbero mutamenti di profilo anche per quanto
riguarda i lavoratori: si affermò la figura dell’operaio di mestiere, formatosi in una
scuola professionale o attraverso un tirocinio di fabbrica che manovrava macchine
polivalenti, e nacquero, sul piano delle organizzazioni sociali, le prime associazioni
rappresentative degli interessi degli operai: i sindacati.
L’accresciuta dimensione delle imprese provocò uno straordinario sviluppo e
urbanizzazione di interi territori al punto che nel 1930 erano ventisette le città che
superavano il milione di abitanti, tra cui Londra, Parigi, Berlino, Vienna, Pietrogrado
e Mosca in Europa, New York, Chicago e Filadelfia, Buenos Aires e Rio de Janeiro
nelle Americhe, Tokyo, Osaka e Calcutta in Asia. La popolazione cresceva
complessivamente a ritmi elevati soprattutto per le migliori condizioni igienico-
sanitarie: si stima che la popolazione europea sia passata da 266 milioni di abitanti
nel 1850 a 401 milioni nel 1900 e 468 milioni nel 1913.
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Il contesto urbano-industriale produceva individui che dipendevano dal mercato in
ogni loro bisogno e laddove si manifestasse carenza lavorativa si incentivò
l’emigrazione verso i paesi con maggiore abbondanza di offerta. A partire furono in
particolare i giovani dell’Europa mediterranea, con una partecipazione molto alta
dall’Italia meridionale e dal Veneto e Friuli, ma anche dall’Irlanda, Germania e dai
paesi dell’Est.
Lo spazio terrestre assunse quindi dimensioni e conformazioni diverse: emersero
nuovi poli economici e politici extraeuropei, circondati dal cosiddetto Terzo mondo.
Pervennero al rango di potenze industriali paesi in cui l’industrializzazione era
avvenuta con un certo ritardo, come la Germania, per il suo grande potenziale, la
Russia, sebbene soffrirà di difficoltà strutturali nella sua organizzazione interna,
l’“Italia” , che pose le basi del sua crescita economica tra 1880 e 1915, gli Stati Uniti,
che dopo la guerra di secessione (1861-1865) si erano appropriati dei territori
dell’Ovest ed erano determinati ad estendere la loro influenza sul Pacifico e sul resto
delle Americhe.
Per tutto l’Ottocento l’Inghilterra aveva sviluppato una politica coloniale che, a
partire dagli anni 1870-80, sotto la guida del ministro Disraeli, si rafforzò e trasformò
il suo in un potere di tipo “imperialistico”; anche Francia, Stati Uniti, Giappone,
Russia, Germania e Italia si posero sulla medesima scia.
Allo scoppio della prima guerra mondiale la spartizione del mondo è compiuta ed è
già iniziato il risveglio nazionalistico dei paesi dominanti. Le principali nazioni
europee vengono coinvolte in un conflitto durissimo, con perdite umane e materiali
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immense, che lascia segni profondi nella memoria di tutti coloro che vi hanno
partecipato e dietro di sé lunghi strascichi economici, politici e ideologici.
È giusto sottolineare la relatività dei grandi avvenimenti, come cioè sussistano
diversità profonde di prospettiva storica e di comportamento dovute a diversità di
tradizioni culturali, di adesione ideologica e di appartenenza a comunità etniche o
strutture statali.
Accanto alla grande guerra del 1914-18 furono moltissimi i conflitti bellici che
sconvolsero il mondo in questo periodo, così come numerose furono le rivoluzioni: si
ricordi una per tutte la rivoluzione russa del 1917 per arrivare alle sollevazioni cui
assistiamo ancora oggi. Nell’epoca della modernità inoltre i paesi economicamente
avanzati furono attraversati da tendenze culturali fra loro contrastanti, rendendo
difficile identificare un modello culturale egemone. Si può riscontrare una tendenza
generale uniformizzante, quella della cosiddetta “cultura di massa”, che ha
dimostrato, specie con il ruolo che acquisteranno a partire dalla metà del Novecento
radio, cinema, dischi, cassette, televisione, di poter fare arrivare dappertutto i modelli
di vita della modernità. Questo tipo di cultura fu il prodotto di trasformazioni
avvenute a livello materiale, nell’economia oltre che nella tecnologia, e proprio
questa sua origine l’ha reso straordinariamente penetrante. La rivoluzione nei
trasporti moltiplicò incessantemente il numero di merci scambiate e i movimenti
delle persone. I nuovi mezzi di comunicazione resero rapidissimo lo scambio delle
informazioni, dei messaggi e dei segnali, e la circolazione di valori e dei modelli di
comportamento. Zone geografiche lontane si trovarono improvvisamente avvicinate
ed entrarono in un processo di omogeneizzazione culturale che ha toccato ritmi di
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velocità senza precedenti. Con la progressiva accelerazione dei movimenti delle
persone, declinarono le antiche forme di aggregazione. L’industria dello spettacolo e
dell’intrattenimento assunse proporzioni colossali e molti aspetti della vita sociale e
culturale si trasformarono a loro volta in spettacolo e intrattenimento. La nuova
cultura divenne un fenomeno di massa, prodotto dei mezzi di comunicazione di
massa. Parola e immagine divennero le materie prime di un processo di produzione
industriale, trasformandosi in un canale di condizionamento efficace dei
comportamenti, in un veicolo di propaganda, in un possibile strumento di uso
politico diretto. Il fenomeno della cultura di massa fu assai complesso e
contraddittorio. Una prima controtendenza è questa: mentre l’omogeneità culturale
pervadeva con forza gli ambienti rimasti tradizionalmente chiusi e provocava di
conseguenza la perdita di autonomia delle culture preesistenti, riemergeva presso
molte etnie e comunità locali la rivendicazione di un’identità propria, ora nell’ambito
linguistico, ora nell’ambito religioso e del folklore.
Un’altra grande contraddizione tipica della nuova situazione culturale riguarda i
fenomeni della diffusione di massa. È un fatto che in questo periodo si è realizzato il
massimo allargamento verso il basso della partecipazione politica. Tuttavia questa
tendenza storica ha avuto anche una specie di rovesciamento in negativo, dando
luogo a fenomeni di totalitarismo.
Tra gli effetti delle trasformazioni sociali e culturali dobbiamo includere anche il
rifiuto della modernità: fra i movimenti intellettuali del secolo numerosi sono quelli
che, magari anche proclamandosi “moderni”, hanno cercato di costruire gruppi di
élite, in contrapposizione alle masse.
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Il cambio di secolo, con tutta la carica di innovazione a vari livelli a cui si è
sommariamente accennato, stimolò nuove riflessioni che si concentravano sul
tentativo di comprensione di questi cambiamenti e sulle innovazioni culturali, in
particolar modo letterarie: su queste si incentrerà l’approfondimento dei primi due
capitoli, guardando prima alle tendenze letterarie, in particolare in ambito teatrale,
che percorrono l’Europa di inizio secolo, quindi ai fermenti interni alla città di
Trieste per poter conseguentemente collocare con cognizione di causa vita e opere di
Italo Svevo.
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1. EUROPA TEATRO DI GENI
1.1 La cultura: movimenti di pensiero e problematizzazione dei
saperi
Sul finire del XIX secolo la cultura positivista aveva ottenuto i suoi maggiori trionfi:
pensiamo ai saggi sociologici di Èmile Durkheim ed etnologici di Lévy-Bruhl. Ma a
questo si accompagnò una banalizzazione di idee e metodi contro cui si scagliò la
reazione antipositivistica di inizio Novecento, sulla scorta dell’influsso di pensatori
come Nietzsche che si era pronunciato contro le certezze e le grandi costruzioni
interpretative dello storicismo Hegeliano.
D’altra parte è proprio nel cambio di secolo che avvengono innovazioni radicali
nell’ambito delle scienze: la nuova fisica della relatività (Albert Einstein) e quella
delle particelle e dei quanti (Werner Heisenberg),le geometrie non euclidee,
l’insiemistica, il logicismo (Gottlob Frege-Bertrand Russell), l’intuizionismo
(Luitzen Erberg Jan Brouwer), il formalismo (David Hilbert).
In termini generali si diffuse a inizio Novecento la coscienza dell’impossibilità di
costruire un edificio unitario del sapere perché si riconosceva il relativismo,
l’inesistenza di valori assoluti di contro ad una molteplicità di punti di vista
individuali e sociali, situazioni storiche e condizionamenti di fatto.
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Nel primo Novecento si avverte diffusamente la consapevolezza di una crisi in atto
nella cultura occidentale: significativi a questo proposito appaiono titoli come
Disagio della civiltà di Sigmund Freud, Il tramonto dell’Occidente di Oswald
Spengler e le varie considerazioni di Friederich Nietzsche che aveva descritto
dettagliatamente in cosa consistesse lo stato d’animo “decadente” chiamando in
causa il concetto di “nichilismo”, al punto che la coscienza della problematicità dei
fondamenti ha coinvolto anche teologi che hanno parlato di “assenza” di Dio e quindi
di religione come nostalgia di valori di cui non permane più traccia nel mondo
moderno, o di Dio come “Totalmente Altro” (Karl Barth).
Trova posto una nuova disciplina, misto di indagine scientifica sperimentale e prassi
clinica: la psicoanalisi. Sigmund Freud elaborò un sistema di interpretazione
dell’uomo che soprattutto coi suoi epigoni aspirava a proporre un modello di
interpretazione del mondo nella sua globalità, sostituendosi alla filosofia e al luogo
privilegiato per l’indagine sull’uomo che era stato da sempre la letteratura.
Ricordiamo inoltre la nascita di tutta una serie di nuove correnti di pensiero che bene
si applicarono ai sentimenti descritti maturati in coincidenza con il passaggio al XX
secolo.
John Dewey (1859-1952) sviluppò nel senso di un naturalismo sperimentale la teoria
“pragmatista”, iniziata negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento e diffusasi anche in
Europa agli inizi del Novecento. Il pragmatismo vide nell’azione (in greco: pragma)
e nella trasformazione della natura e della società il fine del pensiero, il quale
pertanto non è conoscenza “pura” e non risponde a criteri di verità desituata,
assoluta, ma è in funzione dei problemi di efficacia pratica posti dall’esperienza. Il
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termine fu coniato verso il 1872 da Peirce nell’ambito delle ricerche e delle
discussioni del “circolo metafisico” fondato a Cambridge (Massachusetts) da un
gruppo di giovani interessati alla diffusione dell’evoluzionismo darwiniano e
dell’utilitarismo positivistico. La funzione del pensiero è quella di produrre regole di
azione o credenze condivise dalla comunità dei ricercatori.
Al generale indirizzo “analitico”, sorto e diffuso in area austro-tedesca e anglo-
americana, appartengono pratiche di pensiero sensibilmente differenti tra loro
riguardo a oggetti e esiti, ma accomunate da un’istanza di metodo che intende
delegittimare l’esercizio tradizionale della filosofia, il suo apparato dottrinario, i suoi
strumenti conoscitivi. Il mutamento è innanzitutto procedurale: lo caratterizza non
tanto l’emergenza, immediata e polemica, di nuovi contenuti teorici, quanto il ricorso
esclusivo all’analisi logico-linguistica delle proposizioni, attività suscettibile di
verifiche intersoggettive, e in questo antitetica alla privatezza e incontrollabilità che
circondano di solito la dimensione speculativa. Messe a fuoco dall’analisi, le
questioni metafisiche perdono la loro classica radicalità per dissolversi
nell’insensatezza; ai neopositivisti paiono abusi linguistici di nessuna rilevanza, anzi
di ostacolo ai reali fini della conoscenza. E conoscenza vera è solo quella scientfica.
Il concetto di “marxismo occidentale” entra in circolazione a partire da Le avventure
della dialettica (1955) del filosofo esistenzialista francese Merleau-Ponty, per
designare la rielaborazione filosofica del marxismo tedesco negli anni
immediatamente successivi alla rivoluzione sovietica (soprattutto George Lukács con
Storia e coscienza di classe). La “coscienza di classe” del proletario, in lotta
permanente contro l”alienazione” diventa il soggetto attivo della storia e tende a
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realizzare concretamente quella universalità che la filosofia hegeliana aveva
interpretato come spirito o ragione. Il problema della coscienza, adeguata o falsa,
della ideologia, delle forme della soggettività che permettono al proletario di passare
dalla classe “in sé” all’attività consapevole della classe “per sé”, diventa centrale;
contro la tesi che sia possibile isolare il fattore economico e lo sviluppo delle forze
produttive come motore e principio esplicativo del processo storico, viene riproposto
il concetto hegeliano di “totalità”, nella quale non è possibile separare gli aspetti
strutturali da quelli sovrastrutturali, in polemica contro il meccanicismo e il fatalismo
dell’interpretazione del marxismo dominante.
Molti intellettuali e artisti hanno reagito ai profondi mutamenti nel loro ruolo di
produttori di idee e di immaginario, alla massificazione della cultura e
all’appiattimento dei valori accentuando la propria separatezza individuale e
collettiva, aggregandosi in gruppi di opposizione rispetto alla società, scegliendo gli
schieramenti d’avanguardia. Questo termine, passato nel primo Novecento dal
campo delle strategie militari a quello delle prese di posizione intellettuale e
culturale, si colorò, di un significato politico e di un significato artistico-letterario, in
modi fra loro distinti ma anche spesso combinati, come dimostrano le frequenti
interferenze fra movimenti artistici e politici, e i frequenti tentativi di applicare a
entrambi una comune volontà di rottura definitiva con il passato, di rifiuto del
presente, di incessante e utopistica anticipazione di valori futuri.
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1.2 Essere intellettuali: professionalità e impegno nella società di
massa
Se conseguenze dell’industrializzazione furono anche alfabetizzazione e
scolarizzazione, conseguenze di questi ultimi due fenomeni si rintracciano nella
diffusione dell’editoria, nell’allargamento del mercato librario e nel ruolo sempre più
incisivo svolto dal giornalismo.
Rispetto alle figure che si delineano nel periodo preso in considerazione, la memoria
dell’intellettuale conosciuta dal secolo precedente evoca caratteristiche del tutto o
parzialmente differenti da quelle del nuovo intellettuale prodotto dei vari
cambiamenti descritti: da tuttologo che è specialista assoluto nel suo personale
campo di indagine, con risonanza internazionale sì, ma tra i suoi consimili, cioè tra la
sola ristretta cerchia di iniziati che potessero comprendere gli alti livelli delle
speculazioni del singolo studioso, alle figure più pragmatiche degli intellettuali di
fine Ottocento che già devono misurarsi coi nuovi mezzi di comunicazione e quindi
si vedono di fronte al bivio tra scegliere una maggior diffusione tra la fascia di
persone sempre più ampia che non svolge lavori manuali e che raggiunge un discreto
grado di cultura e matura un interesse generale nei confronti del sapere o continuare
a rivolgersi al piccolo pubblico di intenditori.
1
Si crea quindi già alla fine dell’Ottocento quel dibattito sulla funzione
dell’intellettuale che caratterizzerà soprattutto il XX secolo e che verterà
1
cfr. M. WEBER Il lavoro intellettuale come professione,1918
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essenzialmente sul problema se l’intellettuale debba essere neutrale rispetto alla
realtà sociale e politica in cui è immerso o schierarsi e fornire ai più spunti
interpretativi del presente
2
; inoltre centrale è il problema se l’artista, più in generale
l’intellettuale, e l’arte stessa possano essere mercificati per aderire ai dettami della
società di massa o se essi debbano in qualche modo essere considerati estranei al
mercato e non oggetto di compravendite di vario genere.
Il problema non è nuovo e riguarda nella sostanza il rapporto fra l’ambito delle idee e
quello dell’azione e del potere; sono invece novità l’ampiezza della discussione e il
fatto che gli intellettuali stessi, oltre a sottoscrivere manifesti, riunirsi in congressi
internazionali, intervenire nelle vicende politiche, elaborino teorie sulle proprie
funzioni e cerchino di definire la specificità del loro ruolo.
Per riassumere schematicamente le principali linee di comportamento che sono state
proposte: agli intellettuali compete non schierarsi con una parte politica, ma
perseguire un compito autonomo, qual è l’acquisizione del sapere oppure la ricerca di
valori che interessino indistintamente gli uomini; agli intellettuali compete svolgere
una funzione critica rispetto alle forze sociali e alle organizzazioni politiche o tentare
una sintesi delle varie ideologie; agli intellettuali compete schierarsi, militare,
accettare anche una disciplina di partito, riconoscendo ciascuno la propria
appartenenza, scegliendo il proprio campo, e rinunciando a esercitare una funzione
autonoma e separata. Il dibattito su questi tempi è stato, nel corso del Novecento,
2
cfr. le due posizioni esemplari di J. BENDA Il tradimento dei chierici,1927, in cui si teorizza il
distacco dell’intellettuale dagli interessi politici, e di P. NIZAN I cani da guardia, 1932, per il quale il
distacco di cui parla Benda è già una presa di posizione
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amplissimo. Sbocciato in Francia, si è realizzato in due posizioni esemplari, quella di
Julien Benda, autore del saggio Il tradimento dei chierici (1927) e teorico del
distacco dell’intellettuale dagli interessi politici, e quella di Paul Nizan, autore de I
cani da guardia (1932), per il quale lo stesso distacco teorizzato da Benda costituiva
in realtà già esso una presa di posizione.