identificazione della dinamica alla base del sistema istituzionale del Paese, per vedere,
sulla base delle definizioni raggiunte, se vi sia una possibilità concreta di evoluzione
della Repubblica “delle autonomie”.
CAPITOLO I
L’ART. 5 COST. E IL REGIONALISMO NEI LAVORI
PREPARATORI DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE
SOMMARIO: 1. Le idee iniziali e le loro origini. – 2. La necessità di un cambiamento. Verso un sistema
regionale. - 3. Autonomia, separatismo e federalismo in Italia prima della Costituente. - 4. Federalismo e
autonomie dalle proposte dei partiti politici all’inizio dei lavori dell’Assemblea Costituente. - 5. Le tesi
federaliste e regionaliste negli interventi e nelle relazioni all’Assemblea Costituente. - 6. Dalla relazione
Ambrosini al compromesso del dicembre 1947. - 7. Il cambiamento della Regione attraverso la
costrizione della sua autonomia. - 8. Le definizioni emergenti. - 9. La «Repubblica una e indivisibile».
L’origine dell’art. 5 Cost.
1. Le idee iniziali e le loro origini
Un punto di partenza necessario, e per certi versi obbligato, per comprendere le radici e
le motivazioni delle scelte effettuate in sede d’Assemblea Costituente che hanno
consigliato di optare per un modello regionale di “compromesso” nella redazione della
Costituzione, è sicuramente l’analisi delle tendenze e dei presupposti teorici e politici da
cui partirono gli estensori così come si possono riscontrare nei lavori Assembleari1.
Nonostante le preclusioni da parte di una netta minoranza al cambiamento del vigente
assetto organizzativo statale di tipo binario2, preponderante fu l’intenzione e la volontà
1
In questa sede l’analisi verrà volutamente limitata all’osservazione dell’origine delle disposizioni
costituzionali in questione e alle ragioni da cui scaturirono, senza inoltrarsi nell’analisi dottrinale e
giurisprudenziale del contenuto dei singoli articoli e delle loro interpretazioni offerte dalla dottrina e
dalla giurisprudenza italiana che saranno oggetto di trattazione successiva. Per chiarezza
dell’esposizione le articolazioni dell’Assemblea Costituente verranno nel proseguo così indicate nelle
note successive: la II Sottocommissione con la sigla II Scc, la Commissione detta “dei 75” con la sigla
Comm, l’Assemblea con la sigla Ass. Cost.
2
Il sistema binario costituisce una delle modalità di organizzazione dell’amministrazione statale
caratterizzata dalla compresenza nel medesimo territorio di uffici d’istituzione statale e di autonoma
organizzazione locale, mediante i quali lo Stato continuava ad essere un Paese di matrice liberale
classica e manteneva i controlli sulle aree del territorio. È la soluzione che venne adottata nel 1865 in
alternativa al progetto Minghetti, che proponeva tutt’altra opzione. Si pervenne così ad un risultato in
linea con le istanze conservatrici del tempo al problema dell’unificazione amministrativa italiana.
Questa soluzione venne adottata attraverso l’estensione della legge Rattazzi, (R. D. n. 3702/1859), a
tutto il territorio nazionale nel 1865.
Cfr. M. S. GIANNINI, Le Regioni: rettificazioni e prospettive, in E. ROTELLI, Dal regionalismo alla Regione,
Bologna, 1973, p. 186 ss. Per l’organizzazione dell’assetto amministrativo italiano prima e dopo il 1865 e
anche per i profili storici, cfr. R. ROMANELLI, Storia dello Stato Italiano dall’unità ad oggi, Roma, 1995, p.
126 ss. Cfr. L. PALADIN, Diritto regionale, Padova, 2000, p. 3 ss.
di arrivare ad un rinnovamento della struttura dello Stato, intento diversamente
prospettato in forza della pluralità delle correnti politiche che componevano le
articolazioni dell’Assemblea Costituente3 e differentemente supportato dalle singole
ragioni di cui gli Onorevoli eletti erano territorialmente rappresentanti, ma
teleologicamente diretto ad una sola esigenza, la necessità del cambiamento rispetto al
modello precedente.
La proposta di creazione di enti regionali che emerse nei lavori preparatori, sicuramente
non fu una novità nel panorama politico italiano, ed esaminando le stesse relazioni si
può notare la radice storica in base alla quale venne sistematicamente sostenuta
l’opportunità della creazione di tali nuovi soggetti istituzionali. Si deve chiarire però che
l’esigenza, all’epoca della Costituente, non fu quella di riconoscimento di storicismi o
tradizioni territoriali4, ma ovviare ai mali del burocraticismo e centralismo frutto
dell’organizzazione statale del fascismo e la necessità di risollevare un Paese distrutto
dal secondo conflitto mondiale.
La trattazione di questa prima parte porterà all’analisi dei risultati che la II
Sottocommissione della Costituente e la Commissione elaborarono sino
all’approvazione del testo finale e il percorso di svilimento del concetto di autonomia
che sarà proprio del nuovo ente regionale.
3
L’Assemblea Costituente per procedere più celermente nei lavori di redazione dei primi progetti di
Carta Costituzionale si suddivise e articolò in altre strutture incaricate della trattazione di singole parti
della futura Costituzione. L’Assemblea, eletta il 2 giugno 1946 e riunitasi per la prima seduta il 25
giugno 1946, il 15 luglio 1946 deliberò l’istituzione di una Commissione, detta anche “dei
settantacinque”, con l’incarico di redigere il primo progetto di Costituzione. Il successivo 23 luglio
1946 la Commissione decise di articolarsi in tre Sottocommissioni e nei giorni successivi vennero
assegnati gli argomenti di discussione e nominati i Presidenti. Di nostro particolare interesse è la II
Sottocommissione incaricata dei lavori sulle questioni di organizzazione costituzionale dello Stato, in
cui venne nominato quale Presidente Umberto Terracini. Il 28 e il 29 novembre 1946, previo assenso
della Commissione, la II Sottocommissione decise di articolarsi in due Sezioni: alla prima si affidò la
discussione sul potere esecutivo (Capo dello Stato, Governo, formazione di Consigli o Comitati e
revisione della Costituzione), mentre alla seconda spettò la trattazione delle questioni sul potere
giudiziario e sulla Corte Costituzionale.
4
Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, art. 131, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, A.
PIZZORUSSO, Bologna-Roma, 1990, p. 68 ss. L’Autore descrive i diversi criteri che si presero in
considerazione in sede Costituente riguardo la questione dell’estensione territoriale regionale. I
parametri proposti furono quello “storico”, “geografico” e “funzionale”. Il criterio storico ossia basato
su una identità regionale fondata su comuni radici e tradizioni era criticato da alcuni Costituenti per la
sua arbitrarietà, per cui non poteva definire e modellare la ripartizione territoriale. Nelle tesi funzionali
si concretizzava l’idea di una Regione capace di essere autosufficiente e di avere potenzialità
economiche per la gestione delle proprie attribuzioni. Successivamente venne ad affermarsi un criterio
non fondato su parametri obiettivi, ma su ragioni “politiche” in quanto il Costituente sembrò spinto da
un disegno politico compromissorio. Per quanto riguarda il criterio “statistico”, per l’individuazione
delle regioni storiche, introdotto dall’On. Targetti vedi p. 84. Su questa questione vedi anche, E.
ROTELLI, L’avvento, cit., pp. 296 – 297.
Pur arrivando ad un risultato di compromesso, dev’essere ben chiaro che, vere istanze di
pluralismo territoriale e autonomistico emersero prima e dopo i lavori della Costituente,
nelle forme sia del federalismo, sia del regionalismo nel senso più lato dell’accezione;
ma per coglierle e portarle nel corso di tutta l’intera evoluzione dell’assetto regionale
italiano fino ad oggi, occorre partire dalle singole tesi proposte prima del voto finale sul
testo definitivo del 1947.
Fu così che in Assemblea e negli scritti di alcuni Padri Costituenti si rievocarono le
istanze regionali e territoriali che si possono tutt’oggi leggere nelle opere del Cattaneo,
del Mazzini5, e in tutta la corrente liberale a loro coeva, in quanto proprio nell’idea
liberale trovò origine l’idea regionalista: sia nella liberale cosiddetta “pura” sia in quella
denominata “democratica”6.
Per chiarire come le istanze di autonomia non apparvero per la prima volta in sede di
redazione della Carta costituzionale, è necessario evidenziare come le proposte in II
Sottocommissione ed in Commissione risultarono essere il frutto di un’attività di
recupero di vecchie idee adattate a nuove esigenze7. Ci si rende ben conto come queste
idee furono, in parte, le linee da cui prese corpo il progetto di sistema regionale nei
5
Cfr. G. AMBROSINI, Relazione alla Seconda Sottocommissione, II Scc, Seduta del 13 novembre 1946, p.
137 ss., dove richiama i precedenti storici delle istanze di autonomia.
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, dalla caduta del regime fascista alla Costituzione
Repubblicana. (1943-47), Milano, 1967. In questo si trovano i riferimenti degli eletti alla Costituente
sia nei discorsi Assembleari, sia nei loro scritti, ad autori precedenti quali i citati Cattaneo e Mazzini,
p. 98, per R. Lombardi, T. Perassi p. 117, O. Zuccarini p. 233, Partito Repubblicano p. 122.
6
Cfr. M. S. GIANNINI, Le Regioni, cit., p. 179 ss. Le concezioni liberali riguardano rispettivamente:
quella definita “pura”, una concezione di ente Regione in ottica prettamente garantista dei poteri
locali; quella detta “democratica” tendeva, invece, all’inclusione dei soggetti della collettività alla
formazione partecipata dell’indirizzo politico - amministrativo e si sviluppò a partire dal 1700 in
epoca più tarda rispetto alla liberale “pura”, che pose le sue basi nel comportamento della borghesia in
campo politico.
7
Quale esempio d’istanza di autonomia si può osservare il progetto, datato 1865, di organizzazione
dello Stato, più noto come progetto Minghetti, il quale pose un’assegnazione dei pubblici poteri in
scarsa quantità alla Stato centrale (rapporti internazionali, difesa, giustizia, unificazione di
legislazione e di indirizzo amministrativo), ripartendo la maggioranza delle funzioni pubbliche tra
Comuni e Regioni sotto un necessario controllo statale che doveva mantenere l’unità normativa. Con
il fallimento del progetto Minghetti e la sistemazione dell’organizzazione amministrativa italiana nel
1865 sull’onda del conservatorismo e dell’accentramento burocratico, emersero già alla fine del
secolo i difetti di tale soluzione e si ricominciò a parlare di enti regionali e autonomie territoriali anche
sotto profili diversi. Ci fu chi propose la Regione quale soluzione all’incapacità della Provincia, o
quale strumento statale di decentramento della burocrazia o chi, come Sonnino, chiese di optare per
una legislazione differenziata a seconda delle particolarità regionali. Tali istanze vennero represse fino
al primo conflitto mondiale dall’allarme che tali idee suscitarono quali attentati all’unità appena
raggiunta, ed aumenti degli squilibri tra nord e sud del Paese. Cfr. M. S. GIANNINI, Le Regioni, cit., p.
184, 185. Per il progetto di legge del Ministro degli Interni del governo Cavour On. Minghetti del
marzo 1861, cfr. R. ROMANELLI, Storia dello Stato Italiano dall’unità ad oggi, Roma, 1995, pp. 132-
133.
lavori preparatori della Costituzione, leggendo i primi passi della relazione dell’On.
Ambrosini alla II Sottocommissione. L’insigne giurista introdusse il discorso sulla
necessità di addivenire alla scelta regionalista con una premessa storica8 sulle più
famose istanze di regionalismo e autonomismo della storia politica italiana citando
Mazzini, il progetto Minghetti, il Saredo, le leggi per le terre redente. Ambrosini pose
l’incipit del passo in cui chiarì l’esigenza di un cambiamento dell’assetto statale in un
regionalismo, proprio citando Mazzini: «I motivi fondamentali che militano in favore
dell’idea regionalista restano in sostanza quelli che Mazzini enunciò sinteticamente nel
1861: ovviare ai danni dell’accentramento che rende la vita pubblica intricatissima e
lenta…e potenziare d’altra parte le unità secondarie, cioè le energie locali».
2. La necessità di un cambiamento. Verso un sistema regionale
Le istanze richiamate per corroborare un’effettiva mutazione dell’assetto statale,
palesarono la necessità di porre un rimedio alle cadute istituzionali e alle dissoluzioni
delle garanzie democratiche a cui giunse l’amministrazione centralizzata fascista9 e alle
esigenze tipiche di alcuni ambiti territoriali del Paese.
La volontà di riorganizzazione rispetto alle scelte, imposte dal fascismo, all’assetto
amministrativo, venne dallo slancio primario per prospettare un cambiamento10. Il
8
Cfr. G. AMBROSINI, Relazione, cit., in II Scc, Seduta del 13 novembre 1946.
9
Quando si parla di amministrazione centralizzata fascista si intende il continuum del precedente
sistema binario vigente dalle leggi di unificazione amministrativa del 1865, in cui permaneva sugli
enti locali uno stretto controllo dello Stato attraverso l’autorità prefettizia, con poteri di direzione e
scioglimento degli organi locali per gravi esigenze. Quindi, questi enti erano autonomi solo in via
definitoria, in quanto mancavano alcune delle caratteristiche proprie del potere autonomo, ossia il
perseguire fini propri, con mezzi di provenienza interna e con poteri esclusivi. Il governo fascista,
invece, sostanzialmente affidò gli stessi fini dello Stato agli enti locali che si ritrovarono spesso a
condividere gli stessi obiettivi e poteri tra di loro (Province e Comuni), e mantennero ampi ambiti
d’ingerenza. Lo slancio verso il cambiamento, necessario per mutare l’assetto esistente nel 1945, si
indirizzò o verso la differenziazione delle funzioni tra i soggetti già esistenti rendendole proprie degli
stessi, o attraverso la creazione di un organismo nuovo di vera autonomia ossia la Regione. Cfr. E.
ROTELLI, L’avvento, cit., p. 85 ss.
10
Il peso che assunse a metà degli anni Quaranta il concetto di Ente locale era dato dal fatto che in
raffronto alla lentezza della burocrazia centrale, le poche strutture locali e decentrate diedero prova di
funzionare ampiamente, grazie anche al merito della maggiore incidenza di indirizzi politici discostanti da
quello di Roma nelle zone più delocalizzate. Infatti presero molte rappresentanze municipali i partiti sia
socialisti sia popolari, e fecero ben capire che le istituzioni locali potevano funzionare con efficienza,
maggiormente e a prescindere, dal confronto con il potere statale. Giannini parlò di: «gelosia della
burocrazia statale nei confronti delle organizzazioni comunali». Cfr. M. S. GIANNINI, Le Regioni, cit., p.
189. Per una critica al precedente assetto centralizzato dell’amministrazione fascista, e l’esigenza di un
recupero di democraticità tramite il riassetto territoriale e delle autonomie, cfr. LUSSU, Atti della II Scc,
seduta del 27 luglio 1947, p. 15 ss. Cfr. altresì A. AMORTH, La Costituzione italiana, Milano, 1948, p. 3 ss.
governo fascista avversò totalmente qualsiasi istanza mirante al riconoscimento di enti
sia autarchici, sia autonomi, cercò di prevenire istanze avverse all’orientamento politico
di Roma eliminando quelle poche strutture delocalizzate come i Commissariati Civili di
Trieste, Trento e Zara, sèguito di uno sparuto riconoscimento di esigenza locale per le
terre redente e li sostituì con autorità prefettizie di nomina centrale per attuare un
maggiore controllo. Ma se l’accentramento totale diede un riscontro negativo già nel
1865 con il sistema di unificazione amministrativa, in un panorama in cui le funzioni
statali erano relativamente poche, il risultato di un totale controllo e centralismo, in
un’epoca successiva in cui le esigenze aumentarono, chiaramente causò rallentamenti
totali della macchina burocratica.
Ma la critica al fascismo, al fine di supportare la tesi autonomica nel senso più lato del
termine, emerse anche nell’ottica di una necessità di porre un rimedio a quel deficit di
democraticità a livello locale.
L’On. Lussu11 più volte, nei suoi interventi di promuovimento di una struttura
ampiamente federale dello Stato, corroborò le sue tesi con l’esigenza di dare
rappresentanza effettiva e attuazione al principio democratico proprio riconoscendo
potere legislativo e autonomia alle strutture regionali e premettendo ad un suo
intervento che, quella in questione, prima che una riforma tecnica, dovesse essere una
riorganizzazione democratica dello Stato. A questa concezione venne ad affiancarsi
anche l’On. Conti che seguì in parte il concetto dell’On. Lussu parlando di autonomia al
fine della creazione della democrazia12. Per esigenze di chiarezza bisogna notare che ci
fu pure chi, rispetto all’esigenza di voltare pagina contro la passata esperienza del
regime, non vide nella nuova ipotetica struttura regionale-federale una soluzione al
problema: tra questi l’On. Nobile13, che parlò, in riferimento alle esigenze d’autonomia
11
Cfr. LUSSU, Atti della II Scc, seduta del 27 luglio 1947, p. 15 ss., che definì il federalismo quale antidoto
ai mali che portarono il Paese alla dittatura e all’assetto vigente e quale aspirazione dell’Italia ad una
radicale trasformazione. Ben presto il Lussu si accorse della difficoltà, per la sua tesi di Stato prettamente
federale, di prendere assensi in II Scc. e accettò le forme più affievolite di autonomia, aderendo, ma pur
sempre proclamandosi federalista, alle tesi regionaliste dell’Ambrosini e accettando la soluzione da
quest’ultimo proposta nella sua relazione al termine dei lavori del “Comitato dei dieci”. Per le teorie del
Lussu, cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., p. 217 ss.
12
Cfr. On. CONTI, Atti della II Scc, seduta del 29 luglio 1946, p. 26 ss., che introdusse la necessità, per
ovviare al sistema delle oligarchie istituzionali al tempo vigente, di creazione della democrazia
trasformando l’organizzazione dello Stato e rendendo partecipe il popolo italiano. Citò il collega
Einaudi quando disse che: «La democrazia si crea con la molteplicità delle assemblee nella vita del
Paese». Per Conti quindi il difetto maggiore fu questo deficit di democraticità a vantaggio
dell’oligarchismo dei burocrati statali e la Regione sembrò essere, a suo avviso, la soluzione migliore.
13 Cfr. Atti della II Scc, seduta del 30 luglio 1946, p. 39.
come reazioni transitorie alla crisi, criticando coloro che vedevano nei regionalismi la
panacea per la situazione deficitaria del Paese e definì gli “ismi” come: «malanni di una
guerra persa e frutto di individualismi ed egoismi», che avrebbero creato la sostituzione
di una oligarchia con una pluralità di oligarchie e suggerì assemblee regionali a carattere
puramente consultivo per il Governo.
Pur se presenti opinioni contrarie, la spinta data dalla necessità rilevante di cambiamenti
fu un propulsore rilevante della scelta finale per la creazione dell’ente Regione. Le
tendenze e le diverse opinioni, nonché i modi in cui attuare le diverse proposte di
cambiamento dell’assetto statale verranno successivamente analizzate all’interno del più
ampio discorso riguardante le scelte in Assemblea Costituente.
3. Autonomia, separatismo e federalismo in Italia prima della Costituente
Certamente le scelte che si effettueranno in sede Costituente, ebbero origine in tempi
precedenti l’elezione dell’Assemblea e ad esse non furono indifferenti pure alcuni
esempi stranieri di assetti regionali e federali di Stati vicini alla realtà italiana.
Tralasciando per il momento gli assetti organizzativi di Stati Uniti d’America, Svizzera
e Germania nell’assetto della passata Repubblica di Weimar e della Repubblica
Spagnola del 193114, che emersero quali figure da imitare o da cui trarre spunto in sede
di discussione assembleare tra il 1946 e il 1947, vennero utilizzati alcuni tentativi di
strutturazione statale adottati in Europa per creare nuove proposte per il futuro Stato
italiano. Modelli di creazione di forme di regionalismi si ebbero sia in Gran Bretagna15
14
Vedi infra, § 6, per le tesi di Ambrosini.
15
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., p. 3 ss., che in relazione all’esperienza britannica parla di:
«esperienza accidentale e con portata al quanto ristretta » In Gran Bretagna tra il 1939 e il 1940 si
pervenne ad una frammentazione di carattere regionale del territorio con la preposizione ad esse di
Commissari Regionali, ma si deve evitare di intendere tali istituzioni quali manifestazioni di volontà
autonomiche o di passate tradizioni locali nel Paese. Sia la causa, sia il fine di tale frammentazione
territoriale furono di gran lunga diversa da ciò che avvenne nel nostro Paese. Infatti vennero istituite
solo a causa delle paure ingenerate dalle sorti del conflitto mondiale; i continui bombardamenti
dell’Isola e l’incalzante preoccupazione di un’invasione tedesca, portarono Londra alla
delocalizzazione di funzioni amministrative onde prevenire futuri disguidi dovuti all’interruzione di
comunicazioni. Quindi il solo fine dell’adeguatezza della funzione burocratica venne perseguito, tanto
che si trattò di puro decentramento amministrativo senza spazi per autonomie di altro genere. Da
notare che in Gran Bretagna negli anni Quaranta il movimento e la spinta regionalista non si legò né
alle ideologie ottocentesche, né al rafforzamento delle garanzie locali, né ai movimenti politici, ma fu
unicamente seguita nel più ampio discorso di adeguamento della pubblica amministrazione, in termini
di efficienza, alle trasformazioni della rivoluzione industriale.
sia in Francia16, tuttavia, queste furono delle soluzioni di carattere assolutamente
temporaneo e trovarono la loro breve fortuna soltanto nel periodo del secondo conflitto
mondiale, ma si unirono a quelle forme d’impulso verso la rinascita di istanze di
autonomia che si ebbero in questo periodo. Pur essendo coeve alla nascita delle Regioni
in Italia, le soluzioni britanniche e francesi non giunsero al medesimo risultato di
inserimento in un testo costituzionale dell’ente Regione. Differente fu altresì la spinta
alla base di tali istituzioni straniere e il concetto e la ricerca di autonomia per l’ente
territoriale negli sviluppi italiani, anche perché in questi Stati fu un problema
contingente di mera strutturazione amministrativa decentrata.
Ben diversa per storia, rilevanza del fenomeno e legame con l’Italia rispetto a quelle
summenzionate, fu l’esperienza politica che portò alla nascita della Repubblica
Federativa Jugoslava17. Questo Paese e il suo passato influirono su alcune correnti
politiche del nostro Paese e, in particolare, sulle correnti ideologiche che vennero a
formarsi all’interno dei CLN della Venezia Giulia per la prossimità territoriale e per gli
stretti legami che la Resistenza italiana ebbe con quella slava. Bisogna evidenziare,
però, che le esperienze straniere richiamate si legavano per aspetti diversi, ma non
fondamentali, con la nascita della Regione in Italia. Se le strutturazioni regionali
francesi e inglesi si congiunsero con la nostra solo in quanto fenomeni di regionalismi e
si discostavano per le forme e le modalità totalmente differenti, quella jugoslava, pur
portando alla creazione di vere autonomie, fu un modello solo per le istanze politiche
della Resistenza più vicine al Partito Comunista, mentre in sede Assembleare e post-
Costituente venne pure osteggiata a causa delle tensioni nate con il regime comunista
16
Simile esperienza della Gran Bretagna, si ebbe in Francia quando il 19 agosto del 1941 il governo di
Vichy con legge istituì diciotto Regioni e altrettanti Prefetti Regionali affiancati a quelli preesistenti, ma
anche in questo Paese il movente di tale scelta fu la sola crisi della burocrazia venuta a crearsi con il
conflitto mondiale, tanto che tali istituzioni caddero con la breve esperienza francese di Vichy. Cfr. E.
ROTELLI, L’avvento, cit., p. 6 ss.
17
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., p. 8 ss. La struttura territoriale in stati federati riflette quella che costituì
la struttura organizzativa dei nuclei militari di resistenza a loro volta organizzati come il predominante
partito comunista. Il programma e la struttura federale si diramò dal 1942 in poi in tutti i territori in
questione, prima nelle forme dei Consigli antifascisti di liberazione nazionale (AVNOJ), poi nel 1943 con
la creazione di sei Unità Federate rispecchianti le maggioranze etniche, linguistiche della zona. Man
mano che le maggiori città vennero liberate dall’occupazione sorsero Slovenia, Croazia, Bosnia,
Montenegro, Macedonia, Serbia, fino al 29 Novembre del 1945 dove in prima seduta l’assemblea
costituente proclamò la Repubblica Jugoslava uno Stato Federale di forma Repubblicana. Venne a crearsi
molto presto un vero e proprio stato federale a tutti gli effetti ed è facile immaginare l’interesse e
l’attrazione che poté suscitare tra le file dei regionalisti e federalisti dell’epoca e nelle menti di quei
movimenti popolari di alcune nostre Regioni che già prima del termine delle ostilità chiedevano a gran
voce riconoscimenti di autonomia e forme di autogoverno.
jugoslavo in merito alla questione istriana.
I primi veri fermenti regionalistici o meglio autonomici, viste le svariate forme in cui si
articolarono, si affermarono in un’Italia ancora immersa nel conflitto, in particolare
nella guerra civile dopo l’otto settembre 1943. Proprio con l’organizzazione delle file
partigiane si formarono nuclei territoriali di resistenza18, più noti quali CLN19, che fin
dall’inizio si definirono regionali. I CLN iniziarono ad operare quali governi autonomi20
in tutto il centro-nord Italia e venne a crearsi pure un’articolazione territoriale dei partiti
che proponevano tali soluzioni. Le radicate teorie sull’autonomia presenti nella storia
italiana fin dall’origine della sua unificazione, riemersero proponendo nuove strutture
del sistema del Paese. Non bisogna pensare che la sola presenza e opera dei CLN
costituì la causa del lungo dibattito sulle autonomie in sede Costituente: come già
accennato, la tradizione del pensiero regionalista italiano risaliva anteriormente al
sorgere della Resistenza. Questi fenomeni furono solo alcune delle concause che
condussero i Padri Costituenti a trattare con tale serietà, per il suo carattere
pregiudiziale, la questione regionale. I CLN si espressero anche come auto-
organizzazione a livello territoriale Infatti, a prescindere da qualsiasi direttiva, si
organizzarono in strutture che riflessero quelle che erano le delimitazioni regionali e
locali cosiddette storiche21. Emerse un fenomeno che spinse verso un’articolazione del
territorio italiano nelle sue zone tradizionali geograficamente ben identificabili. Benché
non sia possibile affermare che i CLN furono, per la Costituente, il motivo e la base su
cui fondare la nascita della Regione nonostante gli stessi comitati in certi casi si
definirono al loro sorgere quali veri e propri prodromi di organi Costituenti, le loro
18
Cfr. R. ROMANELLI, Storia, cit., p. 161 ss. Per i principi di autonomia della Resistenza.
19
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., p. 14 ss. È proprio allora con l’organizzazione delle file partigiane che
si crearono nuclei territoriali di resistenza, chiamati CLN, e tali comitati fin dall’inizio si definirono
regionali. Successivamente, per opera del CLN Alta Italia, gli intenti furono proprio quelli di organizzare
e predisporre una struttura per il futuro Stato Italiano. Il progetto consisteva nella ricostruzione post-
fascista proprio su base regionale. Negli scritti dei più noti esponenti del Partito d’Azione venne
chiaramente espresso il legame che si tese tra le istanze democratiche e l’istituzione delle Regioni e zone
d’autonomia e si propose l’autonomia del governo dei CLN da quello monarchico, mentre in determinate
zone si proclamavano repubbliche partigiane come in Ossola e Carnia.
20
Basti pensare alla realtà fiorentina del tempo in cui il comitato di liberazione locale si autoproclamò
come: «agente in nome della futura Costituente Italiana», a cui tutte le loro scelte normative
sarebbero state sottoposte. Palese è quindi la vera e propria attività di governo di tali forme
d’autonomia. Quello che si può osservare è un vero e proprio tentativo di costituzionalizzare i CLN
regionali quali forme di autogoverno politico e quali unità basi della nuova Italia. Cfr E. ROTELLI,
L’avvento, cit., p. 37.
21
Per la qualificazione territoriale di tipo storico delle circoscrizioni regionali cfr. E. ROTELLI, L’avvento,
cit., p. 353 ss. Per artt. 131 Cost. ss. Cfr. M. PEDRAZZA GORLERO, Le variazioni territoriali delle Regioni,
v. I, Padova, 1979. p. 108 ss.
aspettative non vennero in sostanza soddisfatte. Una conseguenza di tali formazioni
sociali e di tali idee fu l’affermarsi in particolari zone del Paese di richieste di
autonomia22 che rischiarono in certi casi di sfociare pure nel separatismo. Ciò avvenne
con la vicenda siciliana23, le cui istanze, come quelle di altre Regioni vennero portate
sino in sede di Assemblea Costituente. Se già nel 194524, prima della Costituente, la
Sicilia venne eretta Regione Autonoma e nel 194625 ebbe già uno statuto d’autonomia,
la ragione di tali concessioni, a quest’isola, come ad altre Regioni, fu proprio
nell’emergenza di togliere consensi popolari a quei partiti che propagandavano
l’indipendenza.
Un’altra Regione che spinse verso il riconoscimento quale zona autonoma sin dal
costituirsi del CLN locale fu la Valle d’Aosta. Nel 1943 con la Dichiarazione dei
Rappresentanti26 delle popolazioni alpine, si propose esplicitamente: «un futuro regime
federale repubblicano a base regionale e cantonale». Con gli scritti di Emilio Chanoux
22
Le questioni nate in certe Regioni portarono ben presto a richieste di autonomia, regimi di specialità e
statuti ad hoc. Subito dopo la Costituente vennero infatti approvate le Leggi Costituzionali che
approvavano i precedenti statuti speciali: per la Regione Sicilia con L. Cost. n. 2 del 26 febbraio 1948,
per la Regione Sardegna con L. Cost. n. 3 del 26 febbraio 1948, per le Province autonome di Trento e
Bolzano con L. Cost. n. 5 del 26 febbraio 1948, per la Regione Val d’Aosta con L. Cost. n. 4 del 26
febbraio 1948, per la Regione Friuli Venezia-Giulia L. Cost. n. 1 del 31 gennaio 1963 quest’ultima in
ritardo rispetto alle altre anche a causa della prioritaria necessità di risoluzione del problema dei
confini in sede di trattati di pace.)
23
È doveroso notare che tali istanze non trovarono la loro prima ragione in particolari identità o tradizioni
d’autonomia ma vennero fomentate dalla necessità di una repentina riforma agraria per il risollevamento
della zona insulare. Infatti le proposte di separatismo siciliano nascevano tra le fila dei latifondisti
preoccupati del loro futuro con la nascita della nuova Italia, ecco perché comparvero perfino richieste di
annessione anglo-americana. Promotori delle più necessarie e ponderate richieste di autonomia per la
Sicilia furono il partito d’azione, forse il più federalista in Italia, e il partito repubblicano nel cui
programma annoverava una riforma in senso federale dello Stato Italiano e tra le sue file contava
personalità quali Finocchiaro Aprile il quale, successivamente eletto alla Costituente, ripropose
costantemente tali istanze. Per il discorso sulle Regioni che necessitavano di specialità cfr. E. ROTELLI,
L’avvento, cit., p. 56 ss. Similmente per i profili riguardanti la posizione del Partito d’Azione, P. Popolare
e Liberale sulle questioni del separatismo.
24
Per la questione sull’esigenza di autonomia della Regione Sicilia e i dibattiti e le iniziative che
sorsero nell’Isola nel 1945, cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., pp. 60-65.
25
La Consulta Regionale venne creata con d. L. n. 416 del 1944, e con il voto dei giorni 13-15 maggio
si chiese all’Alto Commissario l’attuazione di un progetto di autonomia regionale. Quindi nel
settembre 1945 si nominò una commissione preparatoria che elaborò il progetto e lo licenziò nelle
sedute tra i giorni 18 e il 23 dicembre 1945 e divenne Statuto della Regione Siciliana dopo
l’approvazione del Consiglio dei Ministri, quindi promulgato il giorno 15 maggio 1947.
26
È la prima affermazione, dopo la fine del regime, delle istanze di autonomia della Valle. La
dichiarazione è il risultato del Convegno svoltosi a Chivasso nel dicembre del 1943 tra i
rappresentanti delle popolazioni valdostane e delle valli valdesi. Questa dichiarazione fu un vero
programma per tutti i rappresentanti valdostani che si occuparono delle esigenze autonomiche della
Valle. Venne scritta a più mani dagli esponenti di spicco dell’autonomismo di quel territorio tra cui
Chabod, Rollier, Peyronel e altri. Come indicato nel testo la proposta finale fu quella di istituire un
regime federale repubblicano su base cantonale-regionale. Cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., p. 68 ss.,
per tutte le questioni valdostane.
e Federico Chabod27 si posero le basi delle istanze federali e di ampia autonomia che
valsero i successivi riconoscimenti ottenuti dalla Valle una volta costituita quale
Regione.
Rilevanti furono le istanze autonomiche anche nei territori del Friuli e della Venezia-
Giulia, ma la zona era percorsa da problematiche28 molto più rilevanti come le ingerenze
della vicina Jugoslavia, che non potevano essere risolte con un semplice riconoscimento
immediato d’autonomia o di legittimazione al CLN friulano. Per tali ragioni i maggiori
sforzi degli esponenti locali si indirizzarono all’ausilio dell’occupazione alleata del
territorio friulano più che ad organizzazioni territoriali politiche, per evitare il profilarsi
dell’annessione che assumeva contorni sempre più concreti. Le istanze d’autonomia29
non mancarono, nelle edizioni dei periodici del Partito d’azione si parlò ben presto
addirittura di una “federazione europea di libere nazioni” per cui si necessitava di un
Italia federale soprattutto per quelle Regioni mistilingue quali il Friuli. La convivenza
necessaria tra slavi e italiani trovava quale unica soluzione il sistema federale.
4. Federalismo e autonomie dalle proposte dei partiti politici all’inizio dei lavori
dell’Assemblea Costituente
27
Soprattutto Chabod svolse un ruolo preponderante sia nella veste di promotore di un eventuale
autogoverno valdostano sia, a maggior ragione, nell’evitare la perdita da parte dell’Italia di tutto il
territorio d’Aosta una volta emerso il piano di un futuro tentativo di provocare l’annessione della valle
al territorio francese per mezzo di un’occupazione lampo una volta finito il conflitto. Una delle
ragioni infatti per cui il territorio valdostano fu così celermente assecondato nelle sue richieste fu
questo pericolo di una perdita territoriale per lo Stato. Si era verificata infatti nell’estate del 1944 il
diffondersi dell’idea in alcune formazioni partigiane che le istanze autonomiche, una volta cessate le
belligeranze, si sarebbero potute soddisfare solo in seguito ad un incameramento nel territorio
francese. Per ovviare a ciò Chabod con le formazioni partigiane filo-piemontesi, cui era legato, iniziò
una fitta attività di propaganda autonomica per la tutela delle minoranze delle zone interessate. Cfr. E.
ROTELLI, L’avvento, cit., p. 68 ss. per tutte le questioni valdostane.
28
Sul Friuli incombeva prima di tutto la continua presenza di frange di resistenza jugoslava che da
Lubiana agli attuali confini si muoveva per l’annessione del territorio alla Federazione Jugoslava e
successivamente una questione internazionale per la delimitazione dei confini che poteva essere risolta
solo in sede di trattati di pace, compreso il destino di Trieste. Cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., pp. 74-
84.
29
In un numero di Giustizia e libertà del 1944, in seguito al programma del CLN locale del giorno 4
luglio dello stesso anno, venne proposta una soluzione di divisione del territorio in “cantoni politici
autonomi” tra slavi, italiani e mistilingue. Allo Stato doveva rimanere il solo interesse nazionale e
quello di tutti i federati, in poche parole venne proposta una repubblica federale “fermo il principio
dell’unità nazionale”. L’importanza del senso dell’unità nazionale è chiaramente visibile, proprio in
opposizione alle tesi d’annessione alla Jugoslavia. Lo si definisce come “sacro e inviolabile” sposato
al principio federativo quale forma d’organizzazione delle istituzioni.
Avvicinandosi alla scelta effettuata nel dicembre del 1947 al termine dei lavori30
dell’Assemblea Costituente, si può notare come si snaturò sempre più la concezione di
autonomia31 del nuovo soggetto istituzionale Regione. Le ragioni di tale risultato,
emersero soprattutto in sede di votazione finale del progetto di Costituzione, ove le
esigenze del compromesso politico sovrastarono quelle di effettiva rinnovazione dello
Stato. Le idee e le proposte più concrete per un effettiva valorizzazione delle autonomie
comunque non mancarono, ma di certo preliminare e aprioristico fu l’accantonamento
delle istanze di più ampio regionalismo, in primis quelle federaliste.
Il dibattito si articolò intorno alle proposte di quei partiti più rilevanti del panorama
italiano dell’epoca, che manifestarono ampie proposte di soluzioni al problema della
riforma dello Stato benché, nella sede Assembleare, dovettero ridurle per poter
raggiungere un qualche accordo; proprio il risultato del 1947 costituì il precipitato di tali
istanze. Questo risultato di sintesi è comprensibile, quale compromesso, partendo
proprio da ciò che gli esponenti dei partiti più interessati alla questione intendevano per
autonomia e regionalismo. Uno dei partiti più sensibili al tema fu certamente il Partito
d’azione. A partire dagli anni precedenti e dagli articoli pubblicati sul periodico
Giustizia e Libertà32, l’idea regionale e autonomica, quale struttura da adottare per il
futuro Stato, costituì la questione più rilevante nelle tesi azioniste, attestate
favorevolmente verso il modello regionale. Quest’ultimo si concepì come la
concretizzazione dell’autonomia locale, nell’ambito della diversità di funzioni tra Stato
e Regione, quale esigenza garantista per conferire l’autogoverno locale quale tutela di
30
Vedi successivamente sui lavori parlamentari §§ 5 e 6.
31
È necessario chiarire che la denominazione di autonomia che veniva usata e adottata al tempo non era
sempre quella coincidente con l’effettivo contenuto che tale accezione richiede, ma veniva fraintesa
con altri concetti, quali quello di autogoverno (o anche autoamministrazione) o quello di autonomia
normativa. Il primo coincide sostanzialmente con la possibilità per l’ente che ne sia titolare di poter
eleggere i propri rappresentanti a prescindere da determinazioni esterne, il secondo con la capacità di
emanare norme giuridiche aventi valore pari alla legge primaria. Diverso è il concetto di ente
autarchico tipico dell’organizzazione fascista in cui i soggetti hanno la concessione di determinati
poteri per poter perseguire dei fini predeterminati dallo Stato. Queste da sole non sono in grado di
riempire il concetto di autonomia nel senso proprio del termine in quanto difettano della connotazione
politica e prioritaria dello stesso, ossia la capacità di adottare un proprio indirizzo politico e di
perseguirlo con mezzi propri. Cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., pp. 86-87.
32
Il programma del Partito d’Azione comparve sul periodico L’Italia Libera del gennaio 1943,
articolato in sette punti chiave tra cui gli orientamenti in tema di autonomia e di Regione. Rispetto ai
programmi iniziali di Giustizia e Libertà di carattere più rivoluzionario nel promuovere le più ampie
autonomie, i successivi obiettivi del partito d’azione videro un affievolirsi di tali prospettive. In primis
si volle sancire il carattere elettivo degli enti locali, in secondo luogo posero in luce soprattutto
l’istituzione di Comuni e Province ponendo spesso più affievolita l’esigenza regionale. Per una svolta,
tendente maggiormente all’idea Regione, si attese fino alla fine del 1943, con gli interventi oltre che
del già citato Lussu, soprattutto di Lombardi. Cfr. R. LOMBARDI, il Partito d’Azione, dicembre 1943.
fronte ad eventuali future dittature. La garanzia per il cittadino invece, si ravvisò
sostanzialmente nel concetto di autoamministrazione a livello comunale.
Ma anche, e soprattutto, tra le fila azioniste videro la luce le più rilevanti istanze
federaliste. Fin dai primi anni trenta, l’azionista Ginzburg33 scrisse sul modello federale
e lo avvicendò al concetto di associazionismo, ma è con l’On. Lussu che le proposte di
questo tipo trovarono più ampia fama. Lussu, nel definire il federalismo come: «né di
destra né di sinistra», palesò nei suoi interventi come la necessità di ristrutturazione
dello Stato fosse qualcosa che dovesse andare oltre le singole correnti di partito e
dovesse coinvolgere l’intera azione Costituente italiana. L’insigne giurista definì le
Regioni italiane come qualcosa di attinente: «all’unità morale, etnica e politica del
paese34», e ravvisò l’avvento dello stato federale tramite una spontanea e progressiva
azione dei vari gruppi locali popolari. Lussu continuò a propagandare tali soluzioni
come una conquista di democrazia rivoluzionaria sino agli scritti del 1943, e pure una
volta eletto alla Costituente, nonostante fosse costretto a rinunciare al suo prototipo di
stato federale davanti al rifiuto della maggioranza e ad assestarsi sulle opinioni di un
ampio regionalismo con potestà legislativa, tipica dell’Ambrosini, che poco si
discostava nella sostanza dalle soluzioni da lui propugnate.
Oltre agli azionisti, su una simile posizione autonomistica, si erano assestati pure i
sostenitori del Partito Repubblicano35, fin dall’origine di antiche tradizioni regionaliste.
Questi ultimi proposero un sistema repubblicano non quale mero sostituto alla
Monarchia, ma una Repubblica con un Camera espressiva delle varie Regioni di cui i
Deputati dovevano essere diretti rappresentanti36. In sostanza, la democrazia per loro
trovava le sue fondamenta nell’autogoverno di Comuni, Province e Regioni e lo Stato
risultava essere la guida di Regioni e Comuni.
33
Per Leone Ginzburg i concetti di autonomia, rivoluzione, democrazia e azione spontanea delle masse
sono termini equivalenti. Per quanto riguarda le istituzioni che dovrebbero essere il fulcro di tale
autonomia ricorda solo il Comune e la Provincia. Cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., p. 91.
34
Cfr. E. LUSSU, Quaderni di Giustizia e Libertà, 1933. Lussu definisce le sue prime posizioni sulla
Regione dicendo: «La Regione è in Italia un’unità morale, etnica, linguistica e sociale la più adatta a
diventare un’unità politica…la Regione è rimasta un territorio che non può essere confuso con nessun
altro, che vive una vita del tutto speciale».
35
Cfr. E. ROTELLI, L’avvento, cit., p. 110 ss. Oltre alla tradizione risalente al Mazzini e al Cattaneo, il
partito repubblicano si attestò sulle idee regionaliste attraverso un procedimento logico-politico che
partiva dal concetto di Repubblica per arrivare a sostenerla anche tramite l’istituzione di un ente quale
la Regione. La sua istituzione doveva derivare necessariamente da una previa riforma istituzionale
dello Stato Italiano e posto questo legame, il partito non abbandonò mai l’idea regionalista.
36
Da: La Voce Repubblicana clandestina cit., in E. ROTELLI, L’avvento, cit., p. 110 ss, «La Repubblica
non impersona in un uomo, né in una cricca di uomini. Essa è la Nazione che si governa …i Comuni
con il consiglio comunale, le Regioni con le assemblee regionali…».