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INTRODUZIONE
Il presente lavoro di tesi ha lo scopo di mettere in evidenza l’importanza che i fondi pensione
possono venire ad assumere all’interno del sistema pensionistico italiano, così come in tutti quelli
europei, quale strumento fondamentale per integrare una pensione pubblica ormai pressoché
insufficiente, cercando allo stesso tempo di dimostrare l’importanza che giocano all’interno del
sistema economico nel suo complesso: se da un lato la previdenza privata collettiva consente di
contenere l’onere pensionistico a carico dello Stato, dall’altro, in virtù dei meccanismi con cui si
realizza, ha una valenza più generale per il sistema economico.
L’adesione ai fondi pensione consente ai lavoratori dipendenti e ai liberi professionisti di dotarsi di
un importante strumento per integrare le pensioni corrisposte dal sistema pensionistico obbligatorio.
I fondi pensione, introdotti nel sistema pensionistico italiano nel 1993 (D. Lgs 124) sono ora
disciplinati dal d. lgs 252 del 2005: il legislatore è intervenuto più volte per incentivare lo sviluppo
del secondo pilastro (= i fondi pensione).
Nel primo capitolo abbiamo descritto l’evoluzione della normativa in materia previdenziale e
obbligatoria a partire dal 1992.
Nel 1993 il decreto legislativo 124 ha introdotto la forma regolamentata del sistema di previdenza
complementare per aumentare i livelli di copertura previdenziale e contenere gli squilibri del
sistema previdenziale pubblico.
La legge 335 del 1995 rappresenta la prima importante riforma strutturale del sistema pensionistico
italiano sempre meno sostenibile a causa del mutamento demografico e gli squilibri derivanti dal
metodo retributivo: la riforma ha, infatti, introdotto gradualmente un nuovo sistema di calcolo delle
pensioni basato sui contributi versati durante tutta la vita lavorativa (il metodo contributivo).
Si sono susseguiti diversi interventi del legislatore volti a contenere gli squilibri finanziari del
sistema pensionistico pubblico e a migliorarne la sostenibilità del sistema equiparando anche la
disciplina in materia previdenziale dei lavoratori del settore privato e pubblico.
È nel 2004 che il Governo ha approvato un progetto per far decollare il secondo pilastro, attuato
poi con il decreto legislativo 252 del 2005; questa riforma liberalizzando la scelta del lavoratore,
aumentando la competitività tra le varie forme di previdenza complementare e introducendo il
meccanismo del “silenzio-assenso” sulla devoluzione del TFR dei lavoratori ha creato la premessa
per far sviluppare il secondo pilastro.
Il secondo capitolo si focalizza sugli effetti positivi che l’introduzione dei fondi pensione è in grado
di generare sui mercati finanziari, ed in modo particolare sull’ammontare e sulla qualità del
risparmio, sui mercati azionari ed obbligazionari. Le risorse accumulate dai fondi pensione, infatti,
rivestono un ruolo cruciale nell’assicurare l’efficienza dei mercati finanziari, rafforzare il sistema
produttivo e l’economia reale nel suo complesso.
L’elemento chiave è la particolare natura che contraddistingue il risparmio gestito dai fondi
pensione: si tratta, infatti, di risparmio previdenziale contrattuale, cioè di risorse finanziarie
accantonate ed investite per garantire ai lavoratori un reddito futuro e che quindi si caratterizzano
per la stabilità dei flussi ed il lungo orizzonte temporale d’impiego.
I fondi pensione forniscono anche un importante contributo alla stabilizzazione dei mercati,
contrastando eventuali tendenze speculative: i loro gestori, infatti, confidano in una crescita costante
e graduale degli investimenti posti in essere visto che hanno soltanto da perdere da eventuali fasi di
turbolenza e la presenza sul mercato di numerosi gestori influenza efficacemente le tendenze di
mercato.
L’introduzione dei fondi pensione può contribuire anche alla rivitalizzazione dei mercati e favorire
l’afflusso del risparmio verso strumenti finanziari moderni che contribuiscono al finanziamento
delle attività reali d’investimento, ampliando in questo modo la gamma di prodotti finanziari offerti
sul mercato ed aumentando le opportunità di finanziamento a favore delle imprese.
Si tratta, infatti, di un importante mezzo per raccogliere flussi regolari e costanti di piccolo
risparmio, e convogliarlo verso investimenti di medio-lungo periodo con importanti vantaggi per il
3
mercato dei capitali. Parte delle risorse vengono investite in titoli obbligazionari, in grado di
minimizzare il rischio sopportato assicurando allo stesso tempo rendimenti certi.
Le conseguenze più significative sono quelle che interessano il mercato azionario: l’introduzione
dei fondi pensione, infatti, è un possibile incentivo all’incremento della domanda di azioni e quindi
anche del volume complessivo di scambi realizzati in Borsa, contribuendo in questo modo a
rendere più significativi i prezzi.
Nel terzo capitolo viene descritta la situazione italiana per quanto attiene lo sviluppo del settore
della previdenza complementare, cercando di mettere in evidenza quelli che fino ad oggi sono stati i
principali ostacoli che ne hanno impedito il decollo.
Infine, viene confrontato il rilievo che la previdenza complementare assume nei diversi paesi,
mettendo in evidenza lo sviluppo che ha conosciuto in America e Gran Bretagna che, quindi,
possono essere prese come punto di riferimento per fare previsioni circa i possibili sviluppi futuri
del settore in Italia ed in tutta Europa alla luce delle riforme in atto.
Per poter azzardare delle previsioni riguardo il futuro possibile sviluppo della previdenza integrativa
in Europa è necessario fare riferimento all’esperienza vissuta da quei paesi in cui il settore ha
conosciuto già in passato importanti sviluppi: molti Stati, ed in modo particolare gli Stati Uniti, per
far fronte agli effetti negativi indotti sui sistemi previdenziali dall’evoluzione demografica, hanno
già da tempo introdotto importanti riforme del settore.
Nel sistema angloamericano la previdenza pubblica riveste un ruolo alquanto esiguo mentre
assume notevole importanza quella privata a capitalizzazione, così che la prima componente
anziché la seconda appare come una forma di tipo integrativo: la previdenza pubblica, infatti, copre
un livello minimo di sussistenza contro le prestazioni assai più generose offerte dal sistema
complementare.
Alla luce dell’esperienza vissuta da questi paesi anche in Italia si può prospettare un progressivo
sviluppo della previdenza complementare che in questo modo andrà a coprire il crescente spazio
lasciato vuoto dallo Stato.
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I CAPITOLO: L’universo della previdenza complementare
1.1 La situazione della previdenza complementare prima del 1992
Nell’ambito dei sistemi di “protezione sociale” la previdenza complementare può essere definita
come una forma di accantonamento di risorse finanziarie, volontaria, agevolata fiscalmente dallo
Stato e con lo scopo di disporre, alla fine della vita lavorativa attiva, di maggiori disponibilità tali
da integrare le prestazioni pubbliche e consentire di mantenere, durante la vecchiaia, un accettabile
“tenore di vita”.
Ovviamente il ruolo e l’importanza di queste forme aggiuntive e complementari dei sistemi pubblici
variano a secondo della “generosità di questi ultimi”; nei paesi in cui le prestazioni pensionistiche
sono pari o superiori al 70/80% dell’ultimo reddito, il cosiddetto tasso di sostituzione
1
(è il caso di
Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, Austria, Italia e altri) queste forme divengono inevitabilmente
residuali e per la maggior parte utilizzate dai livelli di reddito medio alti. Viceversa nei paesi dove
la copertura pubblica è modesta (Stati Uniti, Inghilterra e in genere tutti i paesi anglosassoni, ma
anche Giappone, Nuova Zelanda, Cile) queste forme acquisiscono grande importanza e sono molto
sviluppate.
Infine vi sono alcuni paesi che, pur avendo discreti tassi di sostituzione, hanno comunque
sviluppato un buon sistema complementare (è il caso di Olanda, Danimarca, ecc).
Un indicatore dello sviluppo della previdenza complementare è rappresentato dal rapporto tra il
patrimonio gestito dai fondi pensione e il PIL (il prodotto interno lordo); la figura 1.1, che segue, dà
un quadro complessivo dei principali paesi che hanno adottato le forme complementari.
Come si vede il nostro paese, considerato dalle analisi OCSE tra i più generosi nella previdenza
pubblica è agli ultimi posti per sviluppo dei fondi pensione; inoltre gran parte del patrimonio, come
vedremo, è detenuto dai cosiddetti “vecchi fondi” preesistenti alla normativa del 1992.
Per comprendere meglio i motivi di questo ritardo, prima di iniziare l’analisi delle norme che
regolano la previdenza complementare ed il suo funzionamento nel nostro paese, è interessante e
utile fare alcune considerazioni generali sui motivi che hanno convinto i nostri legislatori a
prevedere lo sviluppo di queste forme, sui passaggi storici che ne hanno accompagnato un lungo e
difficile dibattito e lì introduzione nel nostro sistema previdenziale
2
.
Le ragioni e la necessità per le quali si è a lungo discusso della previdenza complementare (
secondo il pilastro del sistema), che fino al 1990 veniva definito “previdenza integrativa” , sono
basate su una serie di riflessioni che riguardano differenti fattori:
- la sostenibilità finanziaria dei sistemi pubblici, prevalentemente gestiti con il criterio della
“ripartizione” che, a causa di una scarsa correlazione tra contributi e prestazioni, rischiano di
generare iniquità intergenerazionali;
- rischio demografico con una evoluzione della struttura per età della popolazione che presenta forti
connotazioni di invecchiamento; ciò implica che per un lungo periodo la spesa per il sostegno della
popolazione anziana, spesso con carriere modeste e con “nastri contributivi” insufficienti,
continuerà ad aumentare creando deficit di bilancio sempre meno sostenibili;
- le modificazioni nella struttura del mercato del lavoro che rendono necessarie forme previdenziali
aggiuntive e complementari del sistema pubblico.
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1
Come vedremo più avanti, il tasso di sostituzione rappresenta il rapporto tra l’ultima retribuzione o
reddito percepito dal lavoratore e la prima rata di pensione.
2
A. Brambilla, Capire i fondi pensione, p.1, Il sole 24 ore, 2007.
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Per questi motivi già da tempo molti esperti avevano cominciato a lanciare allarmi, sia sulla tenuta
del sistema previdenziale di base, sia sulla insostenibilità finanziaria nel medio lungo termine; per
questi studiosi una riforma della previdenza di base era giudicata indifferibile come pure una
riduzione della prestazione fornite dal sistema pubblico e pertanto la previdenza complementare
doveva, appunto, generare una copertura aggiuntiva finalizzata a compensare tali riduzioni
3
.
Come per altri provvedimenti innovativi sul piano finanziario e sociale anche la previdenza
complementare ha avuto un lungo e travagliato percorso parlamentare e legislativo, caratterizzato
da contrapposizioni a volte ideologiche altre volte di difesa di interessi corporativi o di
rappresentanza che sono riusciti a paralizzare la maggior parte delle iniziative e delle proposte
legislative.
I primi riferimenti alla previdenza complementare si fanno generalmente risalire al 1978 con la
presentazione di due disegni legge da parte dell’allora Ministro del Lavoro, Vincenzo Scotti, anche
se i riferimenti alla complementare sono frammentari e solo indicativi di un possibile e necessario
percorso.
La proposta, oltre a prevedere una modifica del sistema pensionistico di base, indicava anche la
necessità di dotare il sistema di un secondo pilastro ma non ebbe grande fortuna anche se si
cominciavano a percepire, in termini di appesantimento finanziario di sistema, gli esiti della
“generosa” quanto imprevidente riforma Brodolini del 1969 fu certamente la più importante del
dopoguerra; il provvedimento svincolava il calcolo della pensione dai contributi effettivamente
versati che fino a quel periodo venivano contabilizzati con il metodo “contributivo” legandoli alla
retribuzione percepita, applicando un coefficiente del 2% con un massimo dell’80% per 40 anni di
attività; veniva introdotto, anche per motivazioni storiche legate agli effetti economici
(iperinflazione ed effetti post bellici sui conti individuali dei lavoratori che ne riducevano
drasticamente le prestazioni pensionistiche) il “metodo retributivo”. Questa riforma lasciò una
pesante eredità al sistema pubblico che si riverberò per molti anni fino alla grande riforma del 1992.
Seguirono poi, nel 1984, due proposte di legge sul riordino del sistema pensionistico e
ristrutturazione dell’Inps che prevedevano anche norme tese a regolamentare la previdenza, ancora
definita integrativa; il ddl n.1461, del 20 marzo 1984, presentata dai deputati Cristofori, Rognoni e
altri e il ddl n. 1778 del 31 maggio 1984, d’iniziativa dei deputati Reggiani, Belluscio e altri. I due
progetti furono successivamente accorpati nel testo unificato presentato dalla commissione
Cristofori il 6 marzo del 1986; entrambi i progetti, oltre ad un aumento a 20 anni per l’ottenimento
della pensione di vecchiaia e ad una diversa modalità (in riduzione) della rivalutazione annua della
pensione, si prefiggevano, attraverso la riduzione del massimale di retribuzione pensionabile, di
ridurre la previdenza pubblica e di favorire lo sviluppo di forme di previdenza privata.
Un primo tentativo organico è specificatamente rivolto alla previdenza complementare è costituito
dal disegno di legge presentato il 23 gennaio del 1986 dai senatori Berlanda, Rubbi e altri, sulla
istituzione e disciplina dei conti di risparmio previdenziali che rappresentò la base per le successive
proposte di legge.
Alla proposta Cristofori era seguita quella del Ministro del lavoro Gianni De Michelis e
successivamente quella del ministro del lavoro Rino Formica, entrambe decisamente mirate al
contenimento della spesa previdenziale pubblica e allo sviluppo del secondo pilastro; tuttavia
trovarono l’avversità dei sindacati che temevano un ridimensionamento della previdenza pubblica e
anche il giudizio negativo di Confindustria che invece le giudicava poco adeguate
4
.
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3
A. Brambilla, Capire i fondi pensione, p.2, Il sole 24 ore, 2007.
4
A. Brambilla, Capire i fondi pensione, pp. 3-4, Il sole 24 ore, 2007.
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Paradossalmente e contrariamente alle proposte sopra illustrate che invece miravano ad un
abbassamento del massimale contributivo da assoggettare a contribuzione previdenziale e
obbligatoria, con la legge finanziaria del 1988 venne abolito il cosiddetto “tetto pensionistico” (cioè
il livello di retribuzione massimo sulla quale si dovevano pagare i contributi e che poi sarebbe
servito per il calcolo della pensione) con soddisfazione dei sindacati che vedevano confermata la
centralità del sistema pubblico.
Andò in porto invece la legge n.88 del 9 marzo 1989 che raggiungeva il duplice obiettivo di
riordinare l’Inps e di iniziare l’ancora non completato processo di separazione tra assistenza e
previdenza.
Praticamente interessante fu il citato progetto Formica che conteneva gran parte delle innovazioni
che furono poi riprese nel decreto legislativo 124/1993; tra queste la completa libertà di adesione
alle forme complementari che possono essere istituite mediante accordi aziendali, sindacali o
autonomamente per iniziativa degli stessi lavoratori.
Anche il successivo governo produsse un progetto di riforma che prevedeva, oltre misure ritenute
inaccettabili dai sindacati, una proposta che rendeva obbligatoria la previdenza complementare,
alimentata con il solo flusso di TFR e che doveva essere gestita dall’Inps; questo progetto restò
bloccato anche a causa dell’improvvisa scomparsa del ministro
5
.
Il suo successore, l’ex sindacalista della Cisl Franco Marini, anche sotto la spinta dell’allora
Ministro del Tesoro Guido Carli, propose una riforma, anch’essa rimasta lettera morta, che tra
l’altro si prefiggeva di portare l’età di pensionamento, entro il 2005. A 65 anni per gli uomini e 60
anni per le donne e a partire dal 2008 un aumento di un anno ogni due per portare anche le donne a
65 anni; la proposta prevedeva una serie di altre modifiche al sistema obbligatorio ma non
accennava esplicitamente alla previdenza complementare.
A giustificare, in parte, i fallimenti di tutte le proposte giova a ricordare la grande instabilità politica
del tempo che in questo breve volgere di anni vide il susseguirsi di ben cinque legislatori e sette
governi.
La proposta più completa che in un certo senso riassumeva tutti gli sforzi precedenti fu presentata il
19 settembre dagli onorevoli Giuliano Amato e Giacomo Rossini, due parlamentari che in quel
periodo si occupavano di una serie di leggi a tutela del mercato quali quelle sull’insider trading e
sulle OPA. La proposta di legge che si componeva di 16 articoli dal titolo “Norme relative alla
previdenza complementare e all’istituzione dei fondi pensione”, nota appunto come proposta
Amato-Rosini, aveva il merito di essere concepita come una normativa organica e sufficientemente
completa ma risentiva tuttavia del clima dell’epoca che identificava la previdenza complementare
con le forme assicurative di tipo collettivo. I fondi pensione erano visti come mera adesione a
polizze collettive o individuali, gestiti dalle compagnie di assicurazione senza alcuna previsione di
autonomia patrimoniale e contabile e con l’obiettivo di erogare una rendita vitalizia con una
residuale possibilità di prestazioni in capitale per un massimo del 25% del montante accumulato. Il
progetto viene assegnato alle competenti commissioni parlamentari che tuttavia non riuscirono ad
iniziarne l’esame ma fu certamente propedeutico all’emanazione del successivo decreto legislativo
124/1993
6
.
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5
A. Brambilla, Capire i fondi pensione, p.4, Il sole 24 ore, 2007.
6
A. Brambilla, Capire i fondi pensione, p.5, Il sole 24 ore, 2007.
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Nonostante le difficoltà nel pervenire ad una specifica legge che regolasse le forme complementari
in Italia, come del resto in altri Paesi industrializzati, prima dell’emanazione del D.Lgs. 124/1993 e
pur in assenza di una normativa organica, attraverso il combinato disposto di diverse norme fiscali,
civilistiche e giuslavoristiche, si erano sviluppate moltissime forme previdenziali di natura
privatistica, tra loro assai diverse che all’epoca erano definite integrative o aggiuntive del sistema
pubblico.
In origine queste forme di previdenza, nate a partire dalla seconda metà dell’ottocento, avevano
connotati di mera integrazione alla previdenza di base ed erano prevalentemente sviluppate nel
settore bancario, assicurativo e in alcune grandi aziende, molte delle quali prevedevano anche forme
di assistenza sanitaria a favore dei loro dipendenti. Nella maggior parte dei casi erano istituite in
modo unilaterale dall’azienda e prevedevano una contribuzione del solo datore di lavoro o anche dei
lavoratori in percentuale delle retribuzioni; sostanzialmente si trattava di forme a prestazioni
definite con l’obiettivo di consentire un tasso di sostituzione che sommato alle prestazioni del
sistema di base, fosse pari al 75% dell’ultima retribuzione
7
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Certamente il più vecchio fondo pensione, risalente al lontano 1842, fu quello istituito dalla
“Commissione centrale di beneficenza” della Cariplo a seguito della Risoluzione n.206 del 4 marzo
1837 che approvava il Regolamento del Fondo per sussidi agli impiegati dell’istituto di risparmio
che cessano del servizio, ed alle loro famiglie.
La maggior parte di queste forme integrative furono attivate in particolare dalle aziende di credito,
quali la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma ma anche da aziende
del settore industriale di cui si evidenziano come esempi il Fondo IBM e il fondo “Fiprem” istituito
per i dipendenti del Gruppo Montedison
8
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Una definizione del numero e delle caratteristiche delle forme di previdenza complementare
operanti nel nostro Paese prima della riforma dl 1992 è assai difficile per la frammentazione delle
stime e delle indagini che erano svolte, ciascuna, verso settori specifici; la prima indagine fu
realizzata nel 1984 dal professor Orrù e riguardava un numero limitato di fondi.
Successivamente furono condotte altre indagini dal Cer e dal Res tra il 1992 e il 1993 che erano
riuscite a censire ben 1078 fondi operativi per il 43% nel settore bancario e per il 57% in quello
industriale.
Rielaborando queste diverse analisi possiamo stimare che nel Paese erano operativi oltre 1000 fondi
pensione aziendali, interaziendali, bancari e assicurativi con un patrimonio stimato al 31/12/96 di
circa 18 miliardi di euro e con flussi annui di contributi valutati per il 1997 in circa 3 miliardi di
euro.
Sempre in base a queste analisi al 31.12.96 risultano iscritti a questi fondi circa 1.600.000 lavoratori
italiani. La maggior parte dei fondi erano a contribuzione definita (88%) ed erano gestiti a
capitalizzazione mentre il restante 12% prevedeva prestazioni predefinite che tuttavia
rappresentavano una quota prevalente in rapporto al patrimonio totale stimato.
La forma giuridica prevalente era quella dell’associazione non riconosciuta, a norma dell’articolo
36 del codice civile con il patrimonio separato da quello della azienda di riferimento mentre i fndi
interni, costituiti come riserva a bilancio, rappresentavano solo l’11% ma detenevano oltre il 40%
del patrimonio complessivo di sistema. Oltre l’80% dei fondi gestiva il patrimonio mediante
contratti di assicurazione
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A. Brambilla, Capire i fondi pensione, p.5, Il sole 24 ore, 2007.
8
A. Brambilla, Capire i fondi pensione, p.6, Il sole 24 ore, 2007.
9
A. Brambilla, Capire i fondi pensione, pp.6-7, Il sole 24 ore, 2007.