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Introduzione
La storia della Repubblica italiana è fortemente segnata dalle vicende degli “anni di
piombo”, un periodo assai controverso che tutt’oggi presenta ancora numerose incognite e
domande senza risposta. La centralità e l’importanza di questo periodo storico è testimoniata
dalla progressiva crescita degli studi inerenti al tema del terrorismo italiano.
Quando si rievoca la memoria degli “anni di piombo”, la prima naturale associazione di
idee porta a pensare ad una organizzazione sopra tutte: le Brigate Rosse. D’altronde le BR
furono il più numeroso e longevo gruppo terroristico di tutta l’Europa del dopoguerra; la
diffusione capillare dell’organizzazione eversiva e le azioni che i militanti furono capaci di
realizzare monopolizzarono l’attenzione dei media nazionali e contribuirono a fomentare un
sentimento di preoccupazione nell’opinione pubblica nell’arco di oltre 15 anni.
Tutt’oggi, una versione largamente diffusa considera la sconfitta e il definitivo
annientamento delle Brigate Rosse come il risultato di un fenomeno puramente endogeno. In
particolare, la definitiva scomparsa delle BR viene spesso interpretata come il risultato di
processo che fece emergere una serie di contraddizioni intrinseche all’organizzazione. Queste
contraddizioni corrosero irrimediabilmente la struttura delle BR causandone un indebolimento
che si rivelò fatale. Questa visione è vera solo in parte e spesso ignora il decisivo contributo
che le forze dell’ordine diedero allo smantellamento dell’organizzazione in più di un decennio
di lotta. Inizialmente impreparate, le forze di repressione dello Stato italiano riuscirono, nel
corso degli anni, ad affinare tecniche e metodologie investigative che permisero di comprendere
la vera natura delle BR e dei suoi militanti. In seguito, si comprese la necessità di affiancare a
queste innovative strategie investigative reparti altamente addestrati: nacquero così speciali
gruppi composti da militari d’élite in grado di fornire un supporto puramente operativo di
contrasto al terrorismo brigatista.
In sostanza, il presente elaborato intende evidenziare le modalità con le quali lo Stato
rispose al dirompente fenomeno delle Brigate Rosse, concentrandosi sul ruolo del reparto del
NOCS nel sequestro Dozier. Il primo capitolo presenterà le contraddizioni che si produssero in
seno all’organizzazione terrorista al termine del delitto Moro. Verranno analizzate le cause
interne che a partire dal 1979 minarono l’unità e la struttura delle Brigate Rosse,
determinandone la scissione in molteplici fazioni. Inoltre, si evidenzierà il contributo del
Nucleo Antiterrorismo capitanato dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nella lotta alle
6
Brigate Rosse durante il biennio 1974-1975 e successivamente negli anni dal 1979 al 1981. I
successi del nucleo di Dalla Chiesa influirono sul fenomeno del pentitismo, accelerando il
fenomeno e intaccando in maniera significativa le convinzioni dei latitanti brigatisti.
Il secondo capitolo si concentrerà sulle origini del NOCS (o Nucleo Speciale Operativo
di Sicurezza), il reparto speciale della Polizia di Stato. Tale focus sul gruppo vorrebbe originare
dalla centralità che il NOCS ebbe durante una delle vicende più complicate degli “anni di
piombo”; il sequestro del generale americano James Lee Dozier. Verranno quindi presentate le
motivazioni che spinsero le BR alla realizzazione di un’azione di tale portata e la narrazione
della dinamica del rapimento. Il terzo paragrafo del secondo capitolo ripercorrerà le varie fasi
dell’operazione “Winter Harvest”, il blitz realizzato dal NOCS e finalizzato alla liberazione del
generale USA. Infine, tratterà la modalità con la quale la stampa nazionale ed internazionale
trattò il successo conseguito nella liberazione del militare statunitense. Ci si occuperà anche,
nel terzo ed ultimo capitolo, di evidenziare la centralità del NOCS nella definitiva sconfitta del
terrorismo brigatista: infatti le conseguenze del blitz realizzato nell’ambito del sequestro Dozier
e delle operazioni di contrasto alla fazione delle BR di Giovanni Senzani misero in moto una
serie di eventi, a partire dal gennaio 1982, che culminarono nell’annientamento pressoché
definitivo delle principali fazioni delle Brigate Rosse. L’ultimo paragrafo del terzo capitolo
cercherà di mettere in luce i molti lati oscuri che caratterizzarono le indagini del sequestro,
focalizzandosi in particolare sulla delicata questione delle pratiche di tortura impiegate in
maniera sistematica dalle forze di polizia italiane nei confronti dei brigatisti al fine di acquisire
informazioni che si rivelarono di primaria importanza nella lotta alle Brigate Rosse.
8
Capitolo 1. La crisi delle Brigate Rosse (1979-1981)
1.1 Il sequestro Moro: l’apice della strategia brigatista.
Nel gergo appartenente alle Brigate Rosse, il cosiddetto “attacco al cuore dello Stato”
rappresentò la fase più eclatante del progetto rivoluzionario dell’organizzazione terrorista, la
massima aggressione verso gli apparati statali che costituivano la manifestazione più concreta
del tanto odiato sistema capitalista. Questa strategia raggiunse il massimo grado di espressione
con il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. I 55 giorni che iniziarono con
l’agguato in Via Fani e si conclusero con il ritrovamento del cadavere del presidente della
Democrazia Cristiana in Via Caetani costituirono il punto di massima altezza raggiunto dalla
parabola del terrorismo rosso in Italia. Si trattò della concretizzazione più tragica degli obiettivi
che i segmenti originali delle BR si erano prefissati: “alzare il tiro”, colpire lo Stato al fine di
lacerarne le istituzioni e disarticolarne i poteri
1
.
Le Brigate Rosse furono il risultato dell’amalgamarsi di esperienze e ideologie tutt’altro
che omogenee. Lo stesso embrione delle BR, il Collettivo Politico Metropolitano o CPM nato
nel 1969, riuniva personalità provenienti da mondi distanti: universitari e reduci del movimento
del ’68, parenti o figli di partigiani e un folto gruppo di operai e tecnici delle fabbriche
milanesi
2
. Il CPM si trovò di fronte ad una società in fermento; da un lato le proteste del ’68
stavano defluendo verso il mondo della fabbrica incalzando e aumentando le frizioni del
movimento operaio, dall’altro lato Piazza Fontana. La portata dei fatti del 12 dicembre 1969 fu
subito chiara al CPM, come sottolineò il brigatista Alberto Franceschini:
“[...] questo tragico evento fu fondamentale per determinare il clima di tensione.
Tutti noi eravamo convinti che l’attentato non venisse dagli anarchici, da Valpreda, ma fosse
un’operazione dello Stato, da quella parte reazionaria, conservatrice e, come tale, ci dava la misura della
profondità dello scontro sociale a cui noi saremo andati incontro, la spinta vera che ci ha fatto capire che
la rivoluzione non poteva essere un pranzo di gala”
3
.
1
M. Moretti, C. Mosca, R. Rossanda (a cura di), Brigate Rosse. Una storia italiana, Milano, Mondadori, 2019, in
particolare p. 94.
2
G. Pintore, Dossier Brigate Rosse 1969-2007. La lotta armata e le verità nascoste, Trento, Simple, 2017, in
particolare p. 15.
3
Ibidem.
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Vi fu la ferma certezza che l’appena inaugurata “Strategia della tensione” fosse un
progetto finalizzato alla messa all’angolo dei nascenti movimenti operai e dei gruppi della
sinistra extraparlamentare, e ciò contribuì ad aumentare il grado di tensione sociale ed a
instaurare un clima di torbida inquietudine.
Per quanto riguarda l’antagonismo operaio, esso fece manifesto il proprio desiderio di
rivendicazioni durante il cosiddetto “Autunno Caldo” nel 1969: i principali nuclei industriali
dell’hinterland milanese e torinese e quindi le principali industrie come la Pirelli, FIAT e la Sit-
Siemens conobbero episodi di insubordinazione quotidiana, frequenti e radicali forme di
associazione operaia e di critica all’organizzazione del lavoro. Gli operai furono veri e propri
soggetti politici che all’interno della galassia operaia espressero le proprie idee sulle strutture
industriali e di lavoro e sulla politica; arrivando a praticare un’altra forma di democrazia
4
. Le
miriadi di avanguardie operaie riuscirono a porsi come protagoniste dei moti, qualificandosi
come le vere strutture mediatrici dell’antagonismo operaio, nel pieno e categorico rifiuto del
ruolo dei sindacati e del PCI.
Durante gli incontri all’hotel Stella Maris e a Pecorile
5
, si fece largo fra gli “aspiranti
brigatisti” la convinzione di trovarsi di fronte ad una divaricazione decisiva, davanti al preludio
di una rivoluzione scaturita da un conflitto sociale che non riscontrava mediazione nelle
istituzioni: secondo la logica dei futuri terroristi questa loro analisi sociale doveva tradursi nella
creazione di un gruppo al servizio del proletario armato. Le Brigate Rosse si accorsero fin da
subito che nonostante i toni energici e innovativi dell’antagonismo operaio, questo avrebbe
finito per cedere sul terreno dello scontro tradizionale con le forze capitaliste di fabbrica. La
soluzione era la lotta armata nella sua essenza più profonda ovvero la dimostrazione visibile
della forza del movimento operaio attraverso la violenza.
Le BR originarono, quindi, dalla convinzione che solo attraverso l’uso delle armi
l’antagonismo operaio potesse reggere. A questo fine le Brigate Rosse fecero uso della
cosiddetta “propaganda armata”: rivendicare azioni di sabotaggio e dimostrazioni di forza
contro i dirigenti di fabbrica. Questa fu la strategia dominante del gruppo nel periodo dal 1970
al 1974. La “campagna delle fabbriche” ebbe inizio con timide rappresaglie verso le proprietà
dei dirigenti di fabbrica per farsi, nel corso di poco più di tre anni, sempre più irruente. Le prime
4
M. Moretti, C. Mosca, R. Rossanda (a cura di), Brigate Rosse, cit., p. 36
5
Si fa riferimento agli incontri che diedero, per così dire, una prima forma e struttura alle Brigate Rosse. La
riunione all’hotel situato a Chiavari in data novembre 1969 costituisce il primo vertice della nascente
organizzazione mentre presso la località di Pecorile in provincia di Reggio Emilia, nell’agosto 1970, un centinaio
tra studenti e operai optano per il passaggio alla lotta armata. Cfr. S. Zavoli, La notte della Repubblica, Roma,
Nuova Eri, 1992, in particolare pp. 72-73.
10
iniziative non ebbero nulla da invidiare alle azioni più spinte dei movimenti dell’antagonismo
operaio, ma possedevano una singola e fondamentale differenza: la rivendicazione, la quale
mutava il significato dell’azione trasformandola in un’offensiva dichiarata verso i nemici del
proletariato. Il 25 gennaio 1971 le BR misero 8 bombe incendiarie sotto una fila di autocarri
parcheggiati nello stabilimento di Lainate della Pirelli; la vicenda rappresentò il culmine dei
sabotaggi a fine dimostrativo ai quali seguirono i sequestri di persona
6
. I rapimenti lampo della
durata di qualche ora o di pochi giorni si indirizzavano verso dirigenti aziendali, capi del
personale e sindacalisti, i quali subivano i “processi proletari nel carcere del popolo”,
terminologia brigatista che indicava i processi ai quali erano sottoposte le vittime, spesso con il
solo scopo di estorcere con lo strumento della minaccia una qualche sorta di pentimento in
merito alla gestione della fabbrica o alle proprie idee.
La “propaganda armata” delle BR, per quanto riuscisse nel suo intento di promuovere
le proprie idee radicali al movimento operaio, era una strategia fine a sé stessa; difatti le
modalità di raggiungimento del fine erano, nonostante la fermezza degli atti, ancora quasi del
tutto sconosciute e incerte per gli stessi militanti. Racconta Mario Moretti, storico dirigente
brigatista:
“Il nostro è un obiettivo a tempi lunghi, il soggetto si andrà formando nel corso di un conflitto
sociale che si dimostra sempre più radicale, irrisolvibile, e l’espressione di questa radicalità è la lotta
armata [...] è come se vedessimo soltanto quello che volevamo e potevamo fare subito e un obiettivo
raggiungibile in tempi lontanissimi. In mezzo quasi niente, una voragine”
7
.
Al motto “colpirne uno per educarne cento”, il gruppo eversivo portò il suo attacco
direttamente sul terreno dello Stato il 18 aprile 1974 con il rapimento del magistrato Mario
Sossi; l’atto fu interpretato come un definitivo cambio di rotta e costituì un punto di non
ritorno
8
. Fu l’inizio di una strategia che alzò il livello della lotta in modo esponenziale,
attraverso sequestri e omicidi mirati di magistrati, politici, sindacalisti e agenti delle forze
repressive dello Stato, che raggiunse il culmine nel 1978.
La direzione delle BR si convinse di non poter attaccare efficacemente il sistema
capitalista soltanto dalla fabbrica; la lotta doveva elevarsi al piano politico. I dirigenti brigatisti
6
G. Pintore, Dossier Brigate Rosse 1969-2007, cit., p. 18.
7
M. Moretti, C. Mosca, R. Rossanda (a cura di), Brigate Rosse. Una storia italiana, cit., p. 53.
8
F. Paterniti, Tutti gli uomini del Generale. La storia inedita della lotta al terrorismo, Milano, Melampo Editore,
2016, (Edizione digitale Amazon Kindle), in particolare p. 442.
11
si persuasero in merito all’esistenza di un intrinseco rapporto tra industria e Stato; risultava
quindi impossibile pretendere di scardinare l’uno senza attaccare l’altro. L’orizzonte della lotta
brigatista si spostò, dunque, dalla singola fabbrica al SIM
9
. Le Brigate Rosse si persuasero che
l’agguato in Via Fani avrebbe rappresentato la più alta provocazione al “partito regime” e allo
“Stato capitalista e servo delle multinazionali”: il risultato fu il tragico assassinio del simbolo
della Democrazia Cristiana e fautore del compromesso tra comunisti e democristiani.
Gli anni del dopo Moro rappresentarono il punto di massima potenza di fuoco raggiunto
dalle BR, ma furono il preludio della crisi definitiva: ne venne un’incapacità di toccare punti
più alti di quelli raggiunti con Moro. Non solo questo: agli occhi dei dirigenti delle BR si
restrinse la prospettiva di una possibile vittoria del proletariato a causa del riflusso del
movimento operaio e della marginalizzazione del suo ruolo sociale. Significò, per le BR,
perdere la convinzione di poter essere il moltiplicatore delle istanze del movimento operaio e
ciò si tradusse in una tragica e insensata campagna di omicidi e attacchi senza prospettiva.
In sostanza, il macabro ritrovamento del corpo dello statista democristiano in quella
Renault 4 rossa diede avvio alla crisi del più numeroso, longevo e sanguinario gruppo
terroristico dell’Europa del dopoguerra
10
; le BR furono consumate da una crisi interna frutto di
innumerevoli contraddizioni, dell’assenza di un realistico progetto politico e da una crisi esterna
provocata dalle forze armate dello Stato. È necessario quindi indagare specificamente i fattori
sia esterni sia interni che condussero, nei primi anni ’80, al tracollo delle BR, minate da
pentitismo, divisioni e arresti.
1.2 La crisi delle BR: disillusioni e divisioni interne
Le Brigate Rosse degli anni dal 1978 al 1979 diedero dunque l’impressione di essere al
massimo dell’operatività: tutto il paese assistette drammaticamente ad una rappresaglia quasi
implacabile che ebbe un altissimo costo umano.
Le BR suscitarono ammirazione sia tra le frange italiane della sinistra extraparlamentare
armata sia tra molti dei gruppi terroristici europei; fra i quali IRA, l’ETA e la RAF
11
. Il
9
Stato Imperialista delle Multinazionali, tipica preposizione del gergo brigatista coniata da Alberto Franceschini,
membro delle BR della prima ora. Cfr. S. Zavoli, La notte della Repubblica, cit., p. 108.
10
N. Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai «metodi speciali»: come lo Stato uccise le BR. La storia mai raccontata,
Milano, Sperling & Kupfer, 2011, (Edizione digitale Amazon Kindle) in particolare posizione 33.
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Nonostante i fini differenti in quanto organizzazioni terroristiche indipendentiste, l’Irish Republican Army e
l’Euskadi Ta Askatasuna ebbero frequenti contatti con le Brigate Rosse per quanto riguarda la fornitura e il traffico
di armi. La Rote Armee Fraktion operante dal 1970 al 1998 nella Repubblica Federale Tedesca , invece, era vista
come la controparte tedesca delle BR data la vicinanza nelle ideologie e nei fini. Cfr.