princeps, ovvero di coloro ai quali sia stato puntualmente accordato, ha natura politica
piuttosto che giurisdizionale, in quanto assume efficacia in ragione dell’auctoritas di questi
ultimi.
Ciononostante l’istituto costituisce un precedente rilevante, se si considerano i casi e i
limiti ad esso relativi; la condanna irretrattabile, che si presume conforme a verità, come
afferma Ulpiano nel noto brocardo “res judicata pro veritate accipitur”, può, infatti, essere
annullata se, dopo la confessione
6
del condannato, venga riconosciuta la sua innocenza. In
questo caso infatti «extat epistola divorum fratrum ad Voconium Saxam, qua continetur liberandum
eum, qui in se fuerat confessus, cuius post damnationem de innocentia constitisset»
7
.
La sentenza è, parimenti, suscettibile di revoca qualora sopravvengano nova elementa, che
dimostrino la falsità dei presupposti probatori sui quali è intervenuta la decisione
definitiva.
A ben vedere, allora come oggi, la revisione era ammessa solo nelle ipotesi
predeterminate dalla legge ed espressione di una patologia del giudicato, condizioni,
queste, necessarie per non frustrare il precedente operato dei giudici.
Ulteriore connotato che avvicina la licentia supplicandi all’istituto attualmente vigente, è
costituito dal presupposto oggettivo: la sentenza soggetta ad annullamento pare fosse,
anche allora, solo quella di condanna; nonostante voci discordi
8
, la dottrina sembra
propendere per tale soluzione.
2. La revisione nel diritto intermedio.
Nel corso del diritto intermedio si perdono le tracce della licentia supplicandi, a causa
(sembra) delle influenze del diritto barbarico
9
. Il vuoto formatosi al riguardo viene
colmato diversi secoli più tardi, allorché con un’ordinanza del 1539 – successivamente
modificata nel 1667 – si istituisce in Francia il rimedio della propositions d’erreur, embrione
rinascente dell’istituto della revisione.
6
L’epistola, di cui sopra, appare sufficientemente esauriente nell’escludere che, un simile limite, sia da
configurare quale irragionevole vantaggio per il condannato “reo-confesso”. L’ordinamento, infatti,
accoglie le dichiarazioni di quest’ultimo con il beneficio del dubbio, sulla scorta della considerazione che
«più di una volta infatti, o per timore o per altri motivi sia stata resa confessione» (vd. nota n. 7).
7
ULPIANO, in D. 48.18.27.
8
PUTTMAN, Elementa juris criminalis, Lipsia, 1779, cit. in B. ALIMENA, Studi di procedura penale, F.lli
Bocca, Torino, 1906, pag. 438.
9
Di tale avviso è l’Alimena, op. cit., pag. 439.
Il procedimento diretto all’annullamento della sentenza appartiene, anche in questo
caso, alla sfera del potere esecutivo, posto che «in Francia, dal XV al XVIII secolo,
durante l’assolutismo dei re il principio res judicata pro veritate habetur cedeva di fronte al
potere del monarca»
10
, e procedure affini non si rinvengono nell’ambito dell’ordinamento
giudiziario. Le cronache del tempo ci informano, infatti, che la correzione dell’errore e la
conseguente assoluzione del condannato spettano al Re, il quale può altresì emanare una
sentenza infamante avverso il procuratore generale del Tribunale presso cui è stata emessa
la sentenza ingiusta
11
.
Più tardi, con un’ordinanza del 1670, compare per la prima volta il termine revisione; le
lettres de revision sono «le lettere che il Re accorda, per esaminare e rivedere il processo
penale di una persona condannata in contraddittorio con giudizio in ultima istanza, allo
scopo di revocare la condanna, se n’è il caso, e di assolvere il condannato o la sua
memoria»
12
.
A differenza del diritto romano, i casi nei quali il rimedio risulta esperibile non sono
determinati, potendo il condannato avanzare istanza ogni qualvolta abbia la possibilità di
produrre elementi di prova, astrattamente idonei a dimostrare la propria innocenza.
La rivoluzione francese, protesa ad abolire ogni ricordo del potere assoluto, cancella
ben presto così la revisione, come la grazia sovrana (trattatasi di provvedimenti distinti,
l’uno concesso sull’asserita innocenza del condannato, l’altro fondato sull’indulgenza del
monarca, che non rescinde, né annulla il giudicato). La pubblicità e il contraddittorio
appaiono garanzie sufficienti di sicura giustizia, mentre il riesame del giudicato non
riscuote simpatia alcuna, in quanto capace di gettare ombre sulla figura del magistrato
popolare, figlio della rivoluzione.
L’illusione che si nasconde dietro tali propositi svanisce, tuttavia, in poco tempo: il
mito delle garanzie e dell’infallibilità del giudice illuminato è annichilito dai fatti, che
portano alla reintroduzione della revisione, prima con decreto del 1793, e poi col Code del
1808.
Nel frattempo in Italia e in particolare a Napoli, Carlo III introduce l’istituto, affidando
la cognizione della relativa istanza, non più al Consiglio del Sovrano, ma ad un’apposita
magistratura all’uopo creata (Real Camera di Santa Chiara a Napoli, Giunta dei Presidenti
10
G.P. AUGENTI, Lineamenti del processo di revisione, Cedam, Padova, 1949, pag.10.
11
DESJARDIN, La revision du procès criminel, cit. in G.P. AUGENTI, op. cit., pag.10.
12
JOUSSE, Nouveau Commentaire sur l’ordonnance criminelle du mois d’aout 1670, Parigi, 1752, cit. in B.
ALIMENA, op. cit., pag.440.
e dei Consultori in Sicilia): il riesame della sentenza definitiva diventa, in tal modo, un
diritto del condannato.
3. Il codice di procedura penale del 1865.
La storia successiva è legata alle codificazioni ufficiali; già abbiamo visto come l’istituto
venga reintrodotto in Francia nel Code del 1808. In Italia il codice di procedura penale del
1865, ispirandosi manifestamente al codice francese, ne recepisce, pressoché testualmente,
il complesso normativo
13
. In particolare interessa sottolineare come, in entrambe le
legislazioni, l’ammissibilità della revisione sia condizionata al verificarsi di uno o più casi
predeterminati dalla legge: si ritorna, cioè, al sistema “a critica vincolata” concepito dai
romani. Il condannato ha la possibilità, pertanto, di contestare la pronuncia
giurisdizionale, allorché, anzitutto, vi sia inconciliabilità tra sentenze di condanna di due
persone relativamente ad un medesimo fatto (art. 688 c.p.p.).
Esigenze di economia processuale, piuttosto che di giustizia sostanziale, suggerirono di
contenere la fattispecie ai soli delitti puniti con la pena dell’ergastolo, dell’interdizione
perpetua dai pubblici uffici, della reclusione o della detenzione per un tempo maggiore dei
tre anni
14
, quasi a dimostrazione che per i reati c.d. bagatellari il rischio dell’errore
giudiziario possa essere addebitato all’imputato, su cui pertanto grava, non solo l’onta di
una sentenza di condanna, ma anche il fardello di una pena immeritata.
La ragione del riesame, relativamente all’ipotesi qui configurata, consiste nella necessità
di evitare contraddizioni all’interno dell’ordinamento giudiziario.
La fattispecie manifesta, tuttavia, limiti evidenti: il condannato può esperire tale mezzo
di impugnazione limitatamente all’ipotesi di contrasto tra due pronunce di condanna,
dovendosi, invece, escludere la possibilità di contestare incompatibilità derivanti dal
raffronto di una sentenza di condanna con una di assoluzione (si pensi, ad esempio, alla
condanna inflitta a Tizio e all’assoluzione per insussistenza del fatto pronunciata a favore
di Caio, concorrente nel medesimo reato). La casistica impone, altresì, la necessaria «unità
obbiettiva e la pluralità subbiettiva»
15
; con ciò si intende che il riesame è ammesso purché
un medesimo fatto sia attribuito contemporaneamente a due persone differenti, mentre
13
Così G. PETRELLA, Le impugnazioni nel processo penale, vol. II, Giuffré, Milano, 1965, pag. 588.
14
La parola “delitto” va qui interpretata, come per il successivo art. 690 c.p.p., alla stregua di “crimine”,
ai sensi dell’art. 20 del decreto 1 dicembre 1889 n. 6509, contenente le disposizioni per l’attuazione del
codice penale.
15
P. TUOZZI, Principi del procedimento penale italiano, Stb. Tip. M. D’Autria, Napoli, 1909, pag. 508.
nulla è dato fare nel caso in cui incoerenze sorgano per altre circostanze: si pensi
all’eventualità in cui una stessa persona sia condannata per reati commessi in contesti
temporali e spaziali inconciliabili – ad esempio, Tizio, autore di una rapina a Milano
nell’ora x del giorno y, non può aver commesso nello stesso istante un omicidio a Roma.
La lettera della norma appare, in proposito, eloquente nel circoscrivere l’esperibilità del
mezzo all’ipotesi che «due persone (siano) condannate per uno stesso crimine, con due sentenze,
che non possono conciliarsi» (art. 688 c.p.p.), con la conseguenza che, nel caso
prefigurato, Tizio non avrà strumenti per contestare un, pur evidente, conflitto teorico di
giudicati.
Il ricorso alla revisione è, poi, ammesso se, dopo una condanna per omicidio, si accerti
l’esistenza in vita della persona offesa dal reato (art. 689 c.p.p.).
La ratio della fattispecie qui prefigurata è da ricercarsi nell’insussistenza del fatto, sicché,
una volta verificata l’esistenza in vita della presunta vittima
16
, l’esito del giudizio
rescindente non potrà essere che l’annullamento della sentenza di condanna.
Terza e ultima fattispecie, rilevante ai fini dell’impugnazione della sentenza definitiva, è
quella, infine, della falsa testimonianza, quella cioè che si verifica quando uno o più
testimoni del processo a quo abbia deposto falsamente (art. 690 c.p.p.).
La condanna emessa sulla scorta di falsa testimonianza è soggetta a revisione, a
condizione, tuttavia, che le dichiarazioni incriminate siano state rese a carico del
condannato, a prescindere che il testimone appartenesse alla lista del p.m., della parte
civile, o dell’imputato stesso.
Ai sensi dell’art. 690, 1° co. c.p.p., l’esecuzione della sentenza di condanna è sospesa,
allorché sia stata formulata l’imputazione di falsa testimonianza o reticenza e «l’accusa per
questo reato sia stata ammessa» o «siasi soltanto rilasciato contro i testimoni mandato di
cattura». Il favor rei impone in questo caso di non procedere all’esecuzione della decisione,
a causa di un quadro probatorio generale non sufficientemente chiaro. La norma si
applica, tuttavia, limitatamente alla condanna «alle pene di cui all’art. 688 del presente
codice» (art. 690, 1° co. c.p.p.)
17
.
16
Naturalmente, è sufficiente anche che costui sia stato riconosciuto vivo dopo il presunto fatto
d’omicidio, nonostante poi sia venuto a morire per altra causa: è chiaro come in tale eventualità venga
meno l’ordinario nesso di causalità tra il fatto e l’evento.
17
Segnatamente quelle «dell’ergastolo, della interdizione perpetua dai pubblici uffici, della reclusione o
della detenzione per un tempo maggiore dei cinque anni»; per quanto riguarda invece l’ammissibilità
dell’impugnazione si fa riferimento, anche in questo caso, all’art. 20 del decreto 1 dicembre 1889 n. 6509.
Altra cosa è invece il processo di revisione, che può essere aperto solo dopo che sia
intervenuta una condanna irrevocabile nei confronti dei suddetti testimoni (art. 690, 2° co.
c.p.p.).
L’istituto si inserisce in un contesto propriamente giurisdizionale, pur essendo
necessaria una fase preliminare affidata al potere esecutivo: l’atto d’iniziativa è, infatti,
riservato al Ministro di Grazia e Giustizia, che autorizza il procedimento «sia d’uffizio, sia
sulla domanda dei condannati o di uno di essi, o del pubblico ministero» (artt. 688, 2° co.,
689, 1° co., 690, 2° co. c.p.p.). Si svela, così, una dimensione marcatamente pubblicistica
della fattispecie, nota, come già rammentato, sin dal passato; in particolare, il vincolo
dell’iniziativa ministeriale può essere interpretato, alla luce delle passate esperienze, nel
senso che i riflessi dell’errore giudiziario «trascendono, almeno in prima battuta, le
situazioni soggettive coinvolte nel processo per trasferirsi sul piano dell’interesse statuale
alla corretta amministrazione della giustizia»
18
.
L’iter delineato dal codice si compone di una fase rescindente, dinanzi alla Corte di
Cassazione, e di una rescissoria, la cui competenza è riservata al giudice del merito.
Ove il Ministro Guardasigilli decida di attivare l’iter per la revisione di uno o più
giudicati, e dia il correlativo ordine al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione,
ha inizio il procedimento concernente l’ammissibilità della richiesta. Rispetto ad essa il
giudice si limita, in questo frangente, a decretarne il rigetto ovvero l’accoglimento; nel
primo caso, «l’autorità di cosa giudicata della sentenza o delle sentenze denunciate rimane
integra; e cessa la sospensione dell’esecuzione della condanna»
19
, eventualmente concessa.
Nel secondo, si ha invece l’annullamento della sentenza o delle sentenze impugnate, in
ragione di una loro supposta ingiustizia, e il rinvio al giudice di merito
20
.
Nel caso ex art. 688 c.p.p., la Cassazione, dopo aver verificata l’inconciliabilità delle
sentenze ivi indicate, ne dispone l’annullamento e provvede al rinvio presso una corte
diversa da quelle che hanno emesso le pronunce impugnate.
La contestuale presenza di due sentenze “teoricamente” contrastanti costituisce,
comunque, il presupposto necessario per la sospensione ipso iure dell’esecuzione delle
medesime; a norma dell’art. 688, 1° co. c.p.p., tale diritto spetta ai soli condannati «colle
18
G. DEAN, La revisione, Cedam, Padova, 1999, pag. 26.
19
V. MANZINI, Manuale di procedura penale italiana, F.lli Bocca, Torino, 1912, pag. 826.
20
Ulteriori considerazioni sulla procedura sono effettuate infra in questo paragrafo.
pene dell’ergastolo, della interdizione perpetua dai pubblici uffici, della reclusione o della
detenzione per un tempo maggiore dei cinque anni».
Decisamente più complessa è la vicenda relativa alla revisione della sentenza di
condanna per omicidio, dopo che siano stati acquisiti elementi concernenti l’esistenza in
vita della presunta vittima. In questo caso, infatti, la Corte di Cassazione provvede, sulla
scorta di «indizi sufficienti sull’esistenza della persona la cui supposta morte aveva dato
luogo alla condanna» (art. 689, 1° co. c.p.p.), all’immediata designazione di una corte
d’appello, affinché si riconosca l’identità della persona. In ogni caso, a seguito dell’impulso
del Ministro, l’esecuzione della sentenza è sospesa ope legis (art. 689, 2° co. c.p.p.). Alla luce
di questo preliminare accertamento materiale, la Corte di Cassazione annulla la sentenza e
sceglie tra le soluzioni che la norma consente nel caso di specie: o si effettua il rinvio «a
una corte d’assise diversa da quella che pronunziò la sentenza annullata» ovvero si
completa il giudizio di revisione in tale sede
21
. Il discrimine tra l’una e l’altra opzione è
rappresentato dall’attendibilità che offre il preliminare accertamento di merito: si «deciderà
il rinvio quando la sentenza della corte d’appello, pur non essendo tale da determinare
senz’altro il rigetto della domanda, non reca un accertamento sicuro»
22
.
La condanna irrevocabile per falsa testimonianza o reticenza, pronunciata nei confronti
di coloro che abbiano deposto nel processo de quo contro l’imputato, costituisce il
presupposto necessario e sufficiente per dare il via al giudizio di revisione. In tal caso,
dopo l’atto di iniziativa del Ministro Guardasigilli, che «incaricherà il procuratore generale
presso la Corte di Cassazione di denunciare il fatto alla medesima corte» (art. 690, 2° co.
c.p.p.), si annulla la sentenza impugnata
23
e si rimette l’accusato «avanti una corte di assise
diversa da quelle che pronunziarono sia la prima che la seconda sentenza» (art. 690, 3° co.
21
Art. 689 c.p.p.: «Allorchè, dopo una condanna per omicidio, saranno, per ordine del ministro di
grazia e giustizia, diretti alla corte di cassazione documenti presentati dopo la condanna, i quali siano di
natura tale da somministrare indizi sufficienti sull’esistenza della persona la cui supposta morte avesse dato
luogo alla condanna, la corte di cassazione potrà, prima d’ogni cosa, designare una corte d’appello, acciò
riconosca l’esistenza e l’identità della persona supposta uccisa, coll’interrogatorio di questa, coll’esame dei
testimoni, e con tutti gli altri mezzi di prova atti ad escludere il fatto che diede luogo alla condanna.[…] La
corte d’appello a cui la causa è rimandata, pronunzierà soltanto sull’identità o non identità della persona.
La sentenza sarà trasmessa cogli atti del processo alla corte di cassazione, la quale potrà, secondo i casi,
annullare la sentenza di condanna, ovvero rimandare la causa ad una corte d’assise diversa da quella che
pronunziò la sentenza annullata».
22
V. MANZINI, op. cit., pag. 827.
23
Naturalmente solo dopo che si sia verificata «la dichiarazione dei giurati su cui è emanata la seconda
sentenza» (art. 690, 3° co. c.p.p.), quella cioè con cui si è accertata la responsabilità penale dei testimoni.
c.p.p.). Nel giudizio di rinvio, «i testimoni condannati per falsa testimonianza o per
reticenza non potranno più essere sentiti nel nuovo dibattimento» (art. 691 c.p.p.).
La revisione c.d. “a futura memoria”, ammessa dal Code, è parimenti disciplinata dal
codice di rito italiano; in particolare, l’art. 692 c.p.p., ne circoscrive l’ambito di
applicazione ai soli casi di sentenze inconciliabili e di esistenza in vita della presunta
vittima di omicidio. Nulla è invece dato per ciò che riguarda la condanna intervenuta sulla
base di false testimonianze, nonostante la correzione di rotta da parte del legislatore
francese e le sollecitazioni, in tale direzione, della dottrina
24
.
4. La revisione secondo il codice di procedura penale del 1913.
Sul finire del secolo l’istituto è oggetto di accese discussioni in ambito scientifico: il
Lombroso, il Rebaudi, l’Olivieri e l’Orano denunciano in modo incisivo la terribile realtà
degli errori giudiziari e la loro particolare frequenza nel processo penale. Sulla scorta di
ciò, si manifesta in Italia un vasto movimento di pensiero che propugna l’allargamento dei
casi, nonché l’apertura alla revisione per ingiustizia parziale, estranea al codice del 1865
25
,
e delle sentenze di assoluzione.
Le domande di rinnovamento così avanzate non furono accolte dal legislatore del
1913, che «si ispirò a criteri di rigorosa tutela del giudicato»
26
e che, come lo stesso
afferma nella Relazione sul progetto preliminare del codice (pag.113), ha «seguito criteri
esclusivamente giuridici e pratici trascurando le declamazioni sofistiche o patetiche che
abbondano su questo oggetto, le quali si ispirano a concetti particolari della giustizia, non
di rado paradossali e stravaganti, o a un vano ideale di perfezione, o a un sentimentalismo
morboso, contrastante con le ineluttabili necessità della disciplina sociale».
Le istanze dottrinali, che suggerivano l’introduzione della revisione contra reum, vennero
rigettate, seppur dopo un’attenta valutazione
27
. Il legislatore ritenne di non dare seguito a
24
«Nondimeno vedesi in questa occasione dimenticato l’art. 690, e con errore, al quale invece riparò la
legge francese del 1867. Riabilitare la memoria di un estinto condannato, ogni qualvolta l’errore giudiziario
si è fatto palese, è sempre cosa consentanea a giustizia […]: col corpo non muore tutto l’individuo, ed i
parenti e gli amici dell’estinto hanno interesse a che sia cancellata su di costui la macchia, che un erronea
sentenza gli aveva improntata» (P. TUOZZI, Lineamenti, cit., pag. 512).
25
«Mentre perfino il codice di procedura napoletano ammetteva la revisione tutte le volte fosse apparsa
l’ingiustizia, sia totale sia parziale, questa non essendo meno preziosa di quella» (P. TUOZZI, Lineamenti,
cit., pag. 519).
26
G. PETRELLA, Le impugnazioni, cit., pag. 589.
27
«Fu discusso se estenderla anche alle sentenze di assoluzione; in qualche progetto parziale, rimasto
allo stato di gestazione, questa proposta aveva ottenuto favore» (L. MORTARA- U. ALOISI, Spiegazione
pratica del codice di procedura penale, UTET, Torino, 1915, pag. 520).
tali richieste, giustificando la propria posizione con principi di politica sociale: «l’azione
penale che menoma i diritti individuali e può anche rivolgersi contro un incolpevole, deve
consumarsi nel suo esercizio, e la tranquillità dei cittadini non può essere esposta
indefinitamente al pericolo di ripetizioni di procedimento, a rinnovazioni di ansie,
preoccupazioni, dolori contro i quali il giudicato deve bastare a rendere sicuri»
28
.
Parimenti, nessun seguito ebbero le sollecitazioni che auspicavano l’ammissione della
revisione parziale; in proposito si sostenne che, «ammessa la revisione anche
genericamente per la sopravvenienza o la scoperta di fatti o di nuovi elementi di prova,
che rendono evidente l’errore del giudice, se si estende anche al fine di mutare il titolo del
reato o di escludere un’aggravante, si apre l’adito ad un succedersi continuo di doglianze
che toglie all’istituto la sua fisionomia di rimedio straordinario, eccezionale, scotendo in
ogni caso l’autorità del giudicato penale. Il turbamento della coscienza pubblica […] è
quello soltanto che sorge dalla condanna dell’innocente; per ogni altro bisogna tenersi
paghi al primo esame del giudice, quando è circondato da tutte le guarentigie possibili»
29
.
Nel codice del 1913, la revisione continua ad essere un mezzo di impugnazione
ammesso soltanto in relazione a sentenze «portanti condanna penale per delitto»
30
e non
anche per contravvenzione
31
.
Modifiche furono, invece, apportate all’impianto casistico: il sistema a critica vincolata,
ereditato dalla codificazione del 1865, prevede, al fianco dell’inconciliabilità dei giudicati
(art. 538, n.1 c.p.p.), l’ipotesi delle nuove risultanze probatorie (art. 538, n.2 c.p.p.) e quella
della condanna effetto di frode o inganno alla giustizia (art. 538, n.3 c.p.p.).
Da un punto di vista sostanziale, il complesso dispositivo si presenta, quindi,
decisamente differente rispetto a quanto stabilito dal codice previgente. Ciononostante, da
un’analisi comparata delle norme, si manifesta un chiaro rapporto di derivazione delle
ultime rispetto alle prime.
28
Relazione a S.M. il Re del Ministro Guardasigilli Finocchiaro-Aprile, pag. 75; G. P. AUGENTI, Lineamenti del
processo, cit., pag. 22, si rifà invece a principi di diritto comune: «Era criterio empio quello di mantenere
l’assolto sotto una continua spada di Damocle e mentre Bartolo ed altri giuristi si erano richiamati
all’autorità della cosa giudicata, i giuristi dell’800 si richiamavano, forse inavvertitamente, al fatto che il
giudicato poiché attribuisce un bene della vita, a nessuno è dato toccarlo».
29
Relazione a S.M. il Re del Ministro Guardasigilli Finocchiaro-Aprile, pag. 75.
30
V. MANZINI, Istituzioni di diritto processuale penale, F.lli Bocca, Torino, 1917, pag. 297.
31
«Queste condanne non gettano luce sinistra sulla fama del condannato, il quale non ha lo stesso
interesse a far proclamare la propria innocenza nel fine di una piena riabilitazione; né per l’errore
giudiziario verificatosi eventualmente in simili condanne sorge allarme sociale che esiga soddisfazione
solenne» (così L. MORTARA – U. ALOISI, Spiegazione pratica, cit., pag. 521).
Ciò appare sufficientemente evidente in merito all’ipotesi, prevista dall’art. 538, n. 1
c.p.p., la quale rappresenta il risultato dell’evoluzione legislativa dell’art 688, c.p.p. 1865. Il
contrasto di giudicati rileva ora sul piano della revisione, ogniqualvolta «i fatti stabiliti a
fondamento della condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in altra sentenza
penale irrevocabile»: viene meno, in altri termini, quel limite, alla stregua del quale il
contrasto tra giudicati si riteneva sussistente solo «quando due persone saranno state
condannate per uno stesso crimine» (art. 688, 1° co. c.p.p. 1865); la nuova legislazione prende,
dunque, in considerazione il conflitto teorico tout court, che, a prescindere dalla pluralità
soggettiva rispetto all’identità oggettiva, si configura quale presupposto della revisione.
Condizione indispensabile è, naturalmente, il passaggio in giudicato anche della
seconda sentenza, allo scopo di assicurare un accertamento ponderato. A tal proposito, la
locuzione «altra sentenza penale irrevocabile» esclude le sentenze contumaciali revocabili,
pronunciate in un giudizio che ha luogo con minori garanzie dell’imputato e senza prove a
sua discolpa
32
.
La revisione è ammessa altresì nell’ipotesi in cui, dopo il passaggio in giudicato di una
sentenza di condanna, «sopravvengano o si scoprano fatti, o nuovi elementi di prova, che,
soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento rendano evidente che il fatto non
sussiste, ovvero che il condannato non lo ha commesso e non vi ha concorso» (art. 538,
n.2 c.p.p.).
A ben vedere, anche in questo caso, si assiste allo sviluppo della previgente fattispecie.
La dottrina appare, infatti, concorde nel ritenere che tale integrazione probatoria possa
consistere nella dimostrazione della esistenza in vita della presunta vittima di un
omicidio
33
, sicché non è errato affermare che, mentre il codice di rito penale del 1865 si
limitasse a disciplinare una species, la nuova normativa prende in considerazione l’intero
genus. L’errore giudiziario può, infatti, essere il risultato di una piattaforma probatoria, le
cui fondamenta vengano successivamente minate
34
.
32
M. PINTO, Procedura penale, Soc. Ed. Libraria, Milano, 1914, pag. 349.
33
M. PINTO, op. cit., pag. 350; L. MORTARA – U. ALOISI, Spiegazione pratica, cit., pag. 525.
34
Di tale avviso è lo stesso legislatore, che afferma: «Onde non solo l’esistenza della persona supposta
uccisa, ma il rinvenimento degli oggetti ritenuti rubati, l’esistenza di un atto o di un documento, che si
credeva sottratto o soppresso, sono tutte circostanze le quali dimostrano che il reato, per cui fu
pronunziata la condanna, non è stato commesso» (Relazione del codice di procedura penale presentata dalla
Sottocommissione al Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti, Volume Quinto, Libri III e IV, Roma, 1904, pag.
195).
L’analisi letterale della norma evidenzia una rilevante ampiezza della fattispecie, che
consente al condannato di addurre non solo «fatti» ma anche «nuovi elementi di prova».
La genericità della locuzione, che permette di abbracciare tutto ciò che si avvera
successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, senza frapporre
alcun ostacolo al riconoscimento della verità, risulta, tuttavia, bilanciata dall’effetto che
deve derivare dall’integrazione probatoria: «l’evidenza, cioè che distrugga l’oggettività del
reato»
35
.
La falsa testimonianza, infine, che nel codice previgente costituiva autonomo motivo di
impugnazione, è prevista nella legislazione del ’13 come uno dei fenomeni in cui si può
manifestare la frode o l’inganno alla giustizia. A norma dell’art. 538, n. 3 c.p.p., la
revisione è, infatti, ammessa se la condanna «fu effetto di falsità in atti o in giudizio o di
corruzione di giudice», che si verifica in ogni caso di frode giudiziale concernente
documenti, periti, interpreti, giudice, nonché testimoni.
La prova di tali circostanze può essere fornita in due modi: o si produce la sentenza
irrevocabile di condanna (art. 542, 1° co. c.p.p.), ovvero, se l’azione per tali reati sia
prescritta o altrimenti estinta, è sufficiente che i fatti addotti siano «verosimili e gravi»,
affinché la Corte di Cassazione assuma altre prove relative ai menzionati reati (art. 542, 2°
co. c.p.p.).
Al pari di quanto disposto dall’art. 538, n.2 c.p.p., il giudizio di revisione deve giungere
anche in questo caso a dimostrare l’innocenza del condannato poiché questi non ha
commesso il fatto, né vi ha concorso, ovvero perché il fatto non sussiste.
5. (segue): il procedimento.
La legittimazione soggettiva è attribuita direttamente al condannato, o a un suo
prossimo congiunto, ovvero al tutore e, in caso di “revisione a futura memoria”, all’erede
o a un suo prossimo congiunto (art. 539, n.1 c.p.p.), nonché al procuratore generale
«presso la Corte di Appello nel cui distretto fu pronunciata la condanna» e della Corte di
Cassazione, mentre al Ministro della Giustizia è riconosciuto un semplice potere di
sollecitazione (art. 539, n.2 c.p.p.).
Secondo uno schema ormai collaudato nel codice previgente e riproposto in seguito
nella codificazione del ’30, il procedimento di revisione si snoda in un preliminare giudizio
35
M. PINTO, op. cit., pag. 350.
rescindente della Corte di Cassazione, diretto all’annullamento della sentenza, e in un
successivo giudizio rescissorio, volto a sostituire la sentenza impugnata.
A differenza della normativa previgente, dove non vi era spazio alcuno per la
riparazione morale e materiale dei danni da parte dello Stato
36
, il codice del 1913
riconosce, invece, un simile diritto in base ad un vincolo di solidarietà sociale
37
, che impone
l’affissione del sunto della sentenza «nel comune in cui è stata pronunciata e in quello di
attuale o di ultima residenza della persona prosciolta» (art. 550 c.p.p.). Oltre a ciò, è
previsto anche un risarcimento dei danni materiali subiti a causa dell’errore giudiziario; a
norma dell’art. 551 c.p.p., l’imputato, la cui innocenza sia stata riconosciuta nel giudizio di
revisione, «può ottenere una riparazione pecuniaria a titolo di soccorso, qualora sia
riconosciuto che per le sue condizioni economiche ne abbia bisogno». Tale diritto
sussiste, tuttavia, in presenza delle condizioni espressamente indicate dalla legge. In
particolare, è necessario aver subito una pena restrittiva della libertà personale di tre o più
anni ed inoltre, a) deve essere stata avanzata un’istanza all’uopo, non più tardi di tre mesi
dall’affissione di cui all’art. 550 c.p.p.; b) il richiedente non deve aver riportato altre due
condanne alla reclusione e non deve aver dato causa all’errore con dolo o colpa grave; d)
l’assoluzione nel giudizio di revisione non deve essere stata pronunciata per insufficienza
di prove.
La suddetta riparazione pecuniaria spetta, «se l’imputato muore dopo l’assoluzione»,
anche agli ascendenti, al coniuge, ai discendenti che siano minori di età, o incapaci per
infermità di mente o di corpo a provvedere al proprio sostentamento. Anche in questo
caso, è necessario che il risarcimento sia giustificato dalle loro condizioni economiche e
che la domanda sia presentata entro il termine anzidetto.
36
L’ex-condannato avrà in ogni caso il diritto di esercitare in sede civile l’azione per il risarcimento del
danno contro chi fu causa della sua ingiusta condanna, fatta eccezione per il giudice e il p.m., che non
abbiano agito con dolo.
37
Così nella Relazione ministeriale del 1905, pagg. 704-705.
6. La codificazione del ’30.
Nel codice di rito penale del 1930, la revisione è disciplinata da un regime normativo,
che, originariamente fissato dal R.D. 19 ottobre 1930, n.1399
38
, viene successivamente
definito dalla l. 14 maggio 1965, n.481, con la quale si introducono rilevanti modifiche.
Rispetto alla legislazione del ’13, si registra una cauta apertura nell’ambito dei
presupposti oggettivi dell’istituto. Il riesame della sentenza di condanna, limitato dal
codice del 1913 ai soli delitti, viene, infatti, esteso alle contravenzioni, in ragione di una
mutata sensibilità giuridica, in ordine alla quale si attenua la convinzione, avanzata in
precedenza dalla dottrina, secondo cui l’erroneo accertamento circa questa specie di reato
non sia tale da compromettere l’onore di una persona e da giustificare, conseguentemente,
la rivedibilità del giudicato.
La revisione non costituisce, comunque, un rimedio generalmente applicabile avverso
tali sentenze: la lettera della norma circoscrive tale possibilità ai soli casi in cui, in
conseguenza della decisione, «il condannato (sia) stato dichiarato contravventore abituale
o professionale» (art. 553, n. 2 c.p.p.)
39
. Un limite, questo, successivamente rimosso da
una pronuncia della Corte Costituzionale
40
, che ne ha sancito il contrasto con il principio
di eguaglianza (art. 3 Cost.), a causa del «pregiudizio non solo alla libertà e al patrimonio,
ma anche alla onorabilità e alla dignità morale e sociale dei soggetti», che deriva comunque
da una sentenza di condanna
41
.
Nonostante il clima di inquietudine e la ricerca di garanzie nella rejudicata
42
, la nuova
codificazione si apre timidamente ad un allargamento delle condizioni di ammissibilità
della revisione, fermo restando che l’impianto casistico risulta decisamente influenzato
dalla normativa previgente, numerose disposizioni della quale sono recepite in modo
letterale.
38
Decreto di approvazione del testo definitivo del codice di procedura penale.
39
Tale restrizione è stata «accolta nel c.p.p. del 1930 sul presupposto che la minore gravità di questi
reati rispetti ai delitti non facesse sorgere, in caso di errore giudiziario, un interesse del singolo sufficiente
al riconoscimento della propria innocenza» (A. PRESUTTI, voce Revisione del processo penale, in Enc. Giur.,
Treccani, Roma, vol. XXVII, 1991, pag. 2).
40
Corte Cost., 5 marzo 1969, n. 28, in Giur. Cost., pag. 384.
41
«La restrizione contenuta nella norma impugnata, in danno della parte più numerosa dei condannati
predetti, appare evidentemente non sorretta da motivi razionali e logicamente rispondenti ad una obiettiva
diversità di situazioni», (Corte Cost., 5 marzo 1969, n. 28, cit., pag. 395).
42
«Vi era stata di mezzo la guerra 1915-18 e gli eventi successivi dopo sbandamenti e ribellioni avevano
fatto sorgere un bisogno di ordine, di quiete. Più che la verità ad ogni costo, si preferiva magari la quiete
degli errori, anzi si temevano i pericoli della verità» (G.P. AUGENTI, Lineamenti del processo, cit., pag. 23).
Così è per il conflitto teorico di giudicati (art. 554, n.1 c.p.p.), che rileva nel momento
in cui «i fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna non possono conciliarsi
con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile».
Pur non potendosi prospettare un numerus clausus, la dottrina è solita individuare, in via
puramente esemplificativa, una serie di situazioni, astrattamente riconducibili alla
fattispecie in esame. Si contemplano, pertanto, le ipotesi di due sentenze di condanna per
lo stesso fatto, a carico di persone diverse e fuori dal caso di una loro compartecipazione;
di due sentenze relative ad un medesimo fatto commesso da più persone in concorso tra
loro, quando la sussistenza del fatto venga contemporaneamente negata e affermata; di
condanne a carico della stessa persona per fatti tra loro inconciliabili, in quanto accertati
come veri in un caso (ad es.: accertamento effettuato sulla scorta di una confessione) e
come falsi in un altro (ad es.: l’imputato è stato riconosciuto colpevole di autocalunnia
rispetto al fatto cui si riferisce la precedente condanna) ovvero per reati attribuiti ad una
medesima persona secondo circostanze di tempo e di luogo inconciliabili.
Ipotesi distinta è, invece, quella del contrasto tra sentenze di condanna per un
medesimo fatto attribuito alla stessa persona: in questo caso, trattandosi di conflitto
pratico di giudicati, si è fuori dell’ambito della revisione. Lo strumento concesso per
rimuovere tale incongruenza è disciplinato nell’art. 579 c.p.p. (collocato al di fuori del
libro sulle impugnazioni), che segue il criterio dell’automatica prevalenza della sentenza
più favorevole.
La vera novità del codice, relativamente alla revisione, consiste nella introduzione
dell’inconciliabilità della sentenza penale rispetto a quella civile o amministrativa «poscia
revocata che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali prevedute dagli art. 19 e 20»
(art. 554, n.2 c.p.p.). Mentre il legislatore del ’13 aveva abbandonato dall’inizio l’idea di
contemplare simile ipotesi
43
, sostenuto anche da una parte della dottrina
44
, il guardasigilli
Rocco appare di tutt’altra opinione: «dato che queste sentenze non penali hanno autorità
di giudicato nel giudizio penale, e che decidono controversie dalle quali dipende
43
«Una modificazione importante è costituita dall’esclusione della revisione nel caso di inconciliabilità
della sentenza penale con una sentenza civile» fattispecie invece prevista nel progetto del 1905 (Relazione a
S.M. il Re del Ministro Guardasigilli Finocchiaro-Aprile, pag. 76).
44
«E’ manifesto […] che il far derivare da una sentenza civile il motivo di ritrattazione o invalidazione
di una sentenza penale divenuta irrevocabile contenga grave pericolo di sacrificare la verità reale alla verità
formale» (L. MORTARA – U. ALOISI, Spiegazione pratica, cit. pag. 523).
l’esistenza del reato, è naturale che, se vengono revocate, sia ammessa la revisione del
giudicato penale, essendo crollata la base su cui si fondavano»
45
.
La ratio della fattispecie si presenta a questo punto sufficientemente chiara: è necessario
garantire alla collettività la coerenza dell’intero ordinamento giudiziario. Il riesame della
sentenza di condanna deve, quindi, essere ammesso ogniqualvolta vengano a mutare i
presupposti, quali che essi siano, su cui riposa la pronuncia del giudice penale.
La casistica, delineata dal codice, si conclude con le fattispecie, già note, dell’emergenza
probatoria e del falso in atti o in giudizio.
Per quanto riguarda la sopravvenienza o scoperta di nuovi fatti o elementi di prova, il
legislatore ha sostanzialmente mantenuto le posizioni della precedente codificazione; ci si
riferisce, in special modo, alla particolare rilevanza dell’integrazione probatoria, che
giustifica l’iniziativa di revisione: ai fini dell’ammissibilità, prima, e dell’accoglimento, poi,
dell’istanza di revisione è infatti necessario che le nuove risultanze rendano «evidente»
(art. 554, n.3 c.p.p.) l’estraneità
46
del condannato rispetto al fatto contestato.
L’art. 554 c.p.p., termina (almeno nell’originaria formulazione del codice) con la
previsione della frode giudiziale quale presupposto della revisione. Rispetto alla fattispecie
precedentemente vigente
47
(art. 538, n. 3 c.p.p. 1913), il riesame del giudicato è ammesso,
oltre che nei casi di «falsità in atti o in giudizio», anche nell’ipotesi in cui la condanna sia
stata pronunciata in conseguenza di qualunque «altro fatto preveduto dalla legge come
reato» (art. 554, n.4 c.p.p.). Tale modifica ha reso «la norma particolarmente elastica e,
comunque, di portata molto più ampia della corrispondente norma del codice del 1913
che, oltre i casi di falsità in atti e in giudizio, prevedeva soltanto l’ipotesi che la condanna
fosse effetto di corruzione del giudice»
48
.
Come si deduce dalla lettera della previsione, ai fini dell’accoglimento dell’istanza è
necessario che la sentenza di condanna sia stata la conseguenza di un fatto-reato,
eventualità che si verifica, non solo nel caso di «conseguenza esclusiva, essendo sufficiente
che la falsità o il fatto delittuoso abbia solo concorso ad influire sulla decisione»
49
.
Discorso a parte deve farsi, invece, per l’ipotesi dell’omicida condannato con sentenza
passata in giudicato, ammesso alla revisione allorché sopravvengano o si scoprano nuovi
45
Relazione sul progetto preliminare, pag. 114.
46
Circa il significato da attribuire a tale termine, vd. infra nel paragrafo.
47
Vd. retro par. 4.
48
U. PIOLETTI, voce Revisione, cit., pag. 426.
49
G. LEONE, Lineamenti di diritto processuale penale, Jovene, Napoli, 1954, pag. 397.