Sabrina Ignazi La retorica del disprezzo
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Scrivere una tesi di criminologia sulle aree dismesse e sulle abitazioni oc-
cupate comporta il rischio di 'criminalizzare' chi in questi luoghi ci abita. Solitamen-
te si tratta di stranieri privi di permesso di soggiorno che commettono due illeciti,
entrambi punibili con una sanzione amministrativa: si trovano in Italia come clan-
destini (e in virtù della legge Bossi-Fini sono suscettibili di arresto ed espulsione) e
occupano abusivamente un'area di proprietà pubblica o privata.
L'intento però non è quello di approfondire la realtà di questi insediamenti in
una prospettiva criminalizzante, bensì di analizzare - per quanto possibile - il fe-
nomeno dell'occupazione di aree dismesse e/o stabili abbandonati presenti a Mi-
lano, e la ricaduta che questa presenza ha sulla popolazione della città, sia in ter-
mini di percezione di sicurezza/insicurezza del proprio quartiere, sia in termini di
allarme sociale.
Oltre alla letteratura disponibile sull'argomento si è scelto di prendere in
considerazione un episodio che ha interessato la città di Milano, e che ha coinvol-
to circa 300 rom di origine rumena insediati in uno stabile nella zona della Stazio-
ne centrale e gli abitanti del questo quartiere; la lettura dell'occupazione di questa
casa e del successivo sgombero sono stati effettuate attraverso l’analisi degli arti-
coli comparsi nella cronaca locale dalla fine di febbraio ai primi di aprile del 2004.
Analizzare del materiale di questo tipo non è mai facile, e le insidie sono legate sia
alla particolare conformazione e natura degli articoli, sia al rischio di interpretare
questi ultimi in un modo che sommariamente si può definire 'ideologico'. Van Dijk,
che tanto ha scritto sulla 'comunicazione razzista', lascia poco spazio all'illusione:
difficilmente un messaggio può essere completamente epurato da elementi che in
qualche modo non siano riconducibili ad una più o meno sottile discriminazione.
Non è quindi facile parlare di stranieri che, oltre a essere portatori di uno
stigma sociale per il solo fatto di essere tali, si rendono 'colpevoli' di occupare uno
stabile in una zona, tutto sommato, centrale della città (non si sta quindi parlando
di periferia, né nell'accezione spaziale, né in quella metaforica; rif. cap. 1), di por-
tare questa zona al degrado con ricadute in termini economici e di immagine, e di
seminare uno stato di costante allarme che in certi momenti assume i tratti del pa-
nico; la loro 'colpa' più grande, però, è forse quella di essere 'diversi': molti articoli
parlano del modo in cui vivono, delle condizioni igieniche disastrose dello stabile
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(attribuendone velatamente la responsabilità a loro), delle pratiche 'alternative' con
le quali si guadagnano da vivere (che anche nei casi in cui sono legittime e oneste
suscitano comunque una sorta repulsione che li rinvia ad una cultura diversa dalla
nostra), delle tradizioni e delle usanze che anche quando riferite in modo apparen-
temente neutrale sembrano ricondurre queste persone ad un mondo primitivo, de-
finitivamente superato dalla società moderna (le famiglie con figli numerosi, le gra-
vidanze precoci, la promiscuità delle famiglie allargate, ecc.).
Forse sarebbe stato difficile per i giornalisti riferire questi fatti senza entrare
nel merito dei particolari, forse sarebbe stato impossibile se non scorretto e in
questo caso si sottolineerebbe la loro insensibilità e la loro superficialità. Se da
una parte c'è il rischio che la comunicazione venga equivocata, attribuendo a chi
scrive intenti che in realtà non ha, d'altra parte spesso è evidente il tono ad effetto
adottato - soprattutto nei titoli - che inevitabilmente genera allarme e contribuisce
ad alimentare la sensazione di insicurezza.
A questo proposito in molte parti del presente lavoro si leggerà di come
sembri non esistere un rapporto lineare tra aumento dei tassi di criminalità e il cre-
scente senso di paura e insicurezza percepito dai cittadini. Se questo nesso non
esiste, si può pensare che le paure di cui molti cittadini sono portatori e che condi-
zionano pesantemente le loro vite non siano giustificate, ma siano piuttosto il risul-
tato di una erronea percezione della realtà che li circonda. Il problema non risiede
tanto nell'origine di questa paura, il fatto che derivi da esperienze di vittimizzazione
dirette e indirette - e quindi mediate da parenti, conoscenti e/o mass media - quan-
to il fatto che questa paura sia concreta e comporti delle conseguenze nelle rela-
zioni sociali e nei comportamenti. La paura spesso nasce da una mancanza di co-
noscenza e da una profonda sfiducia nell'altro, due elementi dai quali trae poi co-
stante alimento: la non conoscenza porta alla diffidenza che genera paura, la qua-
le a sua volta incrementa la diffidenza. Questo atteggiamento sembra permeare le
gradi città, le aree metropolitane, che per la loro storia e la loro conformazione so-
no terreno fertile per tutte le insicurezze del ‘cittadino globale’, che nonostante i
“progressi in termini di sicurezza e l’orgoglio per il progresso”
3
percepisce il proprio
3
I. Merzagora Betsos, Lezioni di criminologia, Cedam, Padova, (2001) pagg.5-6.
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status, le proprie certezze come estremamente fragili e precari, e trova inaccetta-
bile la violenza agita ogni giorno in città.
Gran parte del lavoro è dedicata alla figura dello straniero, talvolta interpre-
tato in pura chiave metaforica come elemento estraneo e diverso, e non necessa-
riamente come individuo che approda nel nostro Paese in modo fortunoso, con in-
tenti predatori e senza poter vantare alcun diritto, sebbene minimo – come troppo
spesso viene rappresentato a livello mediatico. Questo perché la paura che attra-
versa le nostre città e che noi riconduciamo allo straniero è una paura atavica, è la
paura di chi sente invaso il proprio spazio vitale e teme di perdere dei privilegi dei
quali è titolare a pieno titolo. Il sentimento di appartenenza a una comunità spesso
non ha molto a che fare con la cultura, la tradizione o con una particolare filosofia
di vita. Ciò che preoccupa – e spesso accomuna cittadini di varia estrazione socia-
le - è dover dividere o condividere il benessere di cui si gode, molte volte senza
valutare le fondatezza razionale di questo timore, senza soffermarsi su considera-
zioni di ampio respiro che necessariamente chiamano in causa equilibri analizza-
bili solo su scala planetaria e riconducibili alla sperequazione tra nord e sud del
mondo, con le ormai celebri statistiche relative ai pochi Paesi che consumano la
gran parte delle risorse disponibili e della ricchezza prodotta. Il privilegio di trovarsi
in una posizione, se non di ricchezza, comunque di benessere non per merito ma
– quasi – per diritto di nascita, non induce tuttavia ad alcuna rinuncia, ad alcun ri-
dimensionamento, spesso a nessuna riflessione, come se quello di cui si gode
fosse un diritto e non, appunto, un privilegio (A. Lonni, 2003).
Questo atteggiamento è alla base delle attuali politiche sull’immigrazione,
politiche che dispensano permessi di soggiorno e relativi rinnovi sulla base di prin-
cipi molto restrittivi. Ma il permesso di soggiorno è l’unico strumento tramite il qua-
le esercitare una cittadinanza attiva ed esserne privi significa non godere di alcun
diritto, soprattutto quello a un lavoro regolare (e proprio la mancanza di lavoro è la
principale colpa che si imputa agli stranieri). Non essere titolari di un permesso di
soggiorno equivale a non essere: l’immigrato che ne è privo non esiste se non in
quanto entità fisica, e spesso neanche il privato sociale può farsi carico di lui, per-
ché non è possibile offrirgli alcuna prospettiva di inserimento, alcun futuro; l’unico
percorso prefigurabile è allora quello del rimpatrio – o quello del lavoro nero e del-
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la delinquenza, e sulla base di questa osservazione si può forse ravvisare un ca-
rattere ‘criminogenetico’ in una legge che di fatto limita pesantemente le possibilità
di un inserimento sociale conseguito attraverso mezzi leciti. Questo, penso, si può
configurare come “uccisione della personalità giuridica”.
All’estremo margine della scala sociale, ancora più in fondo degli stranieri
senza diritti, si collocano i rom. Occuparsi di loro significa guadagnarsi
l’incomprensione dei più, perché se è legittimo aiutare i minori non accompagnati,
le ragazze vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, le famiglie in difficoltà
perché in fuga da Paesi dove non sono assicurati i diritti civili, i rom sono una ca-
tegoria che non suscita la minima compassione. La loro incredibile capacità di a-
dattarsi a condizioni di vita al limite dell’umano (in abitazioni fatiscenti e prive di
servizi ai margini delle grandi città), la loro impermeabilità alla nostra società che
si manifesta in uno stile di vita del tutto alternativo e a una diffidenza innata nei
confronti dei gagè (i non rom), la loro presunta – o reale – predisposizione a com-
portamenti devianti se non delinquenziali, sono tutti elementi che rendono i rom le
ultime persone che ognuno di noi vorrebbe come vicini di casa.
Il popolo rom ha una propria cultura, proprie tradizioni e una lingua che si
sono tramandate per secoli e che ancora oggi sono condivise dalla maggior parte
dei gruppi che vivono in Europa. Come accade per gli stranieri (rif. cap. 2) anche i
rom suscitano una reazione ambivalente: qualcuno percepisce quella rom come
una sottocultura, un prodotto di scarto della nostra – cultura a pieno titolo; altri (u-
na minoranza per la verità) riconducono al popolo rom il fascino di una vita priva
dei condizionamenti della società moderna, a contatto con la natura e senza con-
fini (Calabrò, 1992). Più verosimilmente i rom sono gravati da pregiudizi difficil-
mente scardinabili (Costarelli, 1999), e da molti sono considerati tanto diversi da
noi da essere praticamente impermeabili a qualunque tentativo di inserimento so-
ciale – principalmente perché loro stessi rifiutano l’integrazione.
Quella rom è una cultura orale. Può sembrare allora paradossale prendere
in considerazione gli articoli nei quali si è scritto di loro, sottolineando come molto
spesso riproducano gli stereotipi e rafforzino i pregiudizi già profondamente radi-
cati tra gli italiani. Forse nessuno dei rom coinvolti nell’occupazione e nello sgom-
bero dello stabile di via Adda ha mai letto un articolo relativo a questa vicenda;
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nessuno delle persone che li ha letti si però è preoccupato di sottolinearne i toni
allarmistici, la mancanza di equilibrio, il profondo disprezzo che spesso li ha per-
meati. La modalità con la quale sono stati comunicati l’occupazione e lo sgombero
di via Adda sono passate sotto assoluto silenzio, e si sono assunti come veritieri e
attendibili resoconti fortemente connotati dalla partecipazione emotiva di chi li rife-
riva, facendo leva sul comprensibile senso di insicurezza degli abitanti della zona
e, più in generale, della città. Questi articoli giorno dopo giorno tenevano vivo il
sentimento di un pericolo incombente e rinfocolavano le polemiche tra le istituzio-
ne (tra chi avrebbe dovuto prevenire una simile situazione e chi avrebbe dovuto
intervenire per risanare il quartiere), in una gara all’allarmismo e al titolo a effetto
4
.
Credo che se i Rom hanno una colpa è quella di essere una minoranza for-
temente determinata a rimanere tale, a contrastare in ogni modo l’assimilazione, a
resistere a ogni forma di persecuzione e di annientamento, con l’imperdonabile
aggravante di nutrire nei confronti dei gagè una diffidenza e dei pregiudizi che so-
no paragonabili solo a quelli che i gagè nutrono nei loro confronti. Lavorare con lo-
ro e per loro, significa allora superare una serie di ostacoli nella convinzione che
solo il contatto e il dialogo possono contribuire ad avvicinarci, e facendo proprio il
principio che alcuni diritti fondamentali attengono ontologicamente all’essere uma-
no, ne determinano la dignità, sono irrinunciabili e non possono essere subordinati
a uno status giuridico.
4
Una recente Risoluzione del Parlamento europeo (B6-0272/2005, Punto 6) “invita gli Stati membri
a prendere opportuni provvedimenti per eliminare l’odio razziale e l’istigazione alla violenza contro i
rom nei mass media e in ogni forma di tecnologia della comunicazione”, nella piena consapevolez-
za che la comunicazione mediatica è spesso fortemente viziata da più o meno sottili giudizi di valo-
re sulle minoranze, soprattutto se prive di strumenti per far valere i loro diritti. Lo stesso punto della
Risoluzione invita anche all’assunzione di personale in modo da riflettere la composizione della
popolazione; a questo proposito vale la pena sottolineare che in Italia non esiste una stampa italia-
na a cura di stranieri.
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CONTESTO URBANO, VIOLENZA E CONFLITTI
“Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità,
avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, colli-
sioni di cose e di eventi, e frammezzo, punti di silen-
zio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran
battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgi-
mento di tutti i ritmi; e nell’insieme somigliava a una
vescica ribollente posta in un recipiente materiato di
case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche”.
R. Musil
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1. Milano: periferie e aree dismesse
La città di Milano e le sue periferie
La città di Milano è caratterizzata da una struttura radiale, con un centro e
due circonvallazioni che tracciano i confini tra zone intermedie e periferiche della
città. Questa particolare conformazione ha contribuito ad alimentare l’idea, soprat-
tutto tra i cittadini, che la qualità urbana sia distribuita secondo un modello gerar-
chico, con un centro dotato di funzioni amministrative e dirigenziali, una prima fa-
scia intermedia tra la cerchia dei Navigli e la circonvallazione esterna, e la periferia
vera e propria.
I cittadini nutrono una doppia immagine di Milano: la prima è rappresentata
dal contesto in cui vivono e dalla realtà del proprio quartiere, la seconda è
un’immagine simbolica e ideologica. La valutazione del proprio quartiere, da parte
degli abitanti, è spesso fortemente critica: ne vengono sottolineati quasi esclusi-
vamente i problemi sociali e il degrado ambientale, e solitamente la propria zona
sembra non essere considerata parte integrante ed essenziale della città (Guiduc-
ci, 1992).
La città moderna, contrapposta al centro storico, risulta frammentaria in
quanto risultato della sovrapposizione tra interventi recenti e vecchie costruzioni,
centri direzionali e poli universitari; a questa complessità si aggiunge il fatto che la
crescita delle città ha portato alla costituzione di quella che viene definita ‘area
metropolitana’, nella quale non è più possibile distinguere i confini tra la periferia di
Milano e le città dell’hinterland.
Per certi versi il termine ‘periferia’ rischia di diventare obsoleto, mentre si
sviluppa una città policentrica. I tradizionali riferimenti territoriali connessi con il
termine ‘centro’ e ‘periferia’ vengono, in parte, ridefiniti per effetto della delocaliz-
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zazione di funzioni direzionali pregiate; alcune vecchie periferie sono potenziali
centri di innovazione e sviluppo per effetto della disponibilità di aree dismesse e di
grandi investimenti privati e pubblici, mentre altre periferie sembrano avviate verso
un ulteriore degrado, se non altro in termini comparativi. Decisiva risulta a questo
proposito la presenza di reti di trasporto veloci e frequenti, che determinano la
maggiore o minore facilità degli accessi e degli spostamenti; la ‘vicinanza’ o la
‘lontananza’ sono infatti oggi definite principalmente dalla variabile temporale, piut-
tosto che dalla distanza fisica, anche se non è venuta meno la rilevanza di alcune
barriere fisiche sulla formazione del senso di isolamento e di segregazione che è
tipico di chi abita in certe periferie (Migliorini, Venini 2001).
La città postindustriale – che nel nostro contesto ha preso avvio negli anni
Ottanta del XIX secolo – ha dovuto confrontarsi con la necessità di ridisegnare la
destinazione degli enormi spazi lasciati liberi dalla delocalizzazione (e talora dalla
scomparsa) dei grandi insediamenti manifatturieri. Molte periferie non sono uscite
dall’orizzonte nel quale sono state concepite, che le ha relegate a una funzione di
deposito e di produzione, destinandole ai livelli inferiori del mercato del lavoro. La
stagnazione economica e il regresso nelle potenzialità produttive dell’area milane-
se non sembrano, inoltre, consentire il rinnovarsi di una prerogativa che ancora
qualche decennio fa faceva la forza della periferia storica: il suo essere un conte-
sto di emancipazione individuale e civile (Consonni, 2004).
Negli interventi finora operati sulle aree dismesse a Milano si è confermata
la logica della zonizzazione e del recinto, quando il primo problema da affrontare
nel disegno urbano oggi è, al contrario, come superare l’insularità dei luoghi. Un
luogo deve tendere a soddisfare una duplice potenzialità relazionale: quella che
lega quel luogo ad altri luoghi e quella dei rapporti interpersonali. Il ridimensiona-
mento di questo secondo ordine di potenzialità è alla base della caduta della quali-
tà urbana e dell’emergere prepotente del problema della sicurezza secondo una
regola quasi matematica per cui, più scendono la propensione relazionale e la
presenza umana in un luogo, più è possibile che in quel luogo si creino problemi di
sicurezza.
In merito alla natura delle relazioni umane Tonnies (1963) distingue la co-
munità dalla società. La coesione della prima è garantita da vincoli di sangue, di
Sabrina Ignazi La retorica del disprezzo
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parentela, di luogo, assumendo una valenza affettiva e morale che rende difficil-
mente separabili gli affetti dagli affari, la dimensione familiare e domestica da
quella economica. La società si basa invece su di una complessa divisione del la-
voro che rende più evidente l’interdipendenza strumentale tra gli individui, i quali
tuttavia hanno maggiori possibilità di scelta tra diversi fornitori di prodotti e servizi,
e si sentono dunque più autonomi ed estranei. All’orientamento comunitario si
contrappone quindi l’orientamento societario che sarebbe contraddistinto da una
sorta di neutralità affettiva, di universalismo, di orientamento alla prestazione (Par-
sons, 1965).
Il recupero della dimensione comunitaria nell’epoca moderna nasce sulla
base della volontarietà, piuttosto che sulla spontaneità. Le ragioni della comunan-
za nascono in misura sempre più ridotta dalla semplice contiguità fisica, mentre
diventa determinante la condivisione di scopi, interessi, valori condivisi, indipen-
dentemente dal luogo di residenza. Se queste ‘comunità scelte’ non esistessero,
la coesione sociale di cui beneficiamo sarebbe ancora più precaria, mentre au-
menterebbero a dismisura il senso di sfiducia, di insicurezza, di isolamento che già
sono un tratto tipico di quella che è stata denominata la ‘solitudine del cittadino
globale’ (Bauman, 1999a).
Enormi spazi vuoti e degradati hanno sostituito gli spazi di un tempo occu-
pati dalla grandi fabbriche che, al di là dei problemi ambientali e sociali che la loro
presenza comportava, rappresentavano comunque un punto di riferimento per chi
ci lavorava e per il quartiere che le ospitava; se i grandi complessi industriali han-
no conferito identità tanto alle persone che a intere aree della città, la loro scom-
parsa ha contribuito a un impoverimento simbolico (oltre che economico), supera-
to solo da operazioni altrettanto vaste e incisive di riqualificazione produttiva e re-
sidenziale (Rovati, 2004).
Alcuni studi (F. Zajczyk, 2004) mettono in evidenza come Milano sia carat-
terizzata da una distribuzione – piuttosto che da una concentrazione – sul territorio
urbano di luoghi e persone a rischio di esclusione. Ampie zone della città vedono
la compresenza non soltanto di situazioni e individui con livelli di vita e stili di com-
portamento molto diversi, ma anche, più in generale, di microaree contrastanti per
Sabrina Ignazi La retorica del disprezzo
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quanto concerne le scelte urbanistiche e il livello di degrado abitativo e dello spa-
zio pubblico.
La città di Milano non presenta forme gravi e particolarmente concentrate di
segregazione territoriale, quanto piuttosto una successione di micro-ghetti. Il disa-
gio urbano è minimo nel centro della città e si addensa procedendo verso la peri-
feria. L’espansione di Milano, prima sulla spinta dell’industrializzazione e poi con
la riconversione a polo del terziario, hanno conferito alla città un aspetto disomo-
geneo e in continua modificazione. Le periferie stesse, la loro collocazione e la
percezione della loro inclusione/esclusione dalla città sono cambiate nel corso del
tempo.
Le aree periferiche sono state infatti progressivamente inglobate nella città
ma trovarsi ‘dentro’ dal punto di vista prettamente fisico non sempre coincide con
l’inclusione sociale: alcune aree della città, costituite da quartieri di edilizia pubbli-
ca si sono così trasformate da periferie urbane in ‘periferie sociali’ (J. Foot, 2003).
Nelle periferie si trovano a convivere una popolazione anagraficamente an-
ziana, confinata in questi quartieri da difficoltà economiche, e una popolazione che
oltre a sperimentare pesanti difficoltà di integrazione, si trova a vivere in una zona
della città stigmatizzata a priori. I problemi non si limitano soltanto al degrado fisi-
co e ambientale, ma sono fortemente dipendenti dal tipo di convivenza che si in-
staura all’interno della comunità: la simultanea presenza, in alcuni quartieri perife-
rici, di un forte deterioramento degli alloggi, di bassa qualità dei servizi, di gruppi
sociali in condizioni di estrema povertà economica, di persone emarginate e di
gruppi dediti ad attività malavitose che distruggono le strutture e alimentano il sen-
so di sicurezza degli abitanti, genera una situazione insostenibile.
Trovarsi a vivere in particolari situazioni urbane, urbanistiche e sociali in
senso generale, implica spesso una percezione del proprio status che non sempre
coincide con una condizione di obiettiva povertà, così come una qualità della vita
complessivamente modesta – dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo – può
essere individuata anche in zone non particolarmente periferiche, sotto il profilo
urbanistico, della città.
Il concetto di periferia va pertanto declinato secondo due accezioni: una to-
ponomastica che definisce la periferia per contrapposizione al centro, e una socia-
Sabrina Ignazi La retorica del disprezzo
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le che la distingue dal quartiere residenziale – altrettanto decentrato della periferia
ma connotato da un elevato livello socio-economico della popolazione che vi abita.
Iemmi (2004) a questo proposito distingue tra ‘periferizzazione’ e periferia. Col
primo termine indica quel fenomeno di degrado e di disagio sociale che possono
essere individuati in qualsiasi luogo della città, indipendentemente dalla colloca-
zione centrale o periferica. Il termine periferia designa invece quella parte della cit-
tà che si trova all’esterno del nucleo centrale, e perde la connotazione esclusiva-
mente negativa che le era stata attribuita dai modelli basati sulla distanza spazia-
le.
Attualmente le periferie milanesi stanno attraversando una fase di transizio-
ne. Alcuni quartieri subiscono ancora le problematiche legate al degrado delle ca-
se - popolari e non - alla scarsità dei servizi, ai problemi legati alla convivenza tra
diverse culture; altre aree, in particolare quelle attigue alle zone interessate dai
grandi progetti, stanno vivendo nuove problematiche legate al disagio delle fasi di
‘cantiere’ e l’incognita sulla futura configurazione del quartiere (Iemmi, 2004).
L’espansione e la riqualificazione urbanistica molto spesso non sono l’esito
di una programmazione bensì la risposta estemporanea a una situazione di emer-
genza o di crisi. L’enfasi viene posta sul ‘problema casa’ piuttosto che sul tema
dell’abitare, della relazione, della socializzazione e della qualità di vita. Tale man-
canza di progettualità è alla base dello stato di precarietà e di sfiducia che affligge
le periferie.
Come fa notare Villani (2004) “oggi non si fanno più piani urbanistici di va-
sta area”. Negli anni ’60 e ’70 Milano e i comuni limitrofi – quelli che in seguito a-
vrebbero costituito l’area metropolitana – parteciparono al PIM (Piano Intercomu-
nale Milanese). Il PIM era un’associazione volontaria di comuni che si esprimeva
attraverso un’Assemblea di Sindaci e una Giunta Esecutiva, e che aveva
l’obiettivo di cercare di governare lo sviluppo urbano dei comuni del Milanese.
Oggi non esiste nulla di simile. Da più parti viene invece ipotizzata
l’istituzione di un governo ‘metropolitano’. La modifica della Costituzione sancisce
che la Repubblica si fonda su stato, regioni, province, comuni e città metropolita-
ne, attribuendo a queste ultime una dignità costituzionale. Una riforma in questo
senso sembra però lontana dall’essere attuata, anche nella volontà politica delle
Sabrina Ignazi La retorica del disprezzo
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istituzioni locali. Un governo metropolitano, oltre a rivoluzionare le dinamiche e i
rapporti tra la città di Milano, i comuni limitrofi e la provincia, costituirebbe un po-
tentissimo antagonista rispetto alla Regione per il governo di questa parte di terri-
torio lombardo.
A questa situazione va aggiunto il fatto che la pubblica amministrazione in
questi anni ha abdicato alla funzione pianificatoria-programmatoria che le è pro-
pria in virtù del ruolo che riveste; sono così venuti meno decisioni e azioni di inte-
resse pubblico a sostegno delle essenziali funzioni collettive, così come è manca-
to un intervento di coordinamento delle iniziative private.
Le istituzioni sono sempre più restie ad intervenire, sia per l’impopolarità
che certe scelte urbanistiche inevitabilmente comportano (si cita a esempio la dif-
ficoltà di individuare aree da destinare a insediamenti rom), sia per l’effettiva mino-
re autorevolezza che ancora sono in grado di esercitare per effetto delle molteplici
pressioni cui sono sottoposte.
I partiti della seconda repubblica, a loro volta “sono poco più di comitati elet-
torali. I partiti dominanti non sono più strumento di selezione della classe dirigente,
strumento di partecipazione dei cittadini alle scelte collettive, strumento di forma-
zione politica, culturale, amministrativa dei militanti, strumento di formazione ed
educazione all’impegno civile; strumenti di indirizzo nei confronti degli organi di
governo. Oggi è estremamente diffuso il disimpegno; gli interessi che si cerca di
tutelare sono quelli personali; non esiste educazione all’impegno civile” (Villani,
2004).
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Le aree dismesse
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e gli insediamenti abusivi
Il fenomeno del proliferare delle baraccopoli ai margini delle grandi città è
segnalato in diversi Paesi europei e si configura come un problema che esprime
“la povertà e l’inadeguatezza delle politiche sociale, in due direzioni […]: quella
delle politiche di accoglienza e integrazione […] e quella delle politiche abitativa
[…]. Nei confronti di molte popolazioni la ‘riduzione’ delle politiche di accoglienza e
di housing assume anche un ruolo di disincentivazione, rappresentando un’altra
faccia delle politiche repressive”
6
. Questi insediamenti sorgono perlopiù in zone
della città difficilmente accessibili, per questo la loro esistenza viene portata alla
ribalta dell’opinione pubblica dai mass media soprattutto in corrispondenza di fatti
di cronaca. Nell’immaginario collettivo si configurano quindi come luoghi elettivi in
cui si annida la criminalità e per questo sono fonte di insicurezza; questa immagi-
ne pone in secondo piano il fatto di essere, soprattutto, luoghi dell’esclusione abi-
tativa e dell’emarginazione sociale.
Le prime baraccopoli comparvero a Milano negli anni ’50, con l‘arrivo degli
immigrati provenienti dall’Italia del sud. A questa situazione l’amministrazione
pubblica rispose con un vasto intervento di edilizia residenziale pubblica, con la
quale fu in grado di far fronte alla nuova domanda di alloggi.
Con gli anni ’80 riprese l’immigrazione verso Milano, questa volta prove-
niente dai paesi del nord Africa; i nuovi immigrati, privi di una comunità di riferi-
mento già insediata, occuparono i primi edifici abbandonati. I Centri di Prima Ac-
5
Le aree dismesse sono certi versi assimilabili ai c.d. slum: sono aree caratterizzate da isolamento
sociale ed economico, dall’occupazione irregolare di uno spazio e da condizioni sanitarie e am-
bientali estremamente precarie e malsane. Per converso condizioni urbane accettabili contempla-
no: accesso all’acqua (venti litri per persona al giorno) che comprende allacciamento alla rete idri-
ca, approvvigionamento idrico comune per non più di cinque famiglie, fonte protetta; accesso ai
servizi igienici e più precisamente un sistema di smaltimento delle deiezioni, collegamento diretto
alle fogne e alla fossa settica, gabinetto con acqua corrente; un’area vitale appropriata (meno di tre
persone per stanza di non più di quattro mq); determinati parametri strutturali che possano definire
come “durevole” l’abitazione e che la qualifichino come permanente e adeguata per proteggere gli
abitanti da condizioni climatiche estreme (caldo, pioggia, freddo, umidità); garanzia alla sicurezza,
ovvero diritto alla protezione da parte dello Stato nei confronti del rischio di essere sfrattati o
sgomberati. (Un-Habitat, 2003).
6
P. Cottino, A. Tosi, Insediamenti abusivi: a ridosso dei luoghi cercando spazi di azione per le poli-
tiche, documento non pubblicato, 2004.
Sabrina Ignazi La retorica del disprezzo
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coglienza (CPA) costituirono la risposta a questo secondo flusso di ingressi; dopo
un’iniziale gestione fallimentare di strutture di grande capienza e difficilmente co-
ordinabili, vennero istituiti centri di dimensioni ridotti il cui accesso era riservato
esclusivamente agli immigrati regolari. Questo provvedimento fu paradossale: si
ignorò deliberatamente che per entrare in possesso di un permesso di soggiorno è
necessario avere un lavoro regolare a tempo indeterminato e disporre di un allog-
gio. L’accesso a questi centri era quindi consentito a chi teoricamente non ne ave-
va bisogno.
La baraccopoli videro una progressiva ascesa in termini di dimensioni e di
persone che le abitano fino ad arrivare ai giorni nostri, a una popolazione stimata
di circa 6.000 – 8.000, persone e una politica che interviene solo con l’attuazione
di sgomberi nel momento in cui questi insediamenti diventano visibili o rappresen-
tano un problema in termini di ordine pubblico. Quello degli insediamenti abusivi è
un nodo che gli enti locali sembra non siano in grado di risolvere, e anche gli
sgomberi seguono una ‘logica’ che sembra favorire gli aggregati più delocalizzati e
meno visibili. “L’impressione è avvalorata dal fatto che esistono alcuni insediamen-
ti la cui localizzazione è ben nota e monitorata dalle forze dell’ordine ma, cionono-
stante, sembrano essere al momento immuni da sgomberi. Questi insediamenti
sono caratterizzati da dimensioni relativamente contenute, da una distanza eleva-
ta dalle zone residenziali e da una sostanziale invisibilità rispetto alle vicine vie di
comunicazione, come strade, tangenziali, ecc. …”
7
.
Gli insediamenti costituiti prevalentemente da famiglie allargate si sono ri-
composti dopo i ripetuti allontanamenti, occupando aree di notevoli dimensioni con
una popolazione che raggiunge anche le 1.000 persone. Questi agglomerati sono
stati oggetto di ripetuti sgomberi; per citare l’esempio dell’area di via Barzaghi, lo
sgombero avvenuto nel 2001 ha portato all’occupazione dello stabile abbandonato
di via Adda, a sua volta successivamente ‘bonificato’. In questa occasione sono
stati anche effettuate espulsioni di massa, seguite da azioni di rastrellamento alla
ricerca degli ex occupanti.
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Osservatorio NAGA, Gruppo Medicina di Strada, Abitare la città invisibile. Rapporto 2003-2004,
p.77.
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Sullo sgombero di via Adda si tornerà in seguito. Per il momento ci si limita a sottolineare che
l’articolo 4 del Protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, recita che “le
espulsioni collettive sono vietate”.