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alla bonifica, trasformazione, manutenzione e commercializzazione delle aree
interessate, in base al Piano Urbanistico Esecutivo, approvato dal Consiglio
Comunale il 6 novembre 2003, costituito da varie aree tematiche, le quali
riguardano tutte le potenziali risorse presenti nell’area vasta e tutte le infrastrutture
da realizzare per riattivare il motore economico in una zona che offre notevoli
possibilità di sviluppo. Nella seconda parte del lavoro, destinata alle potenzialità
future dell’area, emerge l’assoluta carenza di strutture ricettive adeguate per
l’accoglienza dei turisti. Proprio per questo motivo il Piano prevede la
realizzazione di un vero e proprio “quartiere del turismo”, che comprende attività
commerciali, strutture alberghiere, un grande Polo Congressuale, un parco urbano,
un porto turistico: tutto ciò in un’ottica che risponda alla necessità di un’alta
qualità della vita e di uno sviluppo sostenibile. Infine, grazie alle informazioni
rilevate da una ricerca del CRESME (Centro Ricerche Economiche e Sociali di
Mercato per l’Edilizia ed il Territorio), nell’ultimo capitolo ci si è soffermati
sull’impatto sociale ed economico che potrebbe derivare dalla messa in opera
delle trasformazioni previste dal Piano nell’area di Bagnoli e che potrebbe dare
alla città di Napoli un’immagine più positiva e più competitiva, a livello sia
nazionale che mondiale.
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Capitolo I
L’ex industria napoletana e i nuovi sistemi produttivi
locali
1.1. La dismissione industriale nell’area napoletana
A partire dalla metà degli anni Settanta nelle economie e nelle società
occidentali si verificano grandi cambiamenti. Con la crisi petrolifera e la fine del
sistema economico fissato dagli accordi di Bretton Woods
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si determina un forte
rallentamento della crescita nei paesi industrializzati, in particolare nel settore
dell’industria di base, segno questo della fine della lunga fase espansiva
cominciata con la ricostruzione postbellica.
La struttura e l’aspetto di tante città occidentali muta radicalmente, in seguito
a profondi processi di ristrutturazione industriale o di vera e propria
deindustrializzazione. La grande fabbrica fordista, dei settori di base ad
organizzazione verticale, non è più al centro dello sviluppo economico e sociale.
Essa da potente mito della modernità diventa, con la sua dismissione, il simbolo
ed il problema del postmoderno.
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Gli accordi erano un sistema di regole e procedure per regolare la politica economica e
internazionale.
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Muta radicalmente la stessa concezione di settore industriale sottoposto a
processi di cosiddetta terziarizzazione, cioè di esternalizzazione di funzioni
precedentemente svolte all’interno dell’impresa. Questi mutamenti producono un
aumento del decentramento, una diminuzione della dimensione media delle
imprese e un aumento del terziario per l’industria. Il riassetto del settore
industriale si accompagna poi ad un trend di risparmio del lavoro, a causa sia delle
innovazioni tecnologiche, sia di vero e proprio ridimensionamento produttivo
operato con l’abbandono di intere produzioni soprattutto nei settori di base.
In seguito a queste trasformazioni, all’interno delle grandi aree urbane si
determinano dei vuoti da riempire e da riutilizzare. Interi quartieri e interi settori
sociali vedono messe in discussione la loro funzione e la loro identità; si rompe un
legame storico che ha segnato intere generazioni, un rapporto strettissimo tra la
fabbrica, il territorio circostante e la gente che vi abita.
Focalizzando l’attenzione sull’apparato industriale napoletano, molteplici
analisi documentano che a partire dagli anni ’80 questo manifesta un’esplicita
dinamica di disarticolazione interna e di revisione della sua organizzazione
territoriale, con una tendenza alla delocalizzazione verso le aree interne.
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L’industria napoletana è caratterizzata da una grave crisi che provoca un forte
calo dell’occupazione compensato solo in parte da nuove occasioni di lavoro nel
terziario. In questo contesto il caso Italsider rappresenta pienamente l’involuzione
subita dall’industria italiana a partecipazione statale. La storia dell’Ilva prima,
Italsider poi, comincia nel 1904 con la legge speciale per Napoli n° 351 dell’8
luglio 1904, ispirata da Francesco Saverio Nitti, noto economista e uomo politico
italiano. Questa legge, che forniva delle agevolazioni per gli insediamenti
industriali, prevedeva la costruzione di un impianto siderurgico nell’area
napoletana. Abbandonata l’ipotesi iniziale di localizzazione nell’area orientale
della città, già occupata da altri impianti produttivi, la scelta cade su una zona, di
straordinario fascino, tra la collina di Posillipo, la spiaggia di Coroglio e la strada
per Pozzuoli. Un’area di circa 1.200.000 mq, vicina al mare, il che consentiva di
realizzare un approdo per il carico e lo scarico di prodotti finiti e semilavorati.
Il nuovo stabilimento, inaugurato il 19 giugno 1910, con la Grande Guerra
lavora a pieno regime grazie soprattutto alle commesse statali per l’industria
bellica. Durante gli anni Trenta si ha un notevole sviluppo dello stabilimento che
però, in seguito alle vicende del secondo conflitto mondiale, viene quasi
completamente distrutto dall’esercito tedesco in ritirata. Con la liberazione di
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Napoli, sono le stesse maestranze operaie con i tecnici ad adoperarsi per
cominciare a riattivare la fabbrica. Negli anni della ricostruzione postbellica e poi
dello sviluppo economico, l’Ilva conosce una lunga fase di espansione,
trasformandosi nel 1961, attraverso la fusione con Cornigliano e altre imprese
minori, in Italsider. E’ durante gli anni Sessanta che si comincia a parlare di
delocalizzazione dell’acciaieria all’interno di una pianificazione dello sviluppo del
“comprensorio napoletano”
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, anche se tale disegno non verrà mai realizzato.
Con la crisi degli anni Settanta gli effetti sulla siderurgia italiana sono
drammatici e lo stabilimento di Bagnoli ne viene investito in pieno. Tra il ’76 e il
’77 due Rapporti tecnici commissionati dall’Iri (Rapporto Storoni e Rapporto
Armani) danno un giudizio estremamente negativo sulla situazione dell’Italsider,
e il Rapporto Armani prospetta per la prima volta l’ipotesi di una progressiva
chiusura del Centro. Viene elaborato allora un “Programma finalizzato per la
siderurgia”, che per Bagnoli prevede un Piano di ristrutturazione, basato
essenzialmente sull’installazione di due impianti di colata continua e di un
laminatoio per coils a caldo. E’ in questa fase che comincia la lunghissima e
travagliata vicenda che porterà infine alla chiusura dell’acciaieria. Il biennio ’82-
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Piano Piccinato,1962.
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’84 è segnato dal processo di ristrutturazione ed ammodernamento della fabbrica,
accompagnato da una serie infinita e drammatica, per i suoi risvolti umani e
sociali, di agitazioni e proteste operaie. Un primo Accordo viene raggiunto a
fatica il 5 novembre 1982, dopo 35 giorni di lotta e di manifestazioni in cui, per la
prima volta dopo molto tempo, si verificano anche scontri con le forze dell’ordine.
Ma la prevista riapertura dello stabilimento per l’aprile ’83 non viene rispettata a
seguito di ulteriori tagli richiesti dalla Comunità Economica Europea. Gli altri
paesi europei (come pure USA e Giappone) hanno da tempo ristrutturato i propri
impianti ed investito sui settori ad alta tecnologia dell’economia. In Italia invece
ancora nel 1980 si ha una crescita del numero di occupati nel settore siderurgico,
in contrasto con tutti gli indicatori di crisi. In questo contesto, in mancanza di una
programmazione economica nazionale e di una seria politica industriale, la classe
politico-sindacale napoletana, nella sua quasi totalità, finisce per schierarsi, con
motivazioni diverse, a difesa di una fabbrica, il cui mantenimento diventa il
simbolo della garanzia di una soglia minima di civiltà a Napoli, sintetizzata nello
slogan: “L’Italsider non si tocca!”.
La città e le istituzioni comunali si raccolgono attorno ai caschi gialli: il
sindaco comunista Maurizio Valenzi si pone alla testa dei cortei, va a parlare in
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fabbrica e giunge a minacciare le dimissioni in caso di chiusura del Centro
siderurgico. Dopo l’accordo del 1982 e la nuova richiesta di tagli e di riduzione
della capacità produttiva proveniente da Bruxelles, si arriva all’accordo del 10
maggio 1984 che divide i sindacati e i lavoratori, con il Consiglio di fabbrica che
contesta la firma apposta dalla Federazione sindacale unitaria. Per la prima volta
allora in una grande fabbrica italiana, l’Accordo sul riavvio dell’attività produttiva
diventa oggetto di un Referendum aziendale che, dopo altre spaccature e
contestazioni, viene definitivamente approvato dai lavoratori, nonostante l’invito
all’astensione da parte del Consiglio di fabbrica. Ma, sebbene i lavoratori
affrontino continui e pesanti sacrifici, tutto ciò non basta ed ha solo l’effetto di
prolungare nel tempo il lento declino dell’acciaieria, suscitando rabbia,
frustrazione e il sospetto di manovre speculative sui suoli alle spalle degli operai.
Sono poche le voci che si levano ad indicare soluzioni alternative. Qualche
associazione ambientalista, come “Italia Nostra”, invita a prendere atto della crisi
della siderurgia e ad investire nei settori più avanzati e moderni dell’economia,
come l’elettronica e la telematica; i Verdi, che da tempo portano avanti la loro
battaglia per la chiusura della fabbrica, auspicano un rilancio turistico dell’area
che però, in mancanza di precise prospettive occupazionali, viene fortemente
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osteggiata dagli operai e dalle principali forze politiche che ad essi fanno
riferimento.
Si giunge così nell’ottobre 1990 alla chiusura dell’area a caldo dello
stabilimento, nuovamente denominato Ilva, ed alla cessazione definitiva, nel
1991, di ogni attività produttiva. Si conclude così una fase storica durata oltre
ottant’anni, praticamente l’intera storia del Novecento della città di Napoli.
Insieme alla fabbrica scompaiono anche i soggetti che la rendevano viva: coloro
che ci lavoravano. Oggi il modo migliore per rendere omaggio a questa storia
secolare sarebbe quello di far tornare a pulsare in quell’area, nelle forme nuove e
moderne, il lavoro di uomini che costruiscono e progettano il loro futuro.
1.2. Il patrimonio industriale: insieme di potenzialità
endogene dello sviluppo locale
Secondo uno studio
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effettuato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, i
sedimenti territoriali della storia industriale vengono considerati come un insieme
di potenzialità endogene dello sviluppo locale, capaci di conferire nuova
competitività alle aree di antica industrializzazione, le quali sono alla ricerca di
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Intitolato: “I patrimoni della storia industriale: significati, ruoli e funzioni dei beni culturali nelle
strategie competitive dei sistemi produttivi locali” e visionato su Internet
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una ridefinizione della propria identità. L’obiettivo specifico dello studio è quello
di descrivere i processi attraverso i quali i beni culturali di origine industriale
entrano nelle attuali strategie dei sistemi produttivi locali.
Il patrimonio industriale assume così una duplice valenza: da un lato è visto
come eredità del passato, secondo cui il patrimonio è una dotazione oggettiva,
localizzata in un certo luogo e specifica di quel luogo, il cui spessore è in funzione
delle relazioni che collegano oggetti e soggetti territoriali e che costituiscono il
fondamento dell’identità locale; dall’altro lato, invece, viene visto come risorsa
per costruire lo sviluppo futuro: l’eredità industriale può essere pensata come un
insieme di potenzialità che, per diventare risorse spendibili dal sistema locale,
devono essere riconosciute e attivate dagli attori locali, espressione della
soggettività sociale.
In quest’ottica si inserisce l’area occidentale di Napoli, che sin dall’antichità
era considerata luogo di mistero e di mito, oltre ad essere uno dei paesaggi più
belli del mondo, ricco di insenature, terme, laghi e mare. Ma con l’avvio
dell’industrializzazione, dell’esplosione demografica e dell’abusivismo edilizio
questo equilibrio fu distrutto, lasciando il posto a decenni di inquinamento,
degrado ambientale e sfruttamento del lavoro, finchè si assiste alla lenta ma