privati e soprattutto rende, per un paese così grande, difficile il
a. controllo e la gestione dell’intero territorio e di chi vi oper
La curiosità verso la Russia e la sua politica economica è nata, molto
probabilmente, dalla volontà di capire cosa l’attuale Russia deve al
passato e cosa invece rappresenta una novità nel panorama russo. Nel
secondo capitolo, infatti, seguiremo le vicende della Russia dalla sua
nascita, dalla dissoluzione dell’Urss, e poi guarderemo all’ambiente
politico che ha caratterizzato gli anni della presidenza Yeltsin, con i
risvolti della crisi del 1998, soffermandoci più attentamente sul periodo
caratterizzato dai due mandati presidenziali di Putin, sottolineando le
caratteristiche della politica economica adottata.
Molto probabilmente la Russia di Putin presenta più continuità che
discontinuità con il passato, ma è importante comunque analizzarle per
comprendere perché nella Russia di oggi siano presenti determinate
situazioni e perché sia ancora difficile parlare di una vera e propria
“economia di mercato”. Nel terzo capitolo privilegeremo la descrizione
della politica energetica e del rapporto fra lo Stato russo e l’economia
del paese, dei trend che hanno caratterizzato, storicamente, le politiche
economiche del paese e quale sia stato l’atteggiamento di Putin nei
confronti dei cosiddetti “ settori strategici”. Nell’ultimo capitolo si
cercherà di capire se il percorso della Russia di Putin possa essere, in
qualche modo, accostato all’esperienza dei paesi del nord‐est asiatico
che hanno avuto successo attraverso un ruolo attivo dei governi nel
formulare e implementare una politica economica di gran vigore e
istituzioni pubbliche e private che hanno lavorato attivamente avendo
come fine unanime la realizzazione dello sviluppo economico. Il lavoro,
non ha la pretesa di essere esaustivo sull’argomento, ma sicuramente di
suscitare l’interesse per un paese forse sottovalutato dopo la fine della
guerra fredda e a cui le istituzioni internazionali hanno suggerito
politiche di sviluppo poco adatte all’ambiente economico e istituzionale,
rendendo ben più difficile la ripresa dopo la crisi del 1998.
vii
PRIMO CAPITOLO
La teoria dello “Stato sviluppista”
1.Introduzione storica: la nascita del concetto di “stato
sviluppista”
Per quanto gli ultimi decenni siano stati caratterizzati da una gran
trattazione del fenomeno globalizzazione, lo Stato, nella veste di attore
economico, ritorna prepotentemente alla ribalta.
Nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, il Fondo
Monetario e la Banca Mondiale si fecero promotori di politiche
economiche neo‐liberali che sono confluite nel cosiddetto “Washington
Consensus” che prevedeva, tra l’altro, l’apertura del mercato nazionale
e l’avanzamento di programmi di privatizzazione, come condizioni per
accedere ai prestiti internazionali. Nell’attuale congiuntura finanziaria,
invece, non è raro assistere all’annuncio di piani d’intervento
governativo riguardanti politiche di ristrutturazione di enti ed aziende
pubbliche, politiche per le infrastrutture e la piena occupazione.
Sia gli studiosi, che i vari responsabili delle economie nazionali, da
sempre si sono scontrati sula teoria economica cui guardare
nell’implementazione delle politiche economiche nazionali, quindi quali
obiettivi e strumenti lo Stato debba per raggiungere il benessere sociale
(Gilpin, 2003: 315). A causa anche della grande depressione del 1929‐
33, che è stata la crisi economica più devastante nella storia
dell’economia mondiale, nei venticinque anni, che seguirono la fine
della seconda guerra mondiale, prevalsero le teorie economiche che
attribuivano allo Stato un attivo intervento in economia. Secondo la
teoria economica Keynesiana le politiche statali che favorivano alcune
industrie, così come quelle che disciplinavano la competizione,
1
potevano essere dedotte dalla “natura imperfetta” del mercato (Csáki,
2008: 14).
Durante gli anni ’50 e ’60, nell’ambito degli studi sullo sviluppo
economico internazionale dominò la scuola neoclassica ed in
particolare la teoria economica di Rostow. Questa fu resa popolare e
adottata anche dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca
Mondiale.
La popolarità della teoria di Rostow era data dal fatto che considerava
lo sviluppo un fenomeno a traiettoria lineare e che ogni economia aveva
la possibilità, attraverso un percorso a cinque tappe, di arrivare allo
sviluppo (Rostow, 1960). E’ con Alexander Gerschenkron che diviene
popolare l’intervento statale nella lotta all’arretratezza. Anzi
Gerschenkron affermava che “più l’economia era meno sviluppata e più
ssumere nell’economia” grande era il ruolo che lo Stato doveva a
( Gerschenkron, 1962; Leftwich, 1995).
Grazie agli studi sullo sviluppo, dagli anni ’60, s’incominciò a parlare
sempre più di “developmental state”. Ciò si deve alle mutate
caratteristiche dell’economia mondiale; erano entrati in scena nuovi
Stati indipendenti che si erano resi conto, quasi da subito, che per
giocare un ruolo attivo e non solo periferico nell’economia mondiale
non potevano affidarsi unicamente alla teoria economica neoclassica o
alle politiche Keynesiane (Csáki, 2008: 15).
Nacque quindi l’esigenza di trovare “nuove ricette” adatte a contesti
differenti dall’occidente per cultura, caratteristiche economiche,
politiche e sociali. Nell’ambito della teoria della dipendenza prese
sempre più piede la convinzione che per spezzare il legame di
dipendenza fra “centro” e “periferia” non erano sufficienti solo
interventi esterni ma era necessario un ruolo sempre più attivo delle
classi che governavano i paesi della periferia ed erano perciò
responsabili delle politiche e scelte lì attuate (Szentes, 1999: 691).
S’incominciò a prestare sempre più attenzione allo sviluppo economico
e al modo in cui, magari in alcune circostanze, questo poteva essere
2
stimolato. Gli anni ’60 e ’70 furono caratterizzati dallo “Stato sviluppista
classico” che prevedeva, ad esempio, di evitare il deteriorarsi dei tassi
di cambio attraverso l’attuazione di politiche monetarie e di cambio
attive.
Lo stato Sviluppista prevedeva anche la nascita (o rinascita) di una
classe di industriali (il più delle volte estensione del settore statale); lo
Stato era perlopiù uno stato industriale, poiché supportava, ad esempio,
i produttori locali di materie prime che a loro volta esercitavano una
forte influenza a livello governativo. Le procedure suggerite dalla teoria
dello stato sviluppista classico (che miravano non solo a far convergere
verso le economie dei paesi più sviluppati ma anche a copiarne i modelli
di crescita) fallirono completamente in America Latina e nell’Africa sub‐
sahariana ma ebbero successo nel nord‐est asiatico (Csáki, 2008: 15‐
16). Nel dare una spiegazione del successo del nord‐est asiatico, alla
fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, gli studiosi
neoliberisti si sono scontrati con i teorici dello stato per lo sviluppo.
I neoliberisti lo spiegavano sostenendo che quelle economie si erano
affidate al mercato e lo Stato lì aveva avuto un minimo ruolo. Dall’altro
lato la teoria dello stato per lo sviluppo, attribuiva proprio al ruolo dello
Stato la rapida ascesa economica. Infatti affermava che i governi
dell’Asia orientale avevano ricoperto un ruolo importante se non
centrale nello sviluppo delle loro economie (Gilpin, 2003: 316). Proprio
su quest’aspetto i teorici neoclassici pongono le loro critiche;
l’intervento dello Stato nel promuovere politiche di sostituzione delle
importazioni avrebbe generato industrie inefficienti, che avrebbero
richiesto continui e permanenti sussidi statali, e avrebbe creato
“ricercatori di rendite” su larga scala che attraverso le loro lobby
avrebbero fatto pressione per essere i destinatari unici dei sussidi
governativi (Öniş, 1991). Quattro autori, Alice H. Amsden, Frederic C.
Deyo, Chalmers Johnson e Robert Wade sono esempi di studiosi che
rifiutano la visione neoliberale della crescita dell’Asia orientale e che
hanno posto al centro dei loro studi il ruolo giocato dai governi nel
3
“domare” le forze di mercato, nazionali e internazionali, sfruttandole a
proprio vantaggio (Amsden 1989; Deyo, 1987; Johnson, 1982; Wade,
1990).
Al “modello di sviluppo asiatico” sono stati dedicati tanti saggi e opere
di cui il pioniere è considerato Chalmers Johnson che nel 1982 pubblicò
“MITI and the Japanese Miracle”.
Con questa pubblicazione la locuzione di “stato sviluppista” fece il suo
debutto nel mondo accademico e d’allora in poi ci furono importanti
tentativi per cercare di concettualizzarlo (Leftwich, 1995: 403).
Per Johnson il Giappone può essere considerato l’archetipo di stato
sviluppista. Il successo giapponese (dagli anni successivi alla seconda
guerra mondiale) non doveva essere visto, secondo l’autore, come un
caso di fortuna o qualcosa di eccezionale, ma come il risultato di una
politica di pianificazione razionale il cui obiettivo era “ di definire i più
importanti obiettivi economici e sociali”, attraverso cui controllare il
processo di sviluppo e mobilitare la società. Il più importante obiettivo,
nel Giappone del secondo dopoguerra, era restaurare le potenzialità e
capacità industriali (Beeson, 2003: 2). Il popolo giapponese appoggiò
diffusamente l’idea che lo Stato avesse una funzione legittima e
importante nel promuovere la crescita economica e la competitività
internazionale (Johnson, 1982).
I risultati raggiunti dal Giappone, che divenne la seconda economia più
produttiva, come sottolineato da Johnson, rappresentavano una sfida
alle dottrine economiche e politiche che dominavano lo scenario
mondiale durante la guerra fredda. Infatti, le performance giapponesi
mettevano in discussione le economie socialiste di pianificazione,
secondo cui l’adozione del capitalismo avrebbe portato all’antagonismo
di classe e all’instabilità di classe, ma allo stesso modo mettevano in
discussione anche le economie di “libera impresa”, di stampo anglo‐
americano, secondo cui l’intervento governativo in economia sarebbe
stato inefficiente e deformante ( Deyo, 1987).
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5
C’è da sottolineare che la pubblicazione dell’opera di Johnson e di altri
colleghi non portò all’accettazione piena e condivisa del concetto di
stato sviluppista fra coloro che si occupavano di studi di economia e
politica internazionale.
Ad esempio Beniamin Powell trovò irrilevanti, sia teoricamente sia
empiricamente, le interpretazioni fatte dello stato sviluppista nel nord‐
est asiatico (Johnson, Evans, Wade) ed affermò che, indubbiamente
negli stati del nord‐est asiatico vi era stata una pianificazione
governativa, ma questa aveva sostenuto l’industrializzazione e non la
crescita e che quei paesi erano cresciuti in modo così dinamico perché
erano state fra le economie più libere del mondo. Era stata quindi la
libertà economica che, più di ogni altra cosa, era stata capace di
generare la crescita più veloce di questi paesi (Powell, 2005).
Ulteriormente Paul Krugman, in un articolo di Foreign Affairs del 1994
attaccò l’idea che i governi dell’Asia orientale avessero avuto successo
grazie alle politiche pubbliche adottate. Al contrario, da economista
neoclassico qual era, sostenne che queste società avevano avuto buoni
risultati perché grazie alla forte crescita della popolazione avevano
accumulato capitale e lavoro (i fattori base della produzione) e che
quindi il processo di sviluppo era stato conforme al modello di crescita
neoclassico. Insomma non c’era stato nessun “miracolo”, solo un salto in
vanti una volta tanto ( Krugman, 1994). a
2. La teoria dello “stato sviluppista”
Il modello di “stato sviluppista” sottintende, secondo Adrian Leftwich,
sei fondamentali elementi:
viluppo; una classe sociale che promuove lo s
una relativa autonomia dello Stato;
accata; una burocrazia economica potente e dist
una società civile debole e subordinata;
una gestione effettiva degli interessi economici n
epressione e legittimità ( Leftwich, 1995: 405).
on statali;
r
nalizziamo di seguito ogni singolo elemento. A
A. Una classe sociale che promuove lo sviluppo_ Gli stati sviluppisti
si distinguono dal carattere delle élites al potere. In genere attorno al
capo dell’esecutivo c’è un piccolo gruppo di politici e burocrati navigati.
Il limitato numero di burocrati aiuta a consolidare la loro posizione
all’interno della società e a mantenere il controllo e la responsabilità
degli stessi. Cruciale per la sopravvivenza e continuità di ogni stato
sviluppista sarebbe quindi il mantenimento di questa coalizione. Altra
caratteristica è il legame quasi “intimo” fra i componenti politici e quelli
burocratici, sia civili sia militari (ne è esempio il Giappone) (Leftwich,
1995).
In Tailandia, ad esempio, a seguito del rovesciamento della monarchia
assoluta nel 1932, vi era stata una modernizzazione della burocrazia
civile e militare che aveva portato ad una sua presenza marcata negli
uffici politici (Wilson, 1962).
C’è da considerare però che le èlite al potere non sono entità
monolitiche, ma costituiscono la sintesi di interessi diversi e che,
quando cambiamenti socio‐economici mutano la struttura della società,
gli interessi e le idee, di conseguenza possono verificarsi conflitti
all’interno dell’élite stessa. Inoltre gli stati sviluppisti non sono certo
immuni dalla corruzione. Infatti nelle economie che conoscono una
rapida crescita, il benessere improvviso può generare “tentazioni”
specialmente nelle società caratterizzate da reti clientelari. Ad esempio
in Tailandia e Indonesia si sono registrati spettacolari livelli di
r ft ch 5 . co ruzione (Le wi , 199 : 407)
È necessario in ogni modo rilevare che parte fondamentale
dell’ambiente istituzionale, dello stato sviluppista, deve essere
considerato non il mero interventismo statale ma piuttosto un
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