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Introduzione
Il presente lavoro si propone di ricostruire parte del dibattito culturale, svoltosi in
Italia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, sul rapporto tra
letteratura e industria.
Relativamente a tale argomento, l’ambito di analisi prescelto è quasi del tutto
circoscritto ai testi ritenuti più rilevanti apparsi sulle pagine de «Il Menabò di
letteratura», una delle più influenti riviste letterarie del periodo, diretto da Elio
Vittorini e Italo Calvino. «Il Menabò» fu l’unica pubblicazione in grado di affrontare
con una certa organicità, equilibrio ed apertura dialettica le questioni riguardo alla
suddetta tematica
1
. Si è fatto inoltre riferimento anche ad altre due importanti riviste
molto attive in quegli anni, «Officina» e «Il Verri».
In tale contesto, si sono sottoposti a disamina gli interventi sul tema di alcuni dei
protagonisti del panorama culturale del periodo, in primo luogo Italo Calvino e
Angelo Guglielmi. Si è inoltre tenuto conto delle posizioni di altri intellettuali, tra i
quali: Elio Vittorini, Gianni Scalia, Franco Fortini, Renato Barilli e Umberto Eco.
Lo studio trae origine da un intreccio di motivazioni di carattere personale, anche
lontane negli anni, e di interessi maturati più di recente, nel corso degli studi
universitari. La scelta di Calvino deriva dalle suggestioni giovanili suscitate da un
autore paradigmatico nella sua passione per la conoscenza e la limpida capacità
analitica della realtà mediante la ragione, l’utilizzo del logos come ordinatore del
caos del mondo. Un ruolo decisivo è da attribuire anche al fascino esercitato
dall’equilibrio tra fantastico e reale presente in molti libri di Calvino, volto ad
esplorare le molteplici pieghe della realtà, la pluralità dei punti di vista, le possibilità
di superamento dei limiti personali e naturali.
L’interesse si è poi focalizzato su un particolare momento della storia politico-
culturale dell’Italia del Novecento: il decennio ’56-’65. È l’epoca in cui si apre la
1
«Nell’individuazione di nuove e sollecitanti proposte, nell’indicazione di un indirizzo di ricerca “non
preventivato”, la rivista occupa, in un momento di impasse ideologica e metodologica, agli inizi degli
anni Sessanta, un posto di rilievo, ponendosi come ricerca e progettazione ‘aperta’ ad infinite
possibilità di sviluppo» (D. Fiaccarini Marchi, «Il Menabò» (1959-1967), Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1973, p. 16).
4
sfida della modernizzazione e dell’industrializzazione del nostro Paese, da poco
rialzatosi dalle macerie della seconda guerra mondiale. Sono anni critici, di snodo
della storia recente italiana, di scelte destinate a trasformare profondamente il volto
del Paese.
Anche a livello internazionale è un periodo ricco di avvenimenti e tensioni: sono
gli anni dell’invasione dell’Unione Sovietica in Ungheria, della guerra di Corea, del
riformismo kennediano e del nuovo corso impresso alla Chiesa Cattolica da Papa
Giovanni XXIII. Nel ’57 nasce la Comunità Economica Europea (CEE) che
favorisce il mantenimento dei rapporti di pace in Europa; nel 1962, con la crisi dei
missili a Cuba, le due superpotenze nucleari Usa e Urss giungono sull’orlo della
terza guerra mondiale; in Asia e Africa si assiste al rapido processo di
decolonizzazione; si inventa la definizione di ‘Terzo Mondo’ per indicare i paesi
sottosviluppati.
In Italia si introducono nuove metodologie organizzative e produttive,
prevalentemente sulla base dei modelli aziendali anglosassoni. Questi ultimi sono
adottati dalla stessa industria culturale, per la quale la cultura diventa mera merce da
vendere, come può testimoniare ad esempio l’apparizione nelle case editrici del
marketing manager, d’importanza non inferiore al direttore editoriale.
Il mondo culturale e letterario italiano sembra assistere inerte a questo grande
processo di cambiamento che investe il Paese. Gli stili espressivi non sembrano
consoni al nuovo contesto socio-politico, si ripropongono ancora le vecchie forme
neorealiste ed ermetiche scadute ormai nel manierismo. L’intellettuale tradizionale,
ritrovandosi lavoratore salariato nella nuova industria culturale, entra in crisi e deve
affrontare una profonda revisione del proprio ruolo nella società. Operazione avviata
da una parte dagli intellettuali ‘storicisti’ fedeli al vecchio ruolo dell’intellettuale
umanistico, e dall’altra – su posizioni ideologicamente antitetiche – dai seguaci della
fenomenologia, per i quali invece occorre sperimentare vie nuove per ridefinire una
propria collocazione nell’ambito delle attività umane. I primi si raccolgono intorno
alla rivista ‘neosperimentale’ «Officina» di Pasolini, Roversi e Leonetti, i secondi si
ritrovano ne «Il Verri» ‘antidealista’ e ‘antidogmatico’ di Anceschi, Barilli,
5
Sanguineti e Pagliarani, esponenti della Neovanguardia, movimento dalla forte carica
innovativa e contestataria
2
.
«Il Menabò», assumendo un atteggiamento progettuale, razionalista e
gnoseologico, si situa per certi versi a metà strada tra le due riviste, tentando di
contemperare posizioni spesso inconciliabili tra loro. Ne sono un esempio il quarto e
il quinto numero della rivista, che accolgono una pluralità di voci contrastanti. In
particolare il quinto numero pubblica un’ampia rassegna di testi letterari di autori
della Neoavanguardia.
Tra il 1961 e il 1963, «Il Menabò» avvia una ricognizione sul mondo industriale
in rapporto alla letteratura e agli intellettuali in una società investita da un così
impetuoso processo di modernizzazione. Il quarto fascicolo è un numero
monotematico su industria e letteratura; ospita testi critici e letterari di alcune delle
migliori intelligenze del periodo: gli stessi direttori Vittorini e Calvino, Scalia, Forti,
Ottieri, Davì, Sereni e Giudici.
Dato l’interesse suscitato nel mondo culturale, il dibattito riprende sul numero
successivo con gli interventi di Bragantin, Ferrata, Fortini, Leonetti, Eco e ancora
Calvino, con il suo saggio La sfida al labirinto
3
, uno scritto in cui si sofferma sulle
avanguardie culturali in relazione alla rivoluzione industriale e che avvia un’accesa
polemica con Angelo Guglielmi, uno dei più lucidi teorici del movimento della
Neoavanguardia.
Considerando l’eccezionalità del momento storico-sociale e il livello delle figure
intellettuali coinvolte, è sembrato opportuno porre in rilievo il confronto tra i
‘tradizionalisti’ di stampo storicista e gli ‘avanguardisti’, i quali lottavano per un
radicale rinnovamento delle forme, l’apertura ai fermenti internazionali e contro
l’establishment dominante. Una parte sempre più consistente del mondo culturale
riteneva infatti ormai improcrastinabile l’avvio di una profonda revisione della
funzione della letteratura in una società moderna e dinamica.
2
Cfr. R. Luperini, Neosperimentalismo e nuova avanguardia, in Il Novecento, II, Torino, Loescher,
1981, p. 762.
3
I. Calvino, La sfida al labirinto, in «Il Menabò», 5, 1962, pp. 85-99.
6
Infine, dalla suggestione di un’immagine poetica nasce il titolo di questo studio,
ovvero dal il verso «e credo che una rosa esiti dentro il sasso», tratto dalla poesia In
una strada di Firenze
4
, scritta nel 1954 da Franco Fortini, intellettuale pienamente
partecipe al dibattito politico-culturale di quel periodo. In Fortini impegno politico e
poesia si sovrappongono e si scindono in un rapporto di continua contraddizione che
arriva anche ad assumere caratteri di radicalità: da una parte la concezione della
poesia intesa come forma assoluta, classica, che tende a fissarsi in uno spazio e in un
tempo metafisico, dall’altra le contingenze della battaglia politica che vive del
costante confronto con la realtà. Ma per lo scrittore fiorentino la poesia può uscire
dalla sua organica ‘inutilità’ solo se sa vivere fino in fondo la sua stessa
contraddizione.
In Fortini la figura del sasso è dunque metafora della durezza e pesantezza della
lotta politica, ma anche della difficoltà di ‘far poesia’ nel prosaico e caotico contesto
del mondo industriale. All’elemento sasso si contrappone, mediante un processo di
straniamento brechtiano, la rosa, figura emblematica di felicità, leggerezza, speranza
e liberazione. L’immagine della rosa mette in risalto la totale estraneità della bellezza
al mondo degradato del neocapitalismo industriale. Da qui la sfida a cogliere nella
pietra un’‘esitante rosa’, a riaffermare i valori e le possibilità dell’arte e della
letteratura, proposito che Calvino riprende appunto nella sua «sfida al labirinto».
La contrapposizione ‘sasso-rosa’ inevitabilmente riporta alla leggerezza
calviniana delle Lezioni americane, in particolare a quell’immagine che Calvino
rintraccia in una novella di Boccaccio, in cui «Cavalcanti […] volteggia con le sue
smilze gambe sopra la pietra tombale»
5
.
Si può leggere, in essa, la metafora del rapporto tra il poeta e il mondo industriale
moderno, del rinnovato sforzo (o ‘salto’) che la poesia deve compiere per recuperare
la sua funzione interpretativa della realtà. È anche l’immagine-simbolo che lo
scrittore sceglie come augurio per il terzo millennio e che contiene tantissimi
riferimenti alla sua produzione letteraria:
l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla
pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il
4
F. Fortini, In una strada di Firenze, in Versi scelti. 1939-1989, Torino, Einaudi, 1990 (il testo
integrale è riportato a p. 1).
5
I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 2002, p. 22.
7
segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la
vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante,
appartiene al regno della morte, come un cimitero d’automobili
arrugginite
6
.
Il primo capitolo di questo lavoro offre una panoramica storico-culturale del
periodo, soffermandosi sulle trasformazioni del sistema culturale italiano e in
particolare della figura dell’intellettuale nel corso del Novecento. Sul piano più
strettamente letterario, affronta la crisi del Neorealismo e dell’Ermetismo, poetiche
che mostrano tutti i loro limiti, specie linguistici. Il capitolo tratta poi il tentativo di
revisione della cultura italiana operato da Pasolini e dagli altri officineschi,
fenomeno che prende il nome di ‘neosperimentalismo’. Essi rivendicano autonomia
espressiva e libertà da ogni condizionamento di scuola o di partito. Data la matrice
storicista, il loro impegno riformatore non può tradursi in un efficace progetto
innovativo in linea con l’evoluzione socio-culturale di quegli anni. Premesse migliori
hanno invece gli avanguardisti che, sia pur da posizioni non omogenee (se non
antitetiche), portano avanti un radicale discorso di rinnovamento della letteratura,
specialmente della lingua e del romanzo tradizionale. Vi è in loro anche una forte
avversione per le istituzioni capitalistico-borghesi e l’establishment culturale allora
dominante rappresentato da Moravia, Bassani, Cassola e lo stesso Calvino. La nuova
avanguardia formalizza la lotta costituendo il Gruppo 63, il cui manifesto teorico è
Opera aperta
7
di Umberto Eco.
Il capitolo si chiude con un profilo di Italo Calvino: dai cenni biografici e
bibliografici, all’intensa attività intellettuale che lo vede partecipe dei fermenti socio-
culturali dell’epoca, ai rapporti avviati in Italia con gli altri protagonisti del panorama
culturale, e all’estero (soprattutto con gli strutturalisti in Francia). Ampio spazio è
dedicato anche alla sua produzione narrativa e in particolare a quella riconducibile
alla «letteratura della coscienza» e della «sfida al labirinto»: Il cavaliere inesistente,
Ti con zero, Il castello dei destini incrociati, Le città invisibili.
Il secondo capitolo è dedicato al dibattito ‘teorico-pratico’ su letteratura e
industria, ospitato sulle pagine del quarto e in parte del quinto numero de «Il
Menabò».
6
Ivi, p. 16.
7
U. Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962 (ora in Milano, Bompiani, 2000).
8
Dopo una breve ricognizione sui testi letterari contenuti nei due fascicoli suddetti
e sulle opere pubblicate in quegli anni
8
, si passa all’analisi dei testi critici ritenuti più
rilevanti rispetto ai fini del presente studio, a cominciare dalla premessa di Vittorini
al quarto numero de «Il Menabò»
9
. Egli avvia la discussione lamentando nelle opere
sul tema industriale contenute nella rivista una certa «arretratezza», dato che in esse
prevale l’aspetto contenutistico piuttosto che il tentativo di elaborazione di un
linguaggio innovativo. La posizione di Vittorini è ripresa e approfondita da Gianni
Scalia, secondo cui l’industria «non è più soltanto un aspetto della realtà economica,
ma la totalità determinata della realtà attuale»
10
; la letteratura deve quindi imparare a
far fronte all’alienazione che l’industria produce
11
. Il capitolo si chiude con
l’intervento vivamente polemico di Fortini, Astuti come colombe
12
, pubblicato nel
numero 5 de «Il Menabò». Egli, partendo dalla sua posizione marxista e lukácsiana,
critica le proposte di Vittorini e Scalia, definendole «ideologiche» e «pseudo-
progressiste», e afferma che l’industria non è un «tema», bensì la «manifestazione
del tema che si chiama capitalismo»
13
. Rifiutando ogni rischio di compromissione
col potere, a una letteratura ‘contaminata’ preferisce al limite il «nulla», oppure «il
puro giuoco, lo sberleffo, l’arcadia»
14
. Per Fortini uno dei più alti compiti della
poesia è portare la «spada nel mondo»
15
, essendo importante non solo tentare, –
come fa Calvino – di individuare le possibili vie d’uscita dalla complessità labirintica
della realtà, ma trovare effettivamente le soluzioni attraverso l’impegno e la lotta, in
letteratura come nella vita reale
16
.
8
A tal fine si è fatto ampio riferimento all’intervento di Marco Forti: Temi industriali della narrativa
italiana ( in «Il Menabò», 4, 1961, pp. 213-239).
9
E. Vittorini, Letteratura e industria, pp. 13-20.
10
G. Scalia, Dalla natura all’industria, p. 100.
11
Cfr. C. Verbaro, Il dibattito delle poetiche, in G. Luti, C. Verbaro, Dal Neorealismo alla
Neoavanguardia (1945-1969), Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1995, p. 78.
12
F. Fortini, Astuti come colombe, in «Il Menabò», 5, 1962, pp. 29-45.
13
Cfr. D. Fiaccarini Marchi, «Il Menabò» (1959-1967), cit., p. 115.
14
F. Fortini, Astuti come colombe, cit., p. 43.
15
Ivi, p. 42.
16
Riguardo all’impegno politico dell’intellettuale – come giustamente osserva Rappazzo – per Fortini
«non è accettabile, è anzi segno d’immaturità, l’atto dell’intellettuale che neghi se stesso in quanto tale
e si trasformi tout court in attivista politico». Allo stesso tempo è necessario però «che il ruolo
sacerdotale dell’intellettuale vada “distrutto o negato”, che la riduzione progressiva dell’attività
intellettuale alla mera, strumentale tecnicità […] vada in fondo messa in luce» (cfr. F. Rappazzo,
Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 33).
Quella degli intellettuali è dunque «una funzione insopprimibile» che essi debbono saper orientare alla
lotta politica, utilizzando «l’intera gamma degli strumenti di comunicazione, dal ciclostile al più
potente dei media» (cfr. ivi, p. 34, nota n. 42).