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nel Ventesimo secolo, problemi legati al rischio di grandi conflitti
collettivi, quali le guerre fra gli Stati europei e i contrasti di classe
all’interno delle singole società. L’integrazione tra i popoli, lo sviluppo del
diritto e delle regole di convivenza a livello internazionale e l’elaborazione
dell’economia sociale di mercato a livello interno hanno consentito la
soluzione o il superamento di gran parte di questi conflitti, nonostante
permangano ancora, e forse in maniera più acuta, evidenti disuguaglianze.
Inoltre, a livello mondiale vi sono zone di forte instabilità politica e si
assiste all’emergere di conflitti etnici in relazione ai quali occorre
intervenire per impedire il ripetersi di tragedie umanitarie e di atti di
violenza su vasta scala, come quelli perpetrati nell’ex Jugoslavia, nel
Caucaso e nel Kosovo.
I governi nazionali, tuttavia, sembrano essere impotenti di fronte a tali
questioni. Tali problematiche interessano tutti i Paesi europei, i quali sono
consapevoli della loro interdipendenza, della loro comune vulnerabilità e
del dovere di considerare l’impatto che anche le misure adottate a livello
nazionale possono avere sugli altri Stati membri. Essi sono spesso
condannati dall’opinione pubblica per la loro distanza dalla società reale:
sembrano operare le scelte per la realizzazione del bene comune sulla base
di regole oligarchiche ed inefficaci, che favoriscono l’allontanamento dei
cittadini dalle istituzioni e dai centri di decisione della politica.
Questa dichiarata impotenza è dovuta principalmente al fatto che la
maggior parte dei soggetti politici esistenti in Europa sono emersi dalle
fratture che hanno caratterizzato questo secolo, fratture che ora sono state
8
attenuate, riducendo così la loro capacità di affrontare questioni di natura
diversa. Quasi tutte le famiglie politiche contemporanee sono figlie delle
grandi guerre ideologiche del Novecento – laici e cattolici, socialisti e
liberali, democratici e fautori di governi autoritari – e sono pertanto
inadeguate ad affrontare le problematiche del Ventunesimo secolo, in
quanto i loro appelli dottrinali e le loro formule di socializzazione sono in
via di obsolescenza2.
Per tali motivi, le nuove problematiche devono essere affrontate da
soggetti politici diversi, che siano meno influenzati dall’orgoglio di parte e
che cerchino di perseguire l’interesse comune, tentando di trovare una
sintesi delle molteplici posizioni.
È essenziale continuare nell’opera di costruzione dell’Europa come
soggetto giuridico e politico.
L’innegabile successo dell’integrazione europea è dovuto
essenzialmente ad un sistema istituzionale atipico, caratterizzato da
elementi di sovranazionalità, i quali garantiscono all’Unione europea
un’efficacia sconosciuta a qualsiasi organizzazione internazionale di tipo
classico.
Tuttavia, tale struttura istituzionale è stata pensata e definita negli anni
Cinquanta per una Comunità di sei Stati membri. Vari trattati successivi
hanno apportato degli adeguamenti, ma non si è mai proceduto ad una
riforma globale. Tale questione si è posta con urgenza in considerazione
dell’imminente allargamento dell’Unione europea. A questo proposito è
2 V. R. PRODI, op. cit., p. 8.
9
stata convocata una Conferenza intergovernativa, che ha aperto
ufficialmente i suoi lavori il 14 febbraio 2000.
Su questo fondamentale tema si contrappongono essenzialmente due
orientamenti. Stando al primo, si dovrebbe procedere ad un mero
ammodernamento delle istituzioni e delle procedure decisionali in misura
tale da evitare che l’estensione dei confini pregiudichi l’efficacia
dell’azione dell’Unione e turbi significativamente l’equilibrio esistente tra i
Paesi fondatori.
In base al secondo orientamento, invece, si dovrebbe discutere sul
modello ultimo dell’Unione che si vuole costruire insieme ai nuovi Paesi
aderenti. A nostro avviso, è da condividere questa seconda concezione. In
particolare, il modello più adatto ad un’Unione europea composta da una
trentina di membri sembra essere quello federale, in quanto più di ogni
altro potrebbe conciliare le esigenze dell’unità, dell’efficacia,
dell’integrazione economica e sociale, rispettando nel contempo la
pluralità ed il principio di sussidiarietà.
Nella prima parte della tesi, dopo alcune considerazioni introduttive
sulle implicazioni istituzionali dell’allargamento, si è esaminato, il
progetto di Trattato-Costituzione elaborato su iniziativa di Altiero Spinelli
ed approvato il 14 febbraio 1984 dal Parlamento europeo, mettendone in
luce gli aspetti innovativi e le ragioni dell’insuccesso. Esso ha costituito un
organico progetto mirante alla creazione di un’Unione europea con
istituzioni democratiche ed efficaci e può essere, pertanto, considerato un
valido precedente.
10
Segue, poi, l’analisi del Trattato di Amsterdam, segnatamente del
Protocollo annesso sulle riforme istituzionali. Esso non ha apportato
modifiche di rilievo all’assetto istituzionale comunitario, inserendosi nella
cd. strategia dei piccoli passi. La questione delle riforme istituzionali è
rimasta, quindi, in primo piano, anche e soprattutto in considerazione del
prossimo allargamento dell’Unione europea. Pertanto, in proposito, si
sono succeduti vari atti e proposte. Ne abbiamo analizzato i principali e
abbiamo presentato alcune riflessioni ed idee aventi lo scopo di rafforzare
la legittimità dell’Unione e di migliorare l’efficacia della sua azione,
sempre tenendo in considerazione la prospettiva federale. Abbiamo
illustrato, poi, alcune proposte in merito alla riorganizzazione di ciascuna
delle tre istituzioni politiche dell’Unione (Consiglio, Commissione e
Parlamento) e degli organi giurisdizionali dell’Unione, ed altre che
ridisegnano la possibile futura configurazione degli equilibri fra le
istituzioni stesse, sottolineando la rilevanza della flessibilità istituzionale
in un’Unione allargata. Abbiamo sottolineato anche la necessità di
introdurre una gerarchia delle norme comunitarie e di modificare la
procedura di revisione dei trattati. Tale modifica presuppone la preventiva
distinzione delle norme contenute nei trattati stessi, al fine di sottoporle a
diverse procedure di revisione. In un’Unione allargata non è ipotizzabile
che per ogni cambiamento da apportare ad essi sia necessario passare per
le procedure di ratifica di una trentina di sistemi parlamentari, con
prevedibili ritardi ed anzi il rischio di una completa paralisi.
11
Infine, abbiamo delineato l’idea di una Costituzione dell’Unione come
strumento giuridico per consacrare il nuovo assetto istituzionale europeo.
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CAPITOLO 1
ESIGENZA DELLE RIFORME ISTITUZIONALI NELLA
PROSPETTIVA DELL’ALLARGAMENTO E PRECEDENTI
SIGNIFICATIVE INIZIATIVE
SOMMARIO: 1.1 L’esigenza di riforma dell’Unione europea. 1.2 La questione
dell’allargamento. 1.2.1 Le ragioni dell’allargamento. 1.2.2 Le implicazioni istituzionali
dell’allargamento e la conseguente necessità di una riforma. 1.2.3 Una riforma in senso
federale. 1.3 Il progetto di Atto europeo Genscher-Colombo del 1981 e la Dichiarazione
di Stoccarda del 1983. 1.4 La proposta del 1984 del Parlamento europeo per la
predisposizione di un Trattato-Costituzione sull’Unione europea. 1.4.1 Il ruolo del
Parlamento europeo nel processo di integrazione comunitaria. 1.4.2 Le tappe che hanno
portato al progetto di Trattato-Costituzione. 1.4.3 L’iniziativa “costituente” del
Parlamento europeo. 1.4.4. Il contenuto della riforma indicata nel progetto di Trattato-
Costituzione elaborato dalla Commissione istituzionale. 1.4.5 La valutazione del progetto
di Trattato-Costituzione dell’Unione europea. 1.4.6 La procedura di revisione dei trattati
prevista dalle normative comunitarie. 1.4.7 La strategia del Parlamento riguardo
all’entrata in vigore del trattato sull’Unione europea. 1.5 Le differenze tra la
Dichiarazione di Stoccarda e il progetto del Parlamento europeo. 1.6 Le decisioni del
Consiglio Europeo di Fontainebleu del 1984 sul progetto di Trattato-Costituzione del
Parlamento europeo.1.6.1 Il Comitato Dooge. 1.6.2 La missione dell’on. Ferri nelle
capitali comunitarie ed il Consiglio europeo di Milano. 1.7 L’Atto unico europeo del
1986. 1.7.1 La convocazione della Conferenza intergovernativa. 1.7.2 La valutazione
dell’Atto unico. 1.7.3 Le ragioni della mancata riforma.
1.1 L’ESIGENZA DI RIFORMA DELL’UNIONE EUROPEA
Il 9 maggio 2000, l’Europa delle Comunità ha festeggiato i suoi
cinquant’anni. In questo mezzo secolo sono stati compiuti passi da gigante
verso la realizzazione di un’integrazione sempre più stretta tra i Paesi del
vecchio continente: dalla prima Comunità del carbone e dell’acciaio si è
passati ad una vera Comunità politica, quasi-federale, che ha una propria
moneta, un bilancio di oltre 160 mila miliardi di lire destinato alla
realizzazione delle politiche comuni, un proprio sistema giuridico le cui
norme prevalgono su quelle nazionali. L’Unione europea è costituita da
13
un’istituzione che rappresenta le sovranità nazionali (il Consiglio
dell’Unione) che adotta molte deliberazioni con il voto a maggioranza,
un’istituzione che rappresenta, invece, i popoli dell’Unione (il Parlamento
europeo) che viene eletto a suffragio universale diretto e che è titolare del
potere di codecisione legislativa, un’istituzione indipendente dagli Stati
membri (la Commissione europea) che esercita il potere d’iniziativa
legislativa ed esecutiva, un organo giurisdizionale (la Corte di giustizia)
che ha sempre rivestito il ruolo di motore del processo di integrazione
comunitaria, due organi (il Comitato economico e sociale e il Comitato
delle Regioni) che fanno sentire la voce delle autorità locali e regionali.
All’interno dell’Unione, lo sviluppo, ancora incompleto, della
democrazia rappresentativa si esprime non solo nei poteri di controllo,
legislativi e di bilancio del Parlamento europeo, ma anche nella
formazione dei partiti europei e nell’iscrizione della cittadinanza europea
nei trattati.
Tuttavia, i grandi problemi che oggi l’Unione si trova a dover
affrontare, sia al suo interno che nelle sue relazioni con il resto del mondo,
evidenziano pesantemente le rughe delle sue “regole costitutive”, che ne
condizionano notevolmente l’efficacia e, in più, non le garantiscono un
significativo sostegno dell’opinione pubblica, melius, della società civile
europea.
Tutto ciò è confermato da tre avvenimenti verificatisi nel 1999: la crisi
istituzionale fra il Parlamento e la Commissione, sfociata nelle dimissioni
di Jacques Santer e dei suoi commissari e nella nomina di Romano Prodi e
14
di una nuova Commissione; la guerra nel Kosovo3, che ha mostrato
drammaticamente l’inconsistenza dell’Unione europea in politica estera; il
tasso di astensione alle ultime elezioni europee, segno di una crescente
disaffezione dei cittadini verso l’attuale funzionamento dell’Unione.
1.2 LA QUESTIONE DELL’ALLARGAMENTO
1.2.1 Le ragioni dell’allargamento
La situazione è aggravata dall’imminente allargamento dell’Unione, che
condizionerà fortemente l’identità dell’Europa del Ventunesimo secolo.
Tale allargamento è necessario, in quanto la discriminazione dei Paesi
dell’Europa centro-orientale da parte di quelli più ricchi dell’Occidente,
una “anticamera” imposta per troppo tempo, come sostiene Zagrebelsky4,
non potrebbe che far rinascere in altra forma, ma con lo stesso potenziale
di odio, la appena demolita cortina di ferro, con conseguenze
potenzialmente devastanti per le popolazioni, esposte a rischi gravissimi
di involuzioni neototalitarie su basi dichiaratamente etniche.
Infatti, da quando si sono affrancati dalla tutela sovietica, tali Paesi
hanno rivolto le loro speranze all’Unione europea, simbolo delle libertà e
della prosperità cui essi aspirano, per il cui perseguimento essi sono
disposti a sostenere gli inevitabili sacrifici che comporta la transizione
verso l’economia di mercato. Da alcuni anni, l’opinione pubblica di quei
3 V. N. RONZITTI, L’uso della forza e intervento di umanità, intervento al convegno “Nato,
conflitto in Kosovo e Costituzione italiana” tenutosi alla Libera Università degli Studi
Sociali Guido Carli il 3 dicembre 1999.
4 G. ZAGREBELSKY (a cura di), Il federalismo e la democrazia europea, Roma, 1994.
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Paesi moltiplica i segni d’impazienza e ogni elezione politica assume il
significato di un referendum sull’ingresso in Europa: se la speranza di
un’integrazione relativamente rapida nel consesso europeo venisse delusa,
difficilmente quelle popolazioni potrebbero sopportare a lungo una
politica di austerità, che ha già pericolosamente compromesso il tessuto
sociale. Lasciate in balia di se stesse, quelle democrazie in fase di
consolidamento sarebbero minacciate da un’instabilità cronica, che
comprometterebbe seriamente ogni possibilità di sviluppo e di pace: la
tragedia jugoslava ci mostra con tragica evidenza come antiche ferite
possano riaprirsi in ogni momento.
Di fronte a tale prospettiva, l’Unione europea ha il dovere di intervenire
sia in nome della sua integrità fisica, dal momento che i conflitti ai suoi
confini finirebbero inevitabilmente per minacciare la sua stessa sicurezza,
sia in nome della sua integrità morale, giacché, a differenza degli Stati-
nazione, la cui esistenza è generalmente ritenuta un dato naturale, l’idea
dell’integrazione europea è nata da un nucleo di ideali, come quelli della
pace e della solidarietà, che non possono essere ignorati5.
Chiudendosi in se stessa per conservare i propri privilegi, l’Europa non
soltanto darebbe prova di miopia politica, ma comprometterebbe la sua
stessa immagine agli occhi dei cittadini europei: l’impotenza degli Stati
dell’Europa occidentale di fronte al crollo della Federazione jugoslava e
all’esplosione del conflitto bosniaco è stata percepita e condannata
5
Si veda in proposito la penetrante analisi di J. WEILER, Fin de siècle Europe, in R. DEHOUSSE
(a cura di), Europe After Maastricht: An Ever Closer Union?, München, 1994, pp. 203-216.
16
dall’opinione pubblica proprio come una grave incoerenza rispetto agli
ideali sui quali si fonda la costruzione europea.
D’altronde, una “dorata” chiusura finirebbe per minacciare anche la
stessa costruzione dell’Europa come progetto occidentale. L’allargamento
è, quindi, inevitabile. Ma è inevitabile anche che avvenga su scala così
ampia?
L’adesione dei Paesi dell’Europa centrale ed orientale porterà al
raddoppio degli Stati membri e ciò significherà, in termini quantitativi,
che la superficie dell’Unione aumenterà di circa il trenta per cento, mentre
la sua popolazione ed il suo PIL segneranno un incremento,
rispettivamente, del ventinove e di meno del dieci per cento, con ovvie
conseguenti difficoltà di convergenza fra economie e società, almeno in
parte, ancora molto distanti6.
La risposta, cautamente positiva da quando l’Unione ha avviato
negoziati di adesione con il primo gruppo di sei Paesi candidati (composto
da Polonia, Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca, Estonia e Cipro), è
diventata molto più netta alla luce delle lezioni della crisi del Kosovo: se
l’Unione europea vorrà seriamente svolgere il ruolo di motore dinamico
della stabilità continentale, non potrà che allargarsi progressivamente
verso l’Europa centro e sud-orientale, colmando il ritardo accumulato
rispetto al primo allargamento della Nato (l’ingresso, cioè, di Polonia,
Ungheria e Repubblica Ceca, ratificato dal vertice di Washington
nell’aprile 1999).
6 Per questi dati, v. R. PRODI, Un’idea dell’Europa, Bologna, 1999, pp. 32-33.
17
L’allargamento è pertanto concepito, anzitutto, come una scelta di
sicurezza7. Dal momento che il modello “inclusivo” ha funzionato per
l’Europa occidentale, si presume che possa e debba funzionare anche
rispetto all’Europa divisa e a lungo dimenticata ai nostri confini orientali.
Questo è l’approccio adottato dalla Commissione europea8, secondo cui
l’allargamento non è una delle scelte da compiere, ma è, invece, una
priorità strategica per l’Unione, che, per il suo rafforzamento e per la sua
stessa sopravvivenza, deve impegnarsi nel tentativo di stabilizzare le aree
di forte problematicità esistenti alle sue frontiere.
1.2.2 Le implicazioni istituzionali dell’allargamento e la conseguente
esigenza di una riforma
Nonostante l’allargamento sia necessario, esso porta con sé il rischio di
indebolire l’ordinamento dell’Unione ed è fonte di difficoltà anche sul
piano istituzionale. Infatti, l’innegabile successo dell’integrazione europea
è dovuto essenzialmente ad un sistema istituzionale atipico, caratterizzato
da elementi di sovranazionalità.
Vi è un organo collegiale, la Commissione, indipendente dagli Stati
membri e titolare della funzione d’iniziativa e di impulso del processo di
costruzione europea; il Consiglio dei ministri, potendo deliberare in molte
materie a maggioranza, può aggirare gli ostacoli derivanti dal veto di
questo o quello Stato membro; il Parlamento Europeo, eletto a suffragio
7 V. M. DASSÙ, Un’Unione più ampia, in “Dossier Europa”, 25, dicembre 1999.
8 V. R. PRODI, L’Unione europea e la sfida del XXI secolo, in “Dossier Europa”, 25, dicembre
1999.
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universale diretto dal 1979, ha visto progressivamente aumentare la sua
partecipazione al processo legislativo ed è dotato di importanti strumenti
di controllo; la Corte di giustizia è in grado di imporre il rispetto delle
decisioni collettivamente adottate. Tutti questi elementi garantiscono al
sistema comunitario un’efficacia sconosciuta a qualsiasi organizzazione
internazionale di tipo classico.
Tuttavia, la struttura istituzionale dell’Unione europea è stata pensata e
definita negli anni Cinquanta per una Comunità di sei Stati membri. Vari
trattati successivi sono intervenuti ed hanno introdotto alcuni
adeguamenti del quadro istituzionale, ma non si è mai proceduto ad una
riforma globale. Ora questa non è più differibile.
Infatti, in una futura Unione composta da una trentina di membri la
previsione del Trattato, secondo cui la Commissione deve comprendere
almeno un cittadino di ogni Stato membro, ne farebbe un organo di
dimensioni eccessive, più simile ad una conferenza internazionale che ad
un esecutivo collegiale. È difficile pensare che, in tali condizioni, la
Commissione sarebbe in grado di svolgere efficacemente la funzione di
impulso che le è riservata.
La creazione della Commissione Santer costituisce un esempio di cosa
potrebbe comportare la divisione dei compiti in un esecutivo tanto ampio.
In questo caso, per dare a ciascun commissario un minimo di
responsabilità, si è proceduto ad uno smembramento di alcuni settori: a
ben cinque commissari è stato affidato il compito di occuparsi delle
relazioni esterne! Questo frazionamento rischia di incoraggiare, come
19
sostengono alcuni9, eccessi di attivismo, che indurrebbero i titolari di
portafogli di secondaria importanza a promuovere programmi di azione
nel settore di loro competenza al solo scopo di far sentire la loro presenza
in seno al collegio, senza necessariamente verificare se essi rispondano
effettivamente all’interesse comunitario.
Allo stesso modo, anche un Consiglio dei ministri, all’interno del quale
fosse rappresentato un così grande numero di Stati, avrebbe difficoltà a
funzionare correttamente. Se venissero mantenute le regole attualmente
vigenti relative alla ponderazione dei voti, certe decisioni potrebbero
essere imposte da parte di coalizioni di Stati rappresentanti meno della
metà della popolazione dell’Unione. Inoltre, più numerose saranno le
adesioni, maggiore sarà il rischio di un blocco delle decisioni, soprattutto
se per alcune di esse venisse ancora richiesta l’unanimità, pregiudicando il
dinamismo proprio del processo di integrazione comunitaria.
Paradossalmente così tanti Paesi desiderano entrare a far parte
dell’Unione europea, in quanto essa ha manifestato una capacità d’azione
più incisiva rispetto ad altre organizzazioni, ma tale capacità è dovuta in
gran parte proprio alla sua efficacia istituzionale, efficacia che verrà meno
se l’allargamento non avrà come presupposto un’adeguata riforma. Si
impone, quindi, la necessità di una radicale riforma dell’apparato
istituzionale dell’Unione europea.
9 V. CLUB DI FIRENZE (a cura di), Europa: l’impossibile status quo, Bologna, 1996. Il Club
di Firenze raccoglie alcune personalità di rilievo internazionale, quali Enrique Baron
Crespo, Cristoph Bertram, Stanley Crossick, Renaud Dehousse, René Foch, Franz
Froschmaier, Max Kohnstamm, François Lamoureux, Emile Noël, Tommaso Padoa-
Schioppa.
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La Conferenza intergovernativa che ha condotto all’adozione del
Trattato di Amsterdam non ha affrontato questo cruciale problema. Gli
Stati membri concordano, comunque, nel ritenere che l’allargamento
costituisca un obiettivo di tale rilevanza politica e storica, sia per l’Unione
che per i Paesi candidati, da non permettere che esso venga ritardato o
posticipato per il fatto che tale riforma non è stata completata.
1.2.3 Una riforma in senso federale
Su questo fondamentale tema si contrappongono due principali
concezioni. Secondo la prima, che potrebbe essere definita realista o
riduttiva, si dovrebbe limitare la riforma dell’Unione ad un mero
ammodernamento, ad un “maquillage”10 delle istituzioni e delle
procedure di decisione. I fautori di tale orientamento ritengono necessario
evitare che il prossimo allargamento dell’Unione comprometta l’efficacia,
peraltro già molto discutibile, del funzionamento del Consiglio
dell’Unione e della Commissione europea e sconvolga l’equilibrio attuale
fra i “grandi” ed i “piccoli” Stati.
Secondo le diplomazie nazionali, tutte accomunate da questa visione
riduttiva, tale aggiustamento istituzionale potrà essere condotto a termine
entro il Consiglio europeo di Parigi del dicembre 2000, attraverso un
negoziato discreto e puntuale fra governi, in particolare fra rappresentanti
delle amministrazioni nazionali, senza coinvolgere minimamente, com’è
infelice e radicata prassi, l’opinione pubblica europea.
10 V. P.V. DASTOLI, Le nuove riforme, in “Dossier Europa”, 25, dicembre 1999.