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INTRODUZIONE
Il mio lavoro muove dall’intento di voler riflette rispetto ad un mondo relegato ai
margini della nostra società civilizzata: gli OPG, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
In ogni tempo si possono rintracciare individui che, per il loro modo di comportarsi,
per la loro condotta, il loro modo di esprimersi ed interagire, sono stati considerati
diversi per non dire devianti, anormali o asociali; da sempre temuti, allontanati, spinti
al limite delle condizioni di vita umane. Parallelamente è sorta sin da subito l’esigenza
di un luogo che potesse contenerli, custodirli o meglio segregarli per riuscire a
mantenere e garantire una sorta di “tranquillità” sociale alla comunità. Così inizia la
storia degli ospedali psichiatrici e dei manicomi giudiziari (oggi Ospedali Psichiatrici
Giudiziari) che andremo a trattare in maniera approfondita in questo elaborato, quali
risorse dello Stato per garantire un controllo politico e sociale; ed è proprio dietro a
questa facciata di tipo curativo ed assistenziale che si nasconde una delle più grandi
miserie umane: la segregazione e l’oppressione di quanti vengono privati dei loro
diritti di uomini e di cittadini, costretti a condizioni al limite della sopravvivenza,
perché ritenuti pericolosi o quantomeno inadeguati (per i loro modo di porsi e
comportarsi), bisognosi di una custodia che nella maggior parte dei casi si tramuta in
tacita ed assurda violenza. Si è arrivati negli anni alla scelta di organizzare le strutture
degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari come luoghi predisposti al trattamento di
soggetti definiti “pericolosi” per la patologia psichiatrica che determinava la
categorizzazione del sistema e dei soggetti, strutture nate infatti per rispondere ad un
bisogno di accoglienza e trattamento medico di individui detenuti, con presenza di
malattia mentale.
Una recente commissione di inchiesta parlamentare ha denunciato lo stato di degrado
e abbandono in cui vivevano, fino a qualche anno fa, circa 1400 detenuti rinchiusi in
sei di questi ecomostri sparsi sulla nostra penisola. Gli OPG hanno mantenuto sempre
un’organizzazione di stampo penitenziario, subendo nel passare degli anni i flussi
culturali e organizzativi derivanti dal volere socio politico. Tuttavia, il processo di
riforma della sanità penitenziaria che andremo a sviscerare nel corso del presente
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lavoro, si sta compiendo ormai da qualche decennio e, ad oggi, dei sei OPG di cui si
disponeva, ne risultano attivi solo due per un totale di poco di meno di quaranta
internati. Si sono infatti disposti nel corso del tempo i reinserimenti dei detenuti nelle
REMS, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture localizzate a
livello regionale che si occupano di ospitare questa tipologia di pazienti, seguita da
un’équipe di professionisti che redige “con e per” loro progetti rieducativi e terapeutici
individualizzati. Il processo di superamento tuttavia, nonostante precisi riferimenti
legislativi, non è ancora completo, e molti sono gli ostacoli che ancora oggi minano il
definitivo smantellamento di queste strutture; inoltre, l’OPG, costituisce un’entità di
piccole dimensioni rispetto al grande sistema penitenziario italiano e, per questo,
spesso si trova a essere relegata in un circuito specialistico e serrato. E il cuore della
questione, nonché il lasciapassare per l’inferno di questi internati, è il giudizio di
pericolosità sociale che il giudice può ricavare dalla perizia psichiatrica disposta o
dalla valutazione dei fatti e delle circostanze inerenti al reato.
Si è deciso pertanto, all’interno del seguente elaborato, di approfondire tali tematiche
cercando di ipotizzare possibili interventi in un’ottica educativa, mossa dal desiderio
di far luce su questi non-luoghi della riabilitazione, strutture impregnate di degrado e
non curanza delle persone, le quali sembrano essere state dimenticate per anni rispetto
ai loro bisogni e considerate solo come delle bombe ad orologeria impossibilitate al
contatto con il tessuto sociale.
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PRIMO CAPITOLO
SULLA NASCITA DEI MANICOMI: EXCURSUS
STORICO
1.1 STORIA DEL CONCETTO DI MALATTIA MENTALE
Agli inizi del XIX sec. la cultura medica e l’agire terapeutico, impregnati di credenze
di tipo magico-religioso, vedevano nella malattia mentale il frutto di colpe o
d’inadeguate passioni, trattabili sì, ma in un contesto specifico, isolato ed escluso dal
contatto con il mondo civilizzato, quale quello della struttura manicomiale. Ogni
società fissava delle proprie regole da rispettare, necessitando però d’individui devianti
da porre ai margini, con lo scopo di rafforzare la propria normalità. I sintomi della
malattia mentale si oppongono sempre, in un modo o nell’altro, alla norma sociale: la
scelta del sintomo viene ad essere negativamente determinata dalle norme sociali
generali.
Quindi anche il modello e l’immagine della follia si trasformano nelle varie
epoche storiche adeguandosi alle regole prescritte nelle diverse civiltà. Ad esempio le
concezioni primitive facevano della follia una categoria del sacro, sia del sacro
religioso che del sacro demoniaco. Nel Nuovo Testamento la pazzia veniva considerata
come un possesso di spiriti malvagi che andavano cacciati dal corpo del malato per
guarirlo; questa concezione caratterizzerà la civiltà europea del periodo medioevale,
epoca in cui la Chiesa e il Papato detenevano grande potere.
Anche all’inizio del Rinascimento prevaleva la spiegazione religiosa della
follia, sentita come possessione demoniaca, segno della maledizione e del peccato, la
cui purificazione richiedeva sempre più spesso il ricorso a pratiche di tortura e al rogo.
In questo periodo storico all’idea di pazzia cominciava ad associarsi quella di
pericolosità. Infatti, il folle veniva visto come elemento della società colpevole di
causare le numerose calamità, come carestie ed epidemie, che colpivano le
popolazioni. Cominciava a prendere piede l’intolleranza verso il soggetto affetto da
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disturbi mentali. A partire dalla fine del millequattrocento, centinaia di migliaia di
streghe e maghi (e tra loro molti malati mentali) venivano bruciati vivi sulle pubbliche
piazze. Si dovrà attendere la fine del Rinascimento e la Riforma affinché una
concezione scientifica potrà sostituirsi ad una concezione teologica del mondo. Da
quel momento in poi i folli non saranno più considerati come dei posseduti dal
demonio ed individui che infrangono le norme religiose, ma come delle persone
pericolose ed improduttive.
Infatti, nei secoli XVII e XVIII gradualmente il destino del pazzo si confonderà
con quello del criminale e del povero; tale figura era vissuta come una minaccia dalla
società, per questo motivo il malato di mente, insieme ai criminali e ai miserabili,
veniva rinchiuso in istituti di segregazione. Anche se venivano chiamati ospedali,
queste strutture non avevano alcuna vocazione medica particolare: erano
essenzialmente luoghi di reclusione, a metà tra l’ospizio ed il carcere, dove si riceveva
assistenza ma anche punizioni corporali e restrizioni, in condizioni igieniche e di vita
molto precarie e degradanti.
In questi grandi istituti d’internamento, che venivano costruiti in tutta Europa,
erano dunque accolti oltre ai folli un’intera serie di individui del tutto diversi tra loro:
mendicanti, poveri, invalidi, libertini, vecchi immiseriti, malati venerei, padri di
famiglia dissipatori, fannulloni incorreggibili, ecc. ... in breve tutti quelli che all’ordine
della ragione, della morale, e della società davano segni di disordine. Ma, come
giustamente osservava Michel Foucault, l’obbligo al lavoro aveva anche un ruolo di
sanzione e di controllo morale. Nel mondo borghese che si stava costituendo, il peccato
per eccellenza era l’ozio, infatti la caratteristica di tutti coloro che risiedevano negli
istituti d’internamento era proprio l’incapacità di prendere parte alla produzione. Pur
non essendo questa l’origine del manicomio, questo disegno ne costituisce tuttavia la
prima immagine drammatica.
Questa idea del folle associato alle caratteristiche di pericolosità per la quiete
pubblica e l’ordine costituito di miserabilità, improduttività é sopravvissuta nei secoli
successivi fino ai giorni nostri sfociando in quella serie di pregiudizi che sono ancora
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ben radicati in noi. L’idea di assimilare la follia ad una malattia della mente é
relativamente recente e sfocerà solo nel XIX secolo nella psichiatria intesa come
scienza e pratica sociale. Infatti con le nuove concezioni diffuse nella seconda metà
del ’700 dall’Illuminismo, e con l’affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino,
propagate dalla Rivoluzione Francese, si chiudevano gli istituti di segregazione e si
diffondeva la spiegazione della follia in termini di malattia. Finalmente nel XIX
secolo, si cominciava a pensare un trattamento per il malato di mente, in termini
esclusivamente medici. È in questo periodo che cominciavano ad essere istituiti i
manicomi, come luogo di cura dei malati.
Intanto nella società si rafforzavano sempre più i vari preconcetti sulla follia,
sicuramente facilitati da questo isolamento del malato all’interno delle mura
manicomiali. Il folle era ormai identificato come un elemento improduttivo e
pericoloso, il cui destino doveva essere necessariamente l’esclusione dalla società;
inoltre l’assenza di ogni pratica riabilitativa alimentava la diffusione dello stereotipo
dell’incurabilità del disturbo psichico. Se l’istituzione manicomiale restava immobile,
viceversa, con l’inizio del secolo, si avviava la più ampia rivoluzione storica nel campo
delle conoscenze psicologiche: grazie al contributo di luminari come Sigmund Freud,
e dall’introduzione dei primi psicofarmaci dalla metà degli anni ’50, veniva di fatto
riveduto il concetto di identità della persona, il rapporto tra individuo e contesto e i
confini tra salute e malattia mentale.
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1.2 CONSIDERAZIONI SULLA FOLLIA NELLA PRIMA
METÀ DELL’OTTOCENTO
Finora si è parlato del manicomio come unica risposta alla follia. Ma che cos’era di
fatto, all’inizio dell’Ottocento, la “follia”? Non si analizzeranno, ovviamente, le
definizioni contenute nei dizionari (in quello della Crusca la pazzia era definita come
“mancanza di discorso e di senno; il contrario della salute), bensì quelle formulate
nell’ambito della professione medica e in modo particolare della sua nascente
sottosezione psichiatrica. Il punto di partenza appare senza dubbio di natura
organicistica: nel 1780 Pietro Cornacchini aveva pubblicato a Siena un lavoro sulla
pazzia nel quale questa era supposta dipendere da un indurimento del cervello.
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Tra gli scrittori di rilievo attorno alla follia ricordiamo Vincenzo Chiarugi. Nel
1793, dopo avere operato per otto anni nell’Ospedale di S. Bonifacio a Firenze, egli
pubblicò il trattato Della pazzia in generale e in specie. La pazzia è per lui infatti
caratterizzata dalle seguenti condizioni:
a) diuturnità del delirio
b) offesa primitiva dell’organo cerebrale
c) assenza di febbre primaria.
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Pertanto la pazzia non è mai un’affezione dell’anima, ma dipende sempre da
un’alterazione materiale del comune sensorio. Nel 1840 il francese F. Leuret, medico
a Bicêtre, pubblicava un voluminoso libro sul tema della pazzia nel quale il trattamento
morale veniva considerato come il solo idoneo a guarire la malattia mentale. Il Leuret,
rifacendosi ai risultati dei lavori anatomici sui crani dei pazienti, nei quali, come si è
visto, spesso non era stata accertata nessuna lesione organica, affermava che la follia
1
De Renzi S., Storia della medicina in Italia, II ed., tip. Filiatre Sebezio, tomo V, Napoli 1848, p. 758 e
segg.
2
Chiarugi V., Della pazzia in genere e in specie, tomo I, Giovacchino Pagani stamp., Firenze 1808
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poteva sussistere indipendentemente dal vizio o dall’affezione cerebrale e che quindi
nessuna delle alterazioni organiche riscontrate poteva considerarsi causa della stessa.
Ne derivava quindi l’inutilità del ricorso ai mezzi farmaceutici di cura e
l’impiego esclusivo del trattamento morale; questo, di natura puramente psichico, non
poteva che agire sugli attributi dello spirito e nell’immaterialità dell’animo, in modo
dinamico e assai diverso dalle altre leggi regolanti l’organismo.
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Le tesi di Lauret
vennero sottoposte a critica in Italia da G. B. Fantonetti e G. Canziani. Il primo, nel
1841, ritornava sul tema già trattato dieci anni prima, ribadendo la necessità di
interventi di entrambi i tipi nel trattamento della follia. Le forze che “sregolano” la
ragione non operano direttamente sulle facoltà intellettuali, sulle idee e sulle passioni,
ma sull’organo che alla “manifestazione esteriore di questa intende” e si dividono in
“fisico-meccaniche, in fisico chimiche, in fisico-dinamiche, in morali, intellettuali e
patologiche.” Per le cause dei primi due, Fantonetti non vede che rimedi provenienti
esclusivamente dall’ambiente medico, che in un certo senso vadano a riportare le fibre
organiche nello stato primitivo. Lo stesso discorso vale per le cause patologiche,
quando la pazzia dipenda dalle condizioni morbose in cui un organo o un sistema del
corpo versano. La cura morale, pertanto, vale “ove cause morali furono quelle che
sviarono le facoltà intellettuali, da che allora le è dato svolgere tutta la benefica
influenza in sui fenomeni che la pazzia costituiscono.”
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Assai più deciso nella sua contrapposizione a Lauret è G. Canziani, per il quale gli
effetti della cura morale, così come da questi formulata, si confondono con quelli
ottenuti con l’impiego dei farmaci propriamente detti. Dalla posizione di Lauret
prendeva le distanze anche Benedetto Monti, ribadendo la natura “fisiologica” della
pazzia. La Malattia mentale per lui nasce dalla “prevalenza, siccome si disse, di certi
atti morbosi fisiologici sopra la forza senziente del principio spirituale.”
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3
Leuret F., Du traitement moral de la folie ecc., Ballière, Paris 1840
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Fantonetti G. B., Del giusto valore della cura morale nella pazzia ecc. in “Rendiconti Istituto
Lombardo”, 1841, vol. I, pag. 25 e sgg.
5
Monti B., Del sistema degli esseri in generale e della natura dell’uomo col prospetto di un corso di
patologia e di terapia delle malattie mentali ecc., Tip. Baluffi, Ancona 1847