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INTRODUZIONE
Disciplinata dagli artt. 314 e 315 c.p.p., la riparazione per
l’ingiusta detenzione trova il proprio fondamento costituzionale
nei princìpi di inviolabilità della libertà personale e di non
colpevolezza dell’imputato sino alla condanna definitiva, di cui
rispettivamente agli artt. 13 e 27 Cost., nonché nel comma 4
dell’art. 24 Cost., ai sensi del quale «la legge determina le
condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». In
ossequio ai suddetti princìpi, l’ordinamento prevede uno
specifico rimedio all’ingiusta detenzione sofferta a titolo di
custodia cautelare, volto a compensare, in chiave solidaristica,
gli effetti pregiudizievoli patiti dal soggetto che sia stato vittima
di un’indebita restrizione della propria libertà personale.
La detenzione è ingiusta ogniqualvolta, in un momento
successivo alla sua esecuzione, essa risulti contra ius: ne deriva
che il rimedio in questione predisposto dall’ordinamento si
concretizza in uno strumento indennitario da atto lecito,
finalizzato a compensare le ricadute sfavorevoli, di natura sia
patrimoniale che non patrimoniale, generate dalla privazione
della libertà personale. La «vittima» del processo vanta, quindi,
un vero e proprio diritto soggettivo nei confronti dello Stato,
ponendosi rispetto ad esso in qualità di creditore di una
prestazione di natura economica che sia idonea, se non a
cancellare, quantomeno ad alleviare le sofferenze che questi
abbia patito. Il legislatore ha previsto, all’art. 314 c.p.p., due
diverse fattispecie generatrici del diritto alla riparazione: la
prima, detta ingiustizia «sostanziale», si configura ogniqualvolta
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il provvedimento restrittivo della libertà, legittimamente
disposto, si sia rivelato, sulla base di una valutazione ex post, non
dovuto in virtù di un accertamento, attestato in una sentenza di
assoluzione conclusiva dell’iter processuale, dell’estraneità
dell’imputato in ordine ai fatti contestatigli; si ha invece ipotesi
di ingiustizia «formale» nel momento in cui, con decisione
irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento de libertate
sia stato adottato ovvero mantenuto in violazione delle
condizioni di applicabilità delle misure cautelari, previste agli
artt. 273 e 280 del codice di rito. La disciplina dell’istituto
riparatorio rappresenta, quindi, un sistema di chiusura collocato
all’interno delle dinamiche inerenti ai rapporti tra i diritti del
cittadino ed i poteri coercitivi dello Stato, volto a porre rimedio
all’inesatta amministrazione della giustizia a fronte di
un’indebita compressione di un diritto costituzionalmente
garantito quale la libertà personale e che - rappresentando un
rimedio configurabile quale conseguenza legale dell’ingiusta
detenzione - prescinde del tutto da qualsivoglia valutazione circa
l’illiceità civile o penale del comportamento dell’organo della
magistratura, quindi dall’accertamento del dolo o della colpa del
magistrato nell’esercizio della sua attività funzionale.
Trattasi di un istituto che ha faticato a riscontrare una traduzione
normativa, trovando un limite in quell’ideologia, per lungo
tempo dominante, orientata ad ancorare la riparazione - intesa
come mero intervento a titolo assistenziale, quindi subordinata
all’ulteriore presupposto dello stato di bisogno dell’imputato - ai
soli casi di errore giudiziario stricto sensu, ovverosia a quelle
ipotesi in cui il giudicato si fosse rivelato erroneo a seguito di una
revisione della sentenza di condanna, in considerazione della
natura provvisoria e del minor danno inflitto dalla misura
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cautelare rispetto a quello derivante da una pena detentiva,
nonché della naturale incertezza delle indagini. Un simile
sistema, all’interno del quale la misura cautelare, concepita
come una sorta di anticipazione della pena, rappresentava quasi
un prius logico dell’attività investigativa, non ha retto l’impatto
dell’entrata in vigore della Carta costituzionale e del progressivo
abbandono di quelle antiche strutture repressive che
incarnavano appieno la sostanziale equiparazione tra imputato
e colpevole. Ma la sola affermazione dei princìpi costituzionali
non si è rivelata sufficiente a garantire il diritto ad un’equa
riparazione a beneficio della vittima di un’ingiusta custodia
cautelare, trovando spesso ostilità nello stesso legislatore, il
quale, mosso da ragioni tanto finanziarie quanto di
contenimento dell’istituto, ha in più occasioni manifestato un
approccio restrittivo rispetto alla questione. Né tantomeno le
norme di fonte sovranazionale - nello specifico, la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo ed il Patto internazionale sui diritti
civili e politici -, rese esecutive nel nostro ordinamento, sono
state in grado di sopperire da sole alla mancanza di una
regolamentazione interna. In questo contesto, è stata
principalmente la giurisprudenza a farsi carico del compito di
colmare un simile vuoto normativo, riempiendo di contenuto le
poche ed equivoche battute riservate alla materia in questione
da parte del legislatore e modellandole sui princìpi dettati dalla
Costituzione e sul concetto di solidarietà dello Stato nei
confronti di colui che abbia subito un’ingiusta limitazione della
libertà personale. Del resto, la necessità di adeguare la disciplina
della riparazione per ingiusta detenzione ai valori costituzionali
ed al diritto convenzionale è stata solo parzialmente soddisfatta
dall’entrata in vigore del codice Vassalli, con il quale l’istituto ha,
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per la prima volta, trovato la propria consacrazione in qualità di
diritto soggettivo autonomamente disciplinato. Una vera e
propria «controspinta espansiva», quella attuata in
giurisprudenza, che si è opposta ai tentativi del legislatore di
ridimensionare l’istituto della riparazione per ingiusta
detenzione attraverso la previsione di ipotesi e condizioni
tassative alquanto limitative del diritto riparatorio. La Corte
costituzionale ha infatti ampliato il concetto di ingiusta
detenzione, estendendola alle misure precautelari, nello
specifico all’arresto in flagranza ed al fermo di indiziato di delitto.
Successivamente la Consulta si è spinta oltre, scardinando
definitivamente, con la sentenza 219/2008, il parametro
dell’innocenza, eletto fino a quel momento quale criterio giuda
per la disciplina della riparazione: infatti il legislatore, tramite il
ricorso alla tassatività, subordinava il diritto alla riparazione per
ingiustizia sostanziale ai soli casi di proscioglimento nel merito
dalle imputazioni, diritto che invece era precluso nel caso in cui
la custodia cautelare subita fosse risultata superiore alla misura
della pena inflitta. La pronuncia in questione, eliminando
quell’irragionevole diversità di trattamento tra prosciolto e
condannato, ha quindi ridisegnato la ratio stessa dell’istituto
riparatorio, dal momento che il comune denominatore alla
fattispecie dell’ingiusta detenzione è da ravvisare, a prescindere
dall’esito del processo, nell’oggettiva lesione della libertà
personale. Questa sentenza ha rappresentato il vero punto di
partenza verso successivi interventi nella materia da parte di una
pur non sempre conforme giurisprudenza di legittimità, la quale,
in assenza di una riforma legislativa che tenesse conto degli
insegnamenti della giurisprudenza costituzionale, ha
progressivamente esteso il raggio di operatività della riparazione
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nel rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta
costituzionale e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo:
correttamente individuata la forza di norma interposta di
quest’ultima all’interno del nostro ordinamento attraverso il
richiamo all’art. 117 Cost., evidenti sono risultate le necessità -
ancora attuali - di adeguare il diritto interno alla normativa
convenzionale, soprattutto considerando i vari moniti lanciati da
parte della Corte di Strasburgo al legislatore italiano a seguito
delle varie incongruenze che la rigida disciplina interna presenta,
almeno sotto il punto di vista dell’ingiustizia formale, rispetto ad
una disciplina maggiormente garantista e flessibile - in quanto
relazionata al caso concreto - nella previsione di ulteriori
condizioni di applicabilità e, quindi, di legittimità delle misure
cautelari. Infine, ad un trentennio di distanza dall’entrata in
vigore degli artt. 314 e 315 c.p.p., permangono al giorno d’oggi
incongruenze interpretative riguardo ad elementi salienti
dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione.
In questo contesto si inserisce il seguente elaborato, il quale,
previa un’introduzione storica utile a comprendere l’ideologia
sottesa all’affermazione - e anche alla limitazione - dell’istituto
riparatorio, ha lo scopo principale di evidenziare come, a
distanza di un trentennio dall’entrata in vigore della normativa
codicistica, risultino evidenti sulla materia in questione
disorientamenti giurisprudenziali. Una serie di interpretazioni
restrittive che, complice specialmente il silenzio del legislatore
che offre poche linee-guida, limitano l’estensione dell’ambito
applicativo di un diritto il quale, in armonia con le fonti
sovranazionali e coerentemente con gli insegnamenti
costituzionali, dovrebbe rappresentare una norma di chiusura
che sia piena espressione dei valori costituzionali ed in particolar
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modo del principio di solidarietà, in quanto posto a difesa del
cittadino che si sia imbattuto nell’errata amministrazione della
giustizia e a seguito della quale abbia subito un pregiudizio
derivante dall’indebita compressione di un diritto
costituzionalmente garantito quale la libertà personale, a
prescindere dall’esito del procedimento penale.
A ciò va tuttavia aggiunto che anche la miglior disciplina possibile
sulla riparazione per ingiusta detenzione - la quale si sostanzia in
un mero «rimedio successivo» ad ingiustizia già consumata - non
può comunque risolvere di per sé i problemi relativi alla tutela
della libertà personale: la prevenzione dell’errore non può non
passare per una rivisitazione del concetto di misura cautelare e,
specialmente, per un maggior rispetto del fumus commissi delicti
quale condizione di applicabilità. La frequente prassi di ricorrere
alle misure cautelari per fini punitivi e non processuali e, quindi,
l’assimilazione del concetto di imputato con quello di
condannato, cela un elemento «inquisitorio», mai del tutto
debellato, che non può trovare spazio all’interno di un
ordinamento garantista come il nostro, il quale eleva a pietre
miliari il diritto alla libertà personale ed il principio di non
colpevolezza sino a condanna definitiva.
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CAPITOLO I
Verso la riparazione per l’ingiusta detenzione:
evoluzione storica e coordinate costituzionali
SOMMARIO: 1. La riparazione nel pensiero illuminista e le
prime esperienze giuridiche. 2. L’intervento «caritativo»
dello Stato nel Codice di procedura penale del 1930. 3. Il
comma 4 dell’art. 24 Cost. tra la novella del 1960 e la sentenza
1/1969 della Corte costituzionale. 4. Verso la configurazione
di un «diritto ad ottenere»: dai Progetti preliminari alla
formulazione dell’art. 314 c.p.p.
1. La riparazione nel pensiero illuminista e le prime
esperienze giuridiche.
Il riconoscimento nel nostro ordinamento dell’istituto della
riparazione per ingiusta detenzione rappresenta il punto di
arrivo di un processo storico articolato e complesso. L’idea di
prevedere una forma di ristoro, di natura pecuniaria, nei
confronti della persona che ingiustamente sia stata privata della
propria libertà personale, affonda le radici nell’ambito del
pensiero illuministico, al quale va riconosciuto il merito di aver
gettato le basi per l’edificazione, a partire dal XVIII secolo, del
concetto giuridico di «Stato di diritto»
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, che ben si calò
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Talvolta confuse, le espressioni «Stato liberale» e «Stato di diritto»
esprimono due significati differenti: con la prima si vuol fare riferimento al
concetto liberista di Stato minimo, il cui scopo è principalmente quello di