2
Introduzione
Alla metà degli anni Novanta il Vietnam sembrava attraversare una fase positiva, e
guardava con grande speranza verso un futuro prospero. Dopo decenni di guerra e di
isolamento internazionale, il paese stava ripristinando le relazioni con le nazioni vicine
e con il resto del mondo. L’economia era in pieno fermento, con elevati tassi di crescita
e un forte flusso di investimenti diretti esteri, e il tasso di povertà declinava. Tali
risultati potevano essere considerati il frutto del Doi Moi (Rinnovamento), il processo di
riforma economica adottato nel 1986 con l’obiettivo di ristrutturare lo Stato e il settore
pubblico, incoraggiare lo sviluppo del settore privato, e incentivare l’apertura agli
investimenti esteri e al mercato globale.
Già qualche mese prima della crisi regionale asiatica (1997-1998), però, cominciarono
a concentrarsi nel paese una serie di problematiche, che resero evidenti gli ostacoli
verso il raggiungimento di una crescita economica florida e costante. Gli investimenti
esteri cominciarono a contrarsi e la crescita del Pil iniziò a rallentare. Le istituzioni
finanziarie internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Banca
Asiatica di Sviluppo, ecc.) iniziarono a manifestare dure critiche e a reclamare una
approccio più rapido alle riforme. Il Vietnam riuscì a superare la crisi in un stato di
relativa salute, e il “fallimento” fu evitato grazie ad una limitata esposizione sul
mercato finanziario globale. Diverso l’iter intrapreso per rispondere alla crisi del 2008,
dove il Governo ha dovuto sostituire l’obiettivo della crescita rapida alla
stabilizzazione. La crisi non toccava direttamente il paese, in virtù dello scarso uso di
quegli strumenti finanziari che avevano causato il suo scatenarsi e il suo propagarsi, ma
sul paese incombeva la riduzione della crescita dei suoi principali partner. Sul finire
del 2008 aumentava il deficit commerciale e si riducevano le esportazioni, inoltre erano
palesi segnali di declino, come la perdita di posti di lavoro e un decadimento del settore
degli investimenti esteri diretti.
3
Il processo di riforma delle imprese a completa proprietà statale (SOEs state owned
enterprises), fulcro del mio lavoro, si inserisce in tale contesto, ed è al centro del
dibattito politico-economico vietnamita da oltre venti anni. Le SOEs continuano a
svolgere un ruolo fondamentale in quei settori ritenuti strategici (ad esempio quello
energetico), più marginale in altri (calzaturiero e abbigliamento). Sono presenti in quasi
tutte le attività economiche e il loro contributo in termini di formazione del Pil e di
creazione di posti di lavoro rimane fondamentale. Tuttavia, le recenti normative in
materia di impresa e la recente trasformazione in società per azioni (o equitization) di
alcune grandi SOEs potrebbero segnare una netta inversione di tendenza.
Tale elaborato si propone di fornire un quadro più ampio sul sistema delle SOEs e sui
mutamenti cui esso è andato incontro in tempi recenti, analizzando in modo dettagliato
il Gruppo Vinashin (il colosso di cantieristica navale), un gruppo di Stato che ha
approfittato della facilità di accesso al credito garantita dalle politiche governative per
espandersi in settori non di core-business, e gestito in modo errato sia dal punto di vista
economico che finanziario, creando situazioni prossime al default.
Il presente lavoro è stato suddiviso in quattro capitoli come di seguito esplicati.
Il primo capitolo intende evidenziare da un lato il passaggio dalle politiche Keynesiane
al Neoliberismo, che ha caratterizzato i paesi capitalisti agli inizi degli anni Ottanta,
ponendo l’enfasi sul mercato inteso come quella forma economica capace di
autoregolarsi e di massimizzare il benessere sociale, e dall’altro il ruolo ricoperto dallo
Stato (organizzatore dell’interesse comune, identificato nello sviluppo economico)
nella crescita di alcuni paesi dell’Est asiatico.
Nel secondo capitolo verrà esaminato il Doi Moi, il programma di riforme economiche
che dal 1986 ha spianato la strada al cambiamento nel contesto vietnamita.
Nel terzo capitolo verrà descritta nei dettagli la riforma delle SOEs, e in modo
particolare analizzato il caso Vinashin, mentre nel quarto ed ultimo capitolo volgerò
4
uno sguardo sulle probabili strategie di sviluppo intraprese dal Vietnam, un’economia
in transizione che oscilla tra Develepmental State e Neoliberismo.
5
Capitolo I
Il Vietnam: la metamorfosi ha creato un ibrido.
1.1Dalle politiche Keynesiane alla svolta Neoliberista.
Nel secondo dopoguerra la riorganizzazione delle forme statali e delle relazioni
internazionali fu attivata per evitare il ritorno di quelle condizioni devastanti che
avevano minato il capitalismo durante la grande recessione degli anni Trenta. Per
garantire pace e tranquillità all’interno delle nazioni, era necessario instaurare un
compromesso di classe tra capitale e lavoro. Per quanto concerne il contesto
internazionale fu creato un nuovo ordine mondiale caratterizzato dagli accordi di
Bretton Woods
1
(1944), e per stabilizzare le relazioni internazionali furono ideate nuove
istituzioni come le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario
Internazionale. La maggior parte dei governi che guidavano paesi capitalisti, sia che essi
fossero di stampo socialdemocratico, democratico-liberale, cristiano-democratico, era
accomunata dall’idea che lo Stato dovesse porsi come priorità la piena occupazione,
l’espansione economica e il benessere dei cittadini. Si faceva ampio uso delle politiche
fiscali e monetarie “keynesiane” per raggiungere la piena occupazione, inoltre gli stati
intervenivano nella politica industriale e definivano i livelli di salario sociale attraverso
sistemi di welfare
2
. Questa forma di organizzazione economica-politica viene definita
“embedded liberalism
3
”.
Gli anni Cinquanta e Sessanta, detti “Età dell’Oro”, sono stati anni per alcuni paesi
capitalisti di grande crescita economica, caratterizzata da bassa disoccupazione, bassa
1
Il libero scambio delle merci era incoraggiato nell’ambito di un sistema di tassi e di cambi fissi,
ancorato alla convertibilità in oro del dollaro USA ad un prezzo prestabilito. Cfr. Harvey D., (2007),
Breve storia del neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, p.20.
2
Ibidem, pp.19-20.
3
I processi di mercato e le attività industriali e imprenditoriali erano inseriti in una rete di restrizioni
sociali e politiche e in una serie di regolamentazioni, che alle volte limitavano in altri casi orientavano la
strategia economica industriale. Ibidem, p.20
6
inflazione e aumento del tenore di vita
4
. Ciò dipese, in parte, dalla capacità degli Stati
Uniti di gestire i deficit con il resto del mondo e di ammortizzare il surplus di
produzione. Se questo ha comportato molti aspetti positivi, tra cui l’ampliarsi dei
mercati dell’esportazione, l’obiettivo di esportare “sviluppo” sembrò essere un sogno
irrealizzabile, soprattutto per i paesi del Terzo Mondo
5
.
Il nuovo ambiente risultò particolarmente favorevole non solo alle lotte dei lavoratori
dei paesi ricchi e alla diffusione della rivoluzione comunista nei paesi poveri, ma
contribuì ad innescare una generale rivolta “anti-occidentale”. Le lotte dei lavoratori
spesso hanno ricoperto un ruolo di primaria importanza in questa rivolta, un esempio è
dimostrato dalla richiesta dei lavoratori del Terzo Mondo di ottenere standard di vita e
condizioni lavorative simili a quelle delle metropoli. Risultava tuttavia ovvio, sia ai
poteri coloniali sia all’élite del Terzo Mondo, che l’estensione di tali diritti avrebbe
comportato dei disagi. Per questo il nuovo regime internazionale “labor friendly”,
creatosi dopo la Seconda Guerra Mondiale sotto l’egemonia statunitense, non aveva
l’intento di includere le nazioni in via di costituzione del mondo coloniale o semi
coloniale. Le caratteristiche di base del Welfare State, piena occupazione e alti consumi
di massa, non erano considerate alla portata delle economie di questi paesi
sottosviluppati. Gli Stati Uniti si impegnavano ad esportare in queste nazioni
“l’autodeterminazione nazionale” e lo “sviluppo”. Questo regime internazionale,
“labor friendly” per i paesi ricchi e “development friendly” per i paesi poveri, fu in
grado di scongiurare le crisi che avevano destabilizzato il sistema capitalistico mondiale
fin dalla Grande Guerra. Ma la grande espansione del commercio e della produzione
mondiale degli anni Cinquanta e Sessanta, innescò una generale crisi di sovra-
accumulazione. Una caratteristica di quest’ultima, che la rendeva diversa dalle
precedenti, era che le lotte condotte dalle classi subalterne (tra cui i lavoratori) per
4
Cfr. Glyn A., (2007), Capitalismo scatenato, Milano, Francesco Brioschi editore, p. 26.
5
Cfr. Harvey D., (2007), op.cit., p.21.
7
ottenere maggiori benefici, non risultavano una conseguenza dello scontro, bensì la
forza trainante
6
.
La grande crisi del capitalismo degli anni Settanta
7
fu soprattutto causata dall’incapacità
del capitalismo mondiale di tener fede alla promessa di un New Deal mondiale, ossia
come ha evidenziato Immanuel Wallerstein, di conciliare “le richieste combinate del
Terzo Mondo (che reclamava poco per un numero elevato di persone) e delle classi
lavoratrici occidentali (che reclamavano molto per un numero esiguo di persone)
8
”.
I tentativi degli Stati Uniti di arginare la crisi attraverso politiche monetarie non
restrittive non fecero altro che alimentare l’inflazione e indebolire il dollaro nei mercati
finanziari mondiali. La crisi sarà in parte risolta tra il 1979 e il 1982, mediante una
svolta radicale della politica statunitense, attraverso il disfacimento del regime
internazionale dei trent’anni precedenti (“labor friendly” e “development friendly”), e
l’emergere di un nuovo regime internazionale “capital friendly”, che si ispirava al
liberismo della fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo
9
. Le
nuove politiche governative attuate dagli Stati Uniti (contrazione della disponibilità dei
capitali, aumento dei tassi di interesse, alleggerimento della fiscalità sulla ricchezza,
maggiore libertà d’azione per le imprese capitaliste) e la ricollocazione del capitale, tra
gli anni Ottanta e Novanta, dal commercio e la produzione verso la speculazione
finanziaria, saranno annoverate tra le cause principali del peggioramento delle
condizioni dei lavoratori di tutto il mondo. Da sottolineare in tale ambito il nuovo ruolo
ricoperto dagli Stati Uniti, da più grande fonte mondiale di liquidità e di investimento
all’estero (anni Cinquanta e Sessanta), a maggior paese debitore e il più grande ricettore
di investimenti stranieri
10
(anni Ottanta Novanta).
6
Cfr. Silver B., Arrighi G., (2001), Workers North and South, in “Socialist Register”, p.3.
7
Nel 1973 la crisi petrolifera fu uno shock per il capitalismo e provocò la recessione del 1974-75.
8
Cfr. Silver B., Arrighi G., (2001) op. cit., p.3.
9
Ibidem, pp. 3-4.
10
Ibidem, pp. 6-7.
8
Gli anni Settanta e Ottanta sono stati un periodo di difficile riorganizzazione economica
e di ristrutturazione politica e sociale. Dal punto di vista politico le vittorie elettorali di
Margaret Thatcher (1979) e Ronald Reagan (1980) sono spesso considerate una rottura
con le politiche del periodo post-bellico, poiché esaltavano una nuova dottrina nota
come “neoliberismo”
11
. La Thatcher fu eletta in Gran Bretagna nel 1979 e il suo intento
era di voler riformare l’economia del paese. Per concretizzare i suoi obiettivi era
necessario contrastare il potere dei sindacati, privatizzare le imprese pubbliche, ridurre
gli impegni del Welfare State, incentivare l’iniziativa imprenditoriale, creare un
ambiente economico favorevole per stimolare un grande afflusso di investimenti
stranieri. Si esaltò l’individualismo a scapito delle forme di solidarietà sociale.
Negli Stati Uniti, nell’ottobre del 1979, Paul Volcker presidente della Federal Reserve
Bank attuò durante la presidenza Carter una svolta nella politica monetaria statunitense.
Le politiche fiscali e monetarie keynesiane furono abbandonate a favore di una politica
che tenesse sotto controllo l’inflazione senza considerare le conseguenze
sull’occupazione. I tassi di interesse furono elevati innescando una lunga fase di
recessione che avrebbe distrutto fabbriche e sindacati statunitensi e portato i paesi
debitori sull’orlo dell’insolvenza. Per Volcker questo era l’unico modo per uscire dalla
stagflazione che aveva colpito gli Stati Uniti e il resto del mondo negli anni Settanta.
Ma la svolta neoliberista fu possibile grazie al supporto di politiche governative, volute
dall’amministrazione Reagan, che si basavano sulle deregolamentazioni, tagli fiscali e
tagli ai bilanci, attacchi ai sindacati e alle categorie professionali
12
.
Nel periodo del compromesso fordista-keynesiano (Cinquanta-Sessanta) l’obiettivo
primario della politica economica era la lotta alla disoccupazione, la salvaguardia della
sicurezza sociale e del welfare, una maggiore distribuzione della ricchezza attraverso il
11
Il primo esperimento di uno Stato neoliberista si ebbe in Cile con il Golpe di Pinochet (11 Settembre
1973), contro il governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Cfr. Harvey D., (2007), op.cit.,
p.17.
12
Ibidem, pp. 33-35.
9
fiscalismo. Gli anni Settanta invece hanno rappresentato un periodo di transizione, che
ha comportato agli inizi degli anni Ottanta il diffondersi del neoliberismo. Obiettivo
primario era la lotta all’inflazione da perseguire anche sacrificando i tassi di
occupazione. Criticato il Welfare state, i salari reali e il potere sindacale organizzato, il
neoliberismo esaltava la privatizzazione, la deregolamentazione nei mercati, la
riduzione della spesa pubblica e la liberalizzazione del commercio. La svolta
neoliberista può essere interpretata, secondo Harvey, come la riconquista del potere
economico da parte delle classi dominanti spodestate durante il periodo dell’embedded
liberalism. L’ideologia del neoliberismo ha trovato consenso attraverso il diffondersi
del “mercato” inteso come quella forma di organizzazione economica capace di
autoregolarsi e di massimizzare il benessere sociale. Queste affermazioni se da un lato
favoriscono il benessere complessivo, dall’altro creano grandi diseguaglianze e
sperequazioni per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza, comportando disagi
anche nel campo sociale.
Negli anni Settanta e Ottanta i processi produttivi e il mercato del lavoro furono
attraversati da una certa flessibilità. Si svilupparono nuovi settori di produzione, nuovi
modi di fornire servizi finanziari, nuovi mercati e livelli molto elevati di innovazione
tecnologica, commerciale e organizzativa. Questi cambiamenti determinarono uno
sviluppo diseguale tra i diversi settori e aree geografiche, inoltre alimentarono la
crescita di un nuovo settore, quello dei “servizi”, e la nascita di impianti industriali in
zone fino ad allora sottosviluppate. Il crescere della mobilità e della flessibilità, ha
permesso ai datori di lavoro di potere esercitare maggiori pressioni sulla forza-lavoro,
scoraggiata dalle due crisi deflazionistiche precedenti che avevano portato ad alti livelli
di disoccupazione. La presenza di un mercato instabile, di una grande concorrenza e di
margini di profitto decrescenti, ha spinto i datori di lavoro a sfruttare la disoccupazione
e l’indebolimento del potere sindacale per incentivare regimi e contratti di lavoro più
10
flessibili, con lo scopo di soddisfare bisogni particolari di ciascuna azienda. La
flessibilità dell’occupazione ha causato effetti negativi per quanto riguarda la protezione
assicurativa, la tutela di diritti pensionistici, il livello dei salari e della sicurezza del
posto di lavoro. Le donne e le minoranze hanno avuto accesso a posizioni più
privilegiate, ma le nuove condizioni del mercato del lavoro hanno ulteriormente
evidenziato la fragilità di questi gruppi. La trasformazione del mercato del lavoro è stata
seguita da cambiamenti relativi all’organizzazione industriale e dallo sviluppo di
economie in “nero”, “informali” o “sommerse”, elemento caratteristico dell’economia
capitalista. La nascita di nuove e il riemergere di vecchie forme di organizzazione
industriale sono scaturite dalle necessità più svariate, nate come forme di sopravvivenza
per i disoccupati o per coloro che sono discriminati, o un modo per gli emigrati di
entrare nel sistema capitalistico, oppure forme di evasione fiscale organizzata o la
possibilità di ottenere alti profitti mediante attività illegali. Ciò che risulta evidente in
tutti questi casi è la trasformazione dell’occupazione e della prassi che era alla base del
controllo dei lavoratori
13
.
L’economia “informale” fa riferimento a tutte quelle attività economiche non regolate
che contrastano con il paradigma del posto stabile e sicuro, peculiarità del mondo
occidentale. Il luogo privilegiato di osservazione di questo tipo di economia è l’arena
dei Paesi in via di sviluppo. Il confine tra settore “formale” e “informale” è del tutto
apparente, in quanto il lavoro “informale” penetra progressivamente in tutti settori
divenendo sempre più elemento distintivo della globalizzazione capitalista. Le sue
caratteristiche sono la precarietà, bassi salari, la non regolamentazione, la non
organizzazione, la povertà e la sua esistenza è evidente sia a livello intersettoriale sia
internazionale. L’aumento del lavoro “informale” ha generato preoccupazioni e
discussioni scaturite da due problematiche: il crescente numero di posti di lavoro
13
Cfr. Harvey D., (1993), La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, Parte II, pp. 189-191.