L’esperienza alla Casa delle donne mi è servita per osservare meglio
come nella vita quotidiana le donne siano relegate nella sfera privata.
Esse sono considerate dalla società come le protettrici del focolare
domestico. Il loro compito è quindi quello di occuparsi della famiglia, di
conseguenza il lavoro di cura verso i familiari e verso la casa –
intendendo tutto ciò che riguarda le faccende domestiche – viene
considerato l’insieme delle attività che esse sono in grado di svolgere. Il
tradizionale ruolo che la società ha assegnato alle donne le porta a
scontrarsi con una realtà differente, soprattutto in questo XXI secolo.
L’emancipazione delle donne e l’occupazione di ruoli di responsabilità
sempre più importanti hanno segnato la loro entrata nella sfera pubblica.
La loro partecipazione alla vita pubblica non è stata però ancora
metabolizzata dalla società, che continua a cercare di relegarle nella
sfera privata. È proprio questa la causa dello scontro tra uomini e donne
nella vita quotidiana. Gli uomini sentono il bisogno di affermare la loro
presunta superiorità e di riprendere il loro tradizionale posto di potere in
tutti gli ambiti della vita. Per fare questo essi tendono a utilizzare la
violenza, che non è per forza una violenza fisica, ma è anche una
violenza psicologica, economica, insomma una violenza strutturale che
è endemica della società. Da questo si spiegano quei comportamenti, ad
esempio del marito verso la moglie o del collega verso la collega di
lavoro, che mirano a svalutare il lavoro delle donne e le loro capacità,
cercando di relegarle nella sfera privata, come se le attività domestiche
fossero le uniche che esse sono capaci di svolgere.
Il femminismo ha avuto il merito di portare alla luce la condizione di
subordinazione delle donne, che è dovuta alla violenza strutturale che
sta alla base della società gerarchica e patriarcale. Gli Stati, le istituzioni
e le politiche, nazionali e internazionali, sono stati costruiti su questo
presupposto e hanno contribuito a mantenere le donne in una posizione
gerarchica inferiore rispetto agli uomini e a relegarle nella sfera
domestica e privata, lontano dalla politica, lontano dalla vita pubblica,
lontano dai processi decisionali. Tutto ciò ha reso le donne soggetti
2
deboli, con dei «diritti parziali» rispetto agli uomini, soggetti
sottorappresentati e «naturalmente insicuri».
Ho iniziato il mio lavoro partendo, nel primo capitolo, dall’analisi
storica del concetto di sicurezza, dalla sua nascita legata a quella dello
Stato moderno, fino alla sua evoluzione e al suo ampliamento ottenuto
con l’affermazione dei diritti sociali e del welfare state. Da questa
ricerca è emerso che il concetto di cittadinanza come status di diritti, è
un requisito necessario per la sicurezza che lo Stato deve garantire ai
cittadini. Tenuto conto di questa definizione di cittadinanza, nel secondo
capitolo, ho riportato la riflessione femminista partendo dall’esclusione
delle donne dalla cittadinanza e dall’analisi sulla «cittadinanza
imperfetta» e «derivata» che è stata loro attribuita e che contribuisce
all’insicurezza femminile. Da lì sono passata alla riflessione delle
femministe sulle problematiche relative alla sicurezza degli individui e
come quest’ultima viene concepita dagli Stati-nazione, che limitano le
libertà e i diritti dei cittadini in nome della loro sicurezza. Nel terzo
capitolo, ho riportato il contributo del movimento femminista alla
sicurezza femminile in un contesto globalizzato. Il maggior peso delle
studiose nelle relazioni internazionali ha sollevato la questione
femminile a livello internazionale. La solidarietà – e non la sorellanza
globale, che tendeva a nascondere le differenze etniche, religiose e
culturali tra le donne – ha unito le femministe e i movimenti delle donne
di tutto il mondo nella lotta al patriarcato e all’oppressione maschile ed
è riuscita a far ottenere dei risultati importanti sul piano del diritto
internazionale, a far emergere la condizione di sfruttamento delle donne
nei processi di globalizzazione e a dimostrare l’importanza di un
maggior coinvolgimento politico e decisionale delle donne per garantire
il benessere di tutta la società.
I movimenti femministi hanno ridato alle donne la visibilità e la
rilevanza che erano state loro negate. Ha fatto emergere dei soggetti
donna, diversi dal soggetto uomo, ma capaci di partecipare ai processi
politici e di garantirsi da sole la propria sicurezza. Oggi, la sicurezza
delle donne è ancora un problema da risolvere, ma con il contributo e
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l’attivismo dei movimenti delle donne e dei movimenti femministi si ha
una maggiore sensibilità, da parte delle istituzioni internazionali e degli
stati democratici, su queste problematiche e ciò fa pensare che il
traguardo ad una piena sicurezza femminile non è poi così impossibile.
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CAPITOLO I
COSTRUZIONE ED EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI SICUREZZA:
DALLO STATO MODERNO AL WELFARE STATE
Prima di iniziare a trattare la riflessione femminista sulla sicurezza, è
importante, a mio avviso, ricostruire l’evoluzione del concetto di sicurezza sul
piano storico, per capire il contesto e i presupposti su cui esso si è sviluppato. In
questo capitolo mi limiterò a tracciare le principali tappe storiche di questo
concetto, partendo da una definizione restrittiva del suo significato iniziale legata
allo Stato moderno, fino al suo ampliamento risalente all’affermazione dei diritti
sociali e dello Stato sociale.
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Il concetto di sicurezza nello stato moderno
Lo stato moderno si affermò in Europa tra il XV e il XVII secolo come
un’organizzazione politica accentrata e assoluta, la sua formazione avvenne
attraverso un progressivo accentramento del potere e della territorialità
dell’obbligazione politica. I conflitti fra le monarchie europee e le conseguenti
necessità militari rappresentano l’impulso iniziale che mise in moto la
trasformazione delle istituzioni politiche intorno al XVII secolo. L’esigenza di
disporre di un esercito permanente rese necessario un flusso costante di entrate,
che solo un’estesa fiscalità poteva assicurare e che solo un’amministrazione ben
organizzata poteva controllare. Contemporaneamente gli stati si dotarono di
apparati coercitivi, e dunque di istituzioni giudiziarie, indispensabili, tra l’altro,
per garantire una uniformità di applicazione del prelievo fiscale su tutto il
territorio nazionale.
Esercito permanente, fisco, burocrazia e apparati coercitivi definirono i
contorni di una nuova struttura statale, che si contrapponeva alla frammentazione
dei poteri di origine feudale. Una struttura accentrata intorno alla figura del
sovrano, che deteneva un potere del tutto indipendente e quindi assoluto, sciolto
da ogni vincolo.
La formazione dello stato moderno coincise dunque con lo sviluppo delle
monarchie assolute e fu costantemente accompagnata dalla lotta per il
ridimensionamento politico della nobiltà tradizionale: una lotta che, nelle sue fasi
iniziali, vide le monarchie allearsi ai ceti cittadini e mercantili. Ma in un periodo
successivo anche le città furono costrette a rinunciare alle loro antiche libertà,
cedendo alla spinta uniformatrice dello stato.
Lo stato moderno ottenne quindi, oltre al monopolio del potere politico e
amministrativo, anche quello della forza, che comportava il dovere della
protezione fisica degli individui presenti sul territorio, sia dalle minacce esterne
che da quelle interne. Una delle dinamiche fondamentali che portarono alla
formazione dei moderni stati fu certamente quella delle «guerre civili di religione»
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prodotte dalla perdita di universalità della repubblica cristiana medievale, dovuta
alla riforma protestante.
Thomas Hobbes fu il primo grande pensatore politico che fece della paura
e della relativa richiesta di sicurezza da parte degli individui, l’elemento fondante
dello Stato stesso. L’esperienza epocale delle guerre civili di religione e in
particolar modo di quella inglese, che durò dal 1642 al 1660, segnò in modo
indelebile la filosofia politica hobbesiana. La violenza di queste guerre, vissuta
dal filosofo, lo portò a preoccuparsi della sicurezza concreta degli individui, cioè
dell’incolumità fisica e della garanzia di protezione del diritto alla vita di ogni
singolo individuo. Per spiegare ciò, Hobbes teorizzò quello che Carlo Galli
definisce una «semplificazione spaziale»1: il filosofo inglese inventò uno spazio
alternativo alla realtà, lo «stato di natura», vale a dire la condizione pre-statale in
cui gli uomini erano pienamente liberi di godere dei propri diritti naturali. «Nello
stato di natura», scriveva Hobbes, «ogni uomo è giudice di se stesso e dà alle cose
nomi e definizioni diversi dagli altri, e da queste differenze sorgono dispute e
turbamenti della pace»2. Lo stato di natura era quindi una situazione di conflitto
radicale sul significato delle parole e della morale, che portava alla sfiducia
logorante e all’aperta violenza. Galli spiega che Hobbes pensava allo stato di
natura come ad uno spazio disordinato, che serviva semplicemente da transito per
gli individui fino a quando non fossero stati in grado di creare uno «spazio
artificiale», lo Stato, che doveva ordinarlo, eliminando i concreti pericoli che lo
percorrevano: l’incapacità degli uomini di collaborare e il loro interagire
violento3. Hobbes reinterpretò in modo nuovo la contingenza, l’imprevedibilità
del mondo, la conflittualità dell’esistenza: leggendo questa realtà «a partire
dall’esigenza del soggetto di avere salva la vita, di eliminare il pericolo mortale
della non-collaborazione e dell’aggressione, di garantire all’uomo la necessaria
sicurezza»4. Nel pensiero di Hobbes la Natura era quindi uno spazio da
abbandonare o da manipolare allo scopo di raggiungere la sicurezza; la politica
era invece considerata come un ponte che metteva in comunicazione lo spazio
disordinato, vale a dire lo stato di natura, con lo spazio ordinato, lo Stato5.
1
C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 41.
2
T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, Firenze, Sansoni, 2004, p. 188.
3
C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, cit., p. 42.
4
Ibidem.
5
Ibidem.
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