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GIULIO ROMANO
La Vita.
La data di nascita di Giulio Romano non è sicura. Le fonti da cui si può
dedurre qualche notizia sono il necrologio tributato a Mantova all’artista,
che indica il 1499, e l’opera di Giorgio Vasari Le Vite de’ più eccellenti
pittori, scultori e architettori (1568)
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, in cui si risale al 1492. Si tratta,
però, di notizie non del tutto attendibili perché oltre a uno scarto di ben
sette anni i due testi presentano, per motivi diversi, margini di
approssimazione piuttosto ampi. Certi invece il luogo di nascita, Roma, e
la paternità, dichiarata dal “nobilis vir” Pietro Pippi “de Ianutiis”
2
.
L’avvio dell’apprendistato artistico di Giulio si colloca verso la metà del
secondo decennio del Cinquecento, quando inizia a lavorare nella bottega
romana di Raffaello Sanzio.
Collaboratore di Raffaello in Vaticano, si stacca ben presto dal gruppo
degli allievi ed elabora una grandiosa maniera, in cui l’altissimo lascito
del classicismo raffaellesco e dell’antico viene rivissuto con intensità e
riproposto in un rinnovato ordine linguistico coinvolgente architettura e
decorazione. La sua carriera può dividersi in due fasi: partecipazione alle
imprese vaticane fino alla morte di Raffaello (1520); poi, partenza da
Roma nel 1524 per Mantova, dove da Baldassarre Castiglione era stato
introdotto presso Federico Gonzaga, che gli affida la realizzazione di un
vasto complesso monumentale, il Palazzo del Te. Collabora con
Raffaello agli affreschi della Stanza dell’Incendio di Borgo (1515-16) e,
probabilmente, ai disegni preparatori ai cartoni per gli arazzi con gli Atti
degli apostoli. In questi anni partecipa, oltre che alla decorazione della
Stufetta e della Loggetta del cardinal Bibbiena, all’affrescatura delle
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G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, (Firenze 1568), Milano 1929, rist. Firenze 1981.
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C. D’Arco, Istoria della vita e delle opere di Giulio Pippi Romano (Mantova 1838), 2° ed. 1842
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Logge (1516-19), sequenza di 52 storie del Vecchio Testamento in
formato ridotto, dai forti contrasti di timbro cromatico, ritmate da parti
ornamentali e grottesche. In particolare, sono riconosciute a Giulio una
decina di scene fra le quali: il Diluvio Universale, Abramo e
Melchisedec, il Sacrificio di Isacco, Mosè presenta le tavole della Legge.
Giulio è riconosciuto inoltre responsabile della maggior parte degli
affreschi, eseguiti su progetto di Raffaello, della Storia di Psiche nella
loggia della Farnesina (1517-19), ove si manifesta in pieno quel processo
di <<reificazione>> della figura ideale raffaellesca verso una sensuosa
evidenza, che diverrà un carattere costante del suo corposo mondo. Resta
ancora problematica la partecipazione a numerose opere di soggetto
religioso fra le ultime di Raffaello, come l’Andata la Calvario, detta lo
Spasimo di Sicilia (Madrid, Prado), la Sacra Famiglia di Francesco I
(Parigi, Louvre), la Sacra Famiglia, detta La Perla (Madrid, Prado). Al
periodo compreso fra il 1518 e il 1524 appartiene sia un gruppo di dipinti
di piccolo formato aventi come protagonista la Vergine (Madonne
Gonzaga, Spinola, Novar, Hertz), sia pale d’altare (Lapidazione di Santo
Stefano: Genova, Santo Stefano; Deesis: Parma; Incoronazione di
Monteluce: Roma, in collaborazione con Giovan Francesco Penni), sia
ritratti (Ritratto di donna: Strasburgo; Ritratto di giovane: Lugano, coll.
Thyssen). In tutte queste opere il grado di responsabilità personale di
Giulio oscilla all’interno di un’ampia gamma interpretativa fondata su
un’idea raffaellesca, e dunque tra la collaborazione diretta a fianco del
maestro e una singolare dote di continuità che fa agire il modello in un
ambito sostanzialmente rinnovato.
Al di là della collaborazione artistica, il rapporto con Raffaello è di
grande affetto e la profondità del sentimento può in buona parte essere
attribuita al carattere di Giulio, che Vasari nell’opera sopra citata così
descrive: “fondato, fiero, sicuro, capriccioso, vario, abundante ed
universale”, aggiungendo, a riprova del legame con il maestro, “che egli
fu dolcissimo nella conversazione, ioviale, affabile, grazioso e tutto
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pieno di ottimi costumi: le quali parti furono cagione che egli fu di
maniera amato da Raffaello, che egli fusse stato figliolo non più
l’avrebbe potuto amare; onde avvenne, che si servì sempre di lui
nell’opere di maggiore importanza”.
La prima opera autonoma di Giulio è il Ritratto di Giovanna d’Aragona
(Parigi, Louvre) in cui, tra l’altro, è già possibile riconoscere il distacco
dalla concezione raffaellesca. Nonostante lo sforzo per riprendere la
visione artistica del Sanzio e ottenere il consenso, Giulio introduce infatti
sin d’ora quello che sarà uno degli elementi più caratterizzanti dei suoi
ritratti, lo scarto tra il personaggio effigiato e l’ambiente che lo circonda;
spezza volutamente l’armonia, tanto ricercata invece da Raffaello, tra
figure e spazio, non subordinato più il secondo alla prima bensì
costruendo entrambi come episodi diversi di una prospettiva più vasta.
Il 6 aprile 1520 muore Raffaello Sanzio. La sua bottega, insieme alle
commesse non ancora compiute, viene ereditata da Giulio Romano e da
Giovan Francesco Penni. Nello stesso anno il cardinale Giulio dei Medici
gli affida, insieme a Giovanni da Udine, la decorazione (compiuta nel
1525) di un’altra creazione raffaellesca, villa Madama. Divenuto papa
con il nome di Clemente VII, e desideroso di condurre a termine i lavori
nelle Stanze, questi lo incarica di concludere la decorazione della Sala di
Costantino, iniziata da Raffaello, che doveva completare il programma
celebrativo sviluppato nelle altre Stanze Vaticane. Giulio Romano
coinvolse nell’impresa altri pittori della cerchia raffaellesca come Giovan
Francesco Penni, Polidoro da Caravaggio e Perin del Vaga. La
rielaborazione operata da Giulio, ormai libero da qualsiasi controllo del
maestro, gli consentì di esprimere un orientamento nuovo, in cui la
sintesi e l’equilibrio dello stile classico venivano compromessi. Le scene
dipinte sulle pareti sono l’ Apparizione della Croce a Costantino, la
Battagli di ponte Milvio, il Battesimo di Costantino e la Donazione di
Costantino.
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Nella spettacolare scena della Battaglia di ponte Milvio (1521) si articola
in una complessa correlazione di piani che nel loro ambiguo moltiplicarsi
secondo ritmi spezzati non consentono allo spettatore di individuare un
punto fisso di riferimento. Evidente la derivazione iconografica da
prototipi romani, tanto che alcuni particolari appaiono ripresi dai rilievi
dell’arco di Costantino e dalla colonna Traiana. Il rapporto con l’antico,
tuttavia, è risolto in chiave retorica, secondo una interpretazione che
sdrammatizza la violenza dell’azione per recuperare il valore simbolico
dell’intera scena. Anche nella definizione della figura umana l’artista
contraddice i propri antecedenti classici nella accentuazione plastica dei
volumi dalle superfici lucidate, in cui i dettagli paiono incisi più che
modellati.
Agli stessi anni appartengono anche importanti dipinti d’altare come la
Madonna della gatta (Napoli, Capodimonte) e la Madonna col Bambino
e i SS. Giovanni Battista, Marco e Giacomo (1524), commissionata dal
banchiere Jacopo Fugger per la chiesa romana di Santa Maria
dell’Anima.
Gli anni del pontificato di Clemente VII Medici (1523-27) segnarono
un’altra felice stagione per le arti. Il clima culturale raffinato e sensibile
della corte papale attrasse a Roma un gran numero di artisti tra cui il
Parmigianino, Rosso Fiorentino e Benvenuto Cellini, che affiancarono
gli artisti già presenti in città, come Giulio Romano, Perin del Vaga,
Polidoro da Caravaggio, Giovanni da Udine e Sebastiano del Piombo.
Ma un drammatico evento mise fine a questo periodo di fecondi scambi
artistici: nel 1527, il sacco di Roma ad opera dei lanzichenecchi
dell’imperatore Carlo V provocò la diaspora degli artisti verso vari centri
italiani, peraltro già avviata con la partenza di Giulio Romano. Nel 1524
Giulio fu chiamato a Mantova da Federico II Gonzaga, figlio di Isabella
d’Este, per sovrintendere come architetto al rinnovamento urbanistico
della città. Aiutato da uno stuolo di collaboratori (Rinaldo Mantovano,
Fermo Chisoni, Benedetto Pagni, Girolamo da Treviso e molti altri) egli
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promosse numerosi interventi architettonici, nell’intento di fare di
Mantova “una nuova Roma”. Difatti nei primi due anni di vita
mantovana la carriera di Giulio si sviluppa essenzialmente sul versante
architettonico, come è dimostrato dalla nomina a “superiore delle strade”
e “prefetto delle fabbriche” gonzaghesche (20 novembre 1526) e
soprattutto dall’inizio della costruzione di Palazzo Te, risalente con ogni
probabilità al 1525. Nel breve volgere di pochi mesi però, i suoi compiti
si estendono anche al controllo della pittura e crescono rapidamente in
importanza e competenza, sino a fargli ricoprire il ruolo di “regista” della
vita di corte, ricalcando la figura incarnata da Raffaello Sanzio presso
Leone X.
La qualità che gli consente di percorrere un tale cammino in tempi così
ravvicinati consiste nel saper fornire quasi a getto continuo disegni per
argenteria e apparati di corredo, per affreschi e quadri, per palazzi, ville e
giardini, e veramente questa svariatissima produzione ha il suo centro
motore nel primato del disegno.
La principale commissione affidata all’artista fu la costruzione di
Palazzo Te
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, rappresenta in un certo qual modo la summa, l’espressione
più compiuta di quello che Giulio Romano ha saputo realizzare alla corte
dei Gonzaga. La singolarità dell’opera inizia dal nome “Te” così
denominato perché derivante da un termine medievale, Teieto, con cui
veniva indicata una distesa erbosa piuttosto ampia dietro i bastioni
meridionali di Mantova. Lì, tra i pascoli, sorgevano le mura di antiche
scuderie gonzaghesche che avevano suggerito al marchese Federico
l’idea di una villa con un giardino disegnato dall’acqua (la zona era
circondata da piccoli laghi) appena esterna alla cerchia cittadina. Palazzo
Te è una villa suburbana, destinata allo svago e ai piaceri di Federico II
Gonzaga, chiaramente derivata dai modelli romani della Farnesina e di
villa Madama. Giulio Romano edificò un ampio palazzo a pianta
quadrata con cortile centrale, che sviluppò su un solo piano per adeguarlo
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G.M. Erbesato, Il Palazzo Te di Giulio Romano, Firenze 1987.
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al piatto e paludoso paesaggio circostante. Sul lato est un grandioso
loggiato si apre verso il giardino, con una serie di archi sostenuti,
nell’atrio centrale, da gruppi di quattro colonne. L’edificio è un
campionario di invenzioni stilistiche, reminiscenze archeologiche, spunti
naturalistici e decorativi, quali ad esempio le colonne inglobate in
blocchi di pietra a superficie rustica del cortile.
Nel progetto Vasari distingue due fasi costruttive: una iniziale,
circoscritta alla parte settentrionale del perimetro preesistente – “un poco
di luogo da potervi andare, e ridurvisi talvolta a desinare o a cena per
ispasso” -, e una successiva per “far poi tutto quello edificio a guisa di un
gran palazzo”. Le prime notizie relative alla “fabrica nova”del Te sono
datate febbraio 1526 (ma l’avvio dei lavori si può far risalire ad alcuni
mesi prima) e riportano i quantitativi di colori, pennelli, gesso, marmi
per porte e camini, statue antiche acquistati per la decorazione
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.
L’approvvigionamento così tempestivo di questi materiali testimonia
come proprio la decorazione fosse considerata la parte più impegnativa
di tutta l’opera. Infatti, negli anni successivi, l’artista diresse anche i
lavori di decorazione del palazzo, dove portò a maturazione gli spunti
raccolti nel periodo della sua educazione romana nella bottega del
Sanzio. E’ probabile che sin dall’inizio dei lavori Giulio avesse un
programma preciso e che tutti i disegni siano stati completati in anticipo
rispetto a qualunque esecuzione.
I collaboratori per la pittura e le decorazioni plastiche di cui si ha notizia
sono circa una decina; ad essi è affidato il compito di completare le scene
dopo che Giulio Romano le ha preparate e ha dato i primi tocchi, a mo’
di esempio e impostazione.
In base ai dati stilistici la prima sala eseguita risulta essere quella dei
Cavalli, cui prendono parte tutti gli aiuti. Si tratta di un ambiente
dedicato all’esaltazione di una delle grandi passioni di Federico
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G. Paccagnini, Il Palazzo Te, Milano 1957.
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Gonzaga, i cavalli appunto, e ancora al duca e alle sue qualità guerresche
rimandano le Storie di Ercole collocate sopra i destrieri.
Sempre riferibile a una prima fase è la decorazione dell’attigua Sala di
Psiche
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(1527-28 ca.), dedicata alla glorificazione dell’amore, riprese il
tema già trattato nella Farnesina, sviluppandolo in modo più
scenografico e dissacrante, e prendendo spunto dalle Metamorfosi di
Apuleio. Nella Sala dei Giganti (1532-36) creò uno straordinario
capolavoro di grande potenza illusionistica: nella grandiosa decorazione
delle pareti, basata sulla Gigantomachia di Ovidio, le figure possenti dei
giganti si contorcono tra le architetture crollate, fino all’Olimpo del
soffitto, con gli dei trionfanti tra le nuvole, alludendo allegoricamente
alla caduta degli angeli ribelli a Dio. Questi due ambienti principali, la
Sala di Psiche e la Sala dei Giganti, si contrappongono per la diversità di
concezione: la prima, a nord, articolata in un raffinato gioco di
medaglioni e lunette, ricco di virtuosistici effetti illusivi; e la seconda, a
sud, che sembra circondare il visitatore di un incessante turbinio di figure
mostruoso.
Altre sale sviluppano temi astrologici e allegorici (Sala dei Venti, Sala
delle Aquile). Gli ultimi interventi vengono effettuati entro la prima metà
del 1534.
Non si deve con ciò pensare che la lavorazione abbia avuto un ritmo
lento, perché in realtà Giulio Romano e i suoi collaboratori – pressati da
Federico Gonzaga che più di una volta li minaccia addirittura di
applicare pene corporali – lavorano con tempi anche più accelerati di
quelli del pur rapido Raffaello. Gli ambienti da creare sono però oltre
venti e le decorazioni esigono un’organizzazione del lavoro oltremodo
articolata, in grado di coordinare tutte le componenti che contribuiscono
a una realizzazione così complessa, dai finanziamenti ai disegni,
all’opera di muratori, scalpellini, pittori, stuccatori, falegnami, doratori.
Il risultato finale è una sontuosa villa di rappresentanza costruita in una
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D. Arasse, Giulio Romano e il labirinto di Psiche, in “Quaderni di Palazzo Te”, 3, II, 1985, pp. 7-18.