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sociali, allo stesso modo la società, rappresentata dalle scelte di consumo e d’investimento delle
persone, oppure dalla scelte politiche delle istituzioni pubbliche o ancora da esplicite manifesta-
zioni di approvazione/disapprovazione degli individui, è in grado influenzare le scelte e i com-
portamenti dell’impresa, sempre più con maggiore determinazione ed efficacia.
Infine il terzo fenomeno è rappresentato da un lato dalla nascita e dalla veloce diffusione, soprat-
tutto nei paesi anglosassoni, di una nuova disciplina economica, la business ethics, la cui finalità
è la ricerca di modelli teorici e conferme empiriche in grado di dimostrare come comportamenti
d’impresa socialmente orientati, non solo siano preferibili dal punto di vista del benessere socia-
le, ma rappresentino anche un elemento in grado di caratterizzare in modo positivo l’impresa sul
mercato; dall’altro dall’attuale propensione dimostrata dalle imprese di tutto il mondo – in parti-
colare le imprese di grandi dimensioni – verso approcci più attenti alle influenze reciproche con
la società. Conseguenza di tali tendenze, è stato il proliferare di comportamenti e strumenti volti
ad implementare la c.d. corporate social responsibility, come codici etici, bilanci sociali e am-
bientali, il proliferare di strumenti finanziari “etici” e così via.
L’obiettivo di questa Tesi è di contribuire criticamente alla riflessione sul tema della responsabi-
lità sociale dell’impresa, sfrondandola dai luoghi comuni e illustrandone gli effetti concreti sulla
gestione dell’impresa. Per fare ciò s’intende seguire un percorso lineare che si snoda attraverso
quattro tappe principali. Nel primo capitolo vedremo dapprima alcune delle più significative i-
nefficienze dell’economia capitalistica nell’assicurare uno sviluppo economico equo e sostenibi-
le, mentre in seguito vedremo le principali teorie etiche di mercato, la loro ricchezza di strumenti
di analisi e di comprensione delle istituzioni economiche e sociali. Le interpretazioni filosofiche
dell’attività economica stanno alla base delle teorie economiche, dei loro modelli e delle loro ap-
plicazioni. Il problema di fondo, che emerge e da cui dipende il discorso etico del mercato, è il
rapporto fra economia e società. In questo capitolo si tratta di individuare le condizioni morali
costitutive della definizione e del ruolo del mercato, mostrando come requisiti economici e re-
quisiti etici siano entrambi coinvolti nella definizione dei comportamenti economici e concorra-
no a costituirli.
Nel secondo capitolo si passa al cuore dell’argomento. Vedremo infatti più da vicino le relazioni
intercorrenti fra impresa e società in generale e fra impresa e i diversi stakeholders, considerati
come parte integrante del sistema degli interessi che definiscono il soggetto economico.
Considereremo altresì le teorie alla base della business ethics e i fondamenti teorici di economia
della cooperazione a sostegno di questa recente disciplina di impronta anglosassone. Il tema
della cooperazione, certamente più suggestivo, perché apre la strada alle differenti forme di
collegamento, collaborazione, alleanza tra impresa e i suoi interlocutori socio-economici.
Anticipando la tesi principale, che in seguito argomenteremo possiamo fin d’ora affermare che la
- xiii -
principale, che in seguito argomenteremo possiamo fin d’ora affermare che la premessa logica
per il successo e la stabilità dell’impresa, quale istituzione in grado di regolare ed organizzare le
transazioni economiche è una sorta di contratto sociale costitutivo, benché spesso implicito, tra i
suoi stakeholders, e idoneo a colmare l’inevitabile incompletezza che caratterizza i rapporti con-
trattuali (e non) stipulati dall’impresa. Vedremo che l’introduzione del contratto sociale ci per-
metterà di risolvere alcuni quesiti ancora aperti nella teoria economica classica; ad esempio ci
permetterà di capire perché l’uomo (e quindi anche l’impresa) può comportarsi in modo altruisti-
co e cooperativo, oppure sotto quali condizioni il dilemma del prigioniero può essere risolto, e
infine vedremo come problemi quali il rapporto principale-agente assumano nuove connotazioni
e nuovi risvolti.
Daremo infine, un rapido sguardo agli interventi legislativi in tutto il mondo, a favore della re-
sponsabilità sociale dell’impresa con particolare attenzione all’Unione Europea e al nostro Paese.
Il terzo capitolo percorre una rassegna critica degli “strumenti” maggiormente utilizzati dalle
imprese che si stanno cimentando in un approccio socialmente orientato della propria gestione e
nella formulazione delle proprie scelte. Vedremo quindi l’efficacia di diversi strumenti ormai
classici come il bilancio sociale, i codici etici e le certificazioni sociali e ambientali, nonché al-
cune esperienze nuove, frutto della capacità di inventiva e fantasia delle imprese moderne.
Infine il quarto capitolo fornisce un collegamento fra quanto detto nei capitoli precedenti e un
tema assai vasto, vale a dire quello della responsabilità sociale nel mondo finanziario. È inevita-
bile il riferimento alla responsabilità morale degli operatori finanziari recentemente messi sotto
accusa dall’opinione pubblica a causa degli scandali finanziari in cui sono stati protagonisti. Lo
sguardo si sposta poi sul tema della responsabilità nelle scelte d’investimento, con particolare at-
tenzione alla recente diffusione dei fondi etici e ad altri strumenti finanziari socialmente respon-
sabili ed al difficile tema dell’esclusione del diritto di accesso al credito, e più in generale verso
considerazioni critiche circa l’efficacia dei mercati finanziari moderni nell’assicurare
un’allocazione delle risorse disponibili che sia socialmente ottima. Cercheremo di illustrare la
relazione intercorrente fra scelte d’investimento e comportamento delle imprese. Forme di con-
sumo e risparmio socialmente responsabile, possono fungere da stimolo a una maggiore respon-
sabilità sociale di imprese e istituzioni, e al tempo stesso rispondere all’insoddisfazione che la
società civile in più occasioni ha dimostrato nei confronti di uno sviluppo economico non coniu-
gato con la promozione del benessere sociale.
Fino a non molto tempo fa era opinione diffusa che il vantaggio competitivo si potesse ottenere
offrendo prodotti e servizi di qualità ad un prezzo inferiore rispetto a quello praticato dai concor-
- xiv -
renti. Oggi segnali provenienti da diverse parti ci fanno pensare che il successo competitivo delle
imprese capitalistiche moderne debba nascere necessariamente dall’unione di criteri di efficienza
economica con la capacità dell’impresa di soddisfare le attese dei membri della società civile.
Forse al lettore, questa dissertazione solleverà più quesiti che risposte, il tema della responsabili-
tà sociale d’impresa è un tema assai vasto, eppure ancora molto sottovalutato e poco esplorato
nelle sue diverse sfaccettature di cui mancano definitive conferme empiriche. Per questo motivo,
la ricerca su questo argomento merita di essere approfondita e completata ulteriormente, soprat-
tutto alla luce dell’attuale congiuntura economica caratterizzata da forti incertezze rapidi muta-
menti.
Nonostante l’inevitabile incompletezza nella trattazione di un tema così vasto, spero che dalla
lettura di questo lavoro appaia evidente come la tendenza alla correttezza e alla trasparenza, così
come l’imperativo della qualità delle produzioni e la responsabilizzazione sulla salvaguardia am-
bientale siano condizioni oggi necessarie per competere in un mondo ampiamente disatteso e in-
soddisfatto, e come l’attenzione verso la società e a tutti gli stakeholders, non prevarichi i fini
dell’impresa, bensì rappresenti un investimento, una strategia acuta e lungimirante per poter so-
pravvivere e crescere in un ottica di lungo periodo, riconquistando la fiducia della società persa
ormai da troppo tempo.
- 1 -
CAPITOLO I
Etica ed
Economia
1.1 Il problema
Quando si parla di finanza etica e di economia sostenibile, si inizia subito a discutere dei fonda-
menti teorici, degli strumenti per attuarli e delle prospettive future. Forse in questo tipo di di-
scussione manca una premessa fondamentale. Quando è nata la necessità di dare dei valori
all’economia? Quali sono i motivi che hanno portato a discutere uno sviluppo sostenibile? Per-
ché si sta cercando di definire responsabilità ai vari attori economici? La ragione di fondo è rin-
tracciabile nei problemi che affliggono costantemente l’uomo e il pianeta in cui vive. Ci si do-
manda allora cosa sia andato “storto” nel processo evolutivo dell’uomo, cosa non abbia funzio-
nato e quali misure possono essere attuate per intraprendere un nuovo sviluppo equilibrato e so-
stenibile, che crei ricchezza e benessere, ma che la sappia anche distribuire equamente. Le righe
che seguono hanno l’intento di illustrare brevemente solo alcuni dei problemi globali più impor-
tanti. Hanno il solo scopo di ricordare perché si parla di etica in economia e perché si parla di re-
sponsabilità degli attori sociali. Non si vuole in questa sede giudicare e demonizzare il sistema
economico attuale, ma solamente esporre alcuni dati di fatto.
1.1.1 Popolazione
Da tempo ci si domanda se la crescita della popolazione, l’avanzamento delle scienze ed il pro-
gresso economico rappresentino un vantaggio o siano invece la causa di un crescente danno
all’ambiente naturale. Questa domanda, seppur semplice nella forma, racchiude l’essenza del di-
battito sui temi della tutela dell’ambiente perché affronta il problema della sostenibilità ambien-
tale di una popolazione mondiale crescente.
Nella discussione tra le differenti scuole di pensiero sono emerse visioni contrastanti, che sono
parse difficilmente conciliabili perché costituiscono elemento fondante di diverse concezioni
dell’uomo e filosofie di vita. Tra di esse si sono distinte due posizioni interpretative in forte con-
trasto fra di loro.
Esiste una visione “pessimista” del problema, quella legata alla filosofia di Thomas Robert Mal-
thus. Malthus visse dal 1766 al 1834, quindi nel pieno della prima rivoluzione industriale. In
Capitolo 1 Economia ed Etica
- 2 -
quel periodo (1801) la popolazione dell’Inghilterra superava di poco i 10 milioni di abitanti e già
Malthus si accorse dell’importanza della relazione tra popolazione e risorse disponibili. Il pro-
blema insomma era come sfamare una popolazione che tendeva a crescere mentre il cibo dispo-
nibile era sempre più scarso. Nella sua opera più importante Saggio sul principio della popola-
zione (1978) Malthus dimostra come sia emerso dall’esperienza americana il fatto che la popola-
zione cresca con una progressione geometrica, mentre dalla terra si ricavano maggiori alimenti
solo in progressione aritmetica. Gli scenari ipotizzati da Malthus sono estremamente pessimisti-
ci. Egli sosteneva che vi sono tre modi per controllare la crescita demografica: il freno morale, il
vizio e la miseria. Il primo venne scartato essenzialmente per la scarsa fiducia nell’uomo, il vizio
era socialmente inaccettabile e comunque le perdite da guerre ed epidemie venivano rapidamente
rimpiazzate. Rimane solo la miseria. Malthus maturò la convinzione che l’aumento della popola-
zione e la scarsità delle risorse avrebbe portato solo alla miseria e solo così si sarebbe arrestato
l’aumento della popolazione. Per fortuna non si sono verificate le previsioni apocalittiche di
Malthus, l’uomo grazie al progresso scientifico e tecnologico è riuscito a produrre più beni e più
ricchezza di quanto ne sia effettivamente necessaria. Il problema oggi è un altro: l’equa distribu-
zione della ricchezza mondiale fra la popolazione. Il problema non è più riuscire a produrre di
più per sfamare tutti, ma distribuire quanto già oggi si produce per assicurare una vita dignitosa a
tutti. La soluzione malthusiana all’incremento demografico è la riduzione del tasso di crescita
della popolazione attraverso politiche di controllo delle nascite.
Dall’altra parte ci sono invece i pensatori più ottimisti, i quali ritengono che la crescita demogra-
fica ed il progresso scientifico ed economico siano la migliore espressione della capacità umane
di progredire ed indicano in questi avanzamenti la più sicura garanzia di una sempre migliore
protezione dell’ambiente. Questa scuola di pensiero indica nell’uomo la più grande ricchezza del
pianeta. La soluzione alla crescita demografica non è quindi il controllo delle nascite, bensì è
raggiungibile attraverso lo sviluppo culturale e scientifico della popolazione. Questa tesi si basa
sull’esperienza europea e americana, che dopo aver visto anni di elevata crescita demografica
grazie ad un graduale sviluppo culturale e scientifico durato centinaia di anni ha raggiunto un
numero di nascite circa pari al tasso di mantenimento o tasso di ricambio generazionale (2.1 na-
scite per famiglia).
La tesi della scuola malthusiana è prevalsa fino alla fine degli anni Sessanta, mentre oggi la ten-
denza prevalente, anche fra gli economisti e scienziati, è quella opposta, ritenendo che la teoria
di Malthus sia errata sia nelle previsioni che nel metodo. Quest’ultima teoria è supportata anche
dall’evidenza empirica circa il rapporto che oggi intercorre fra incremento demografico e cresci-
ta della ricchezza mondiale, infatti dal 1900 al 2000 la popolazione è passata da 1,6 a 6 miliardi
§ 1 Il Problema
- 3 -
di individui, mentre si è assistito, nello stesso periodo ad un incremento della ricchezza globale
da 20 a 40 volte
1
.
La seconda soluzione, ovvero la sostenibilità della crescita della popolazione per mezzo di un
progressivo sviluppo economico, scientifico e culturale, è a mio parere quella ottimale a garanti-
re uno sviluppo graduale ed equilibrato dell’uomo. Questa tesi è sostenuta con forza anche dalla
Chiesa Cattolica e dalle maggiori religioni, nonché dalla quasi totalità degli stati nazionali. An-
che la Cina, storico fautore della politica del controllo delle nascite, si sta ora concentrando su
uno sviluppo sostenibile. Ciononostante sono molti quelli che sostengono, vista la criticità della
situazione attuale e le non rosee prospettive future, la necessità di un controllo della crescita de-
mografica perché si apprezzino gli effetti nel breve periodo [Sartori-Mazzoleni, 2003].
Trecento anni fa il problema era la ricerca di nuove risorse per soddisfare una domanda crescen-
te, temendo che la scarsità delle risorse avrebbe portato miseria fra la popolazione. Oggi l’uomo
ha dimostrato che è in grado di produrre molto più di quello che è necessario, ma non è ancora
riuscito a distribuire equamente, fra tutta la popolazione, quanto prodotto. A questo problema se
ne aggiunge un altro: l’attuale livello di produzione e di consumi al presente tasso di crescita sarà
ancora sostenibile dal nostro pianeta e dall’uomo senza elevati costi in termini di benessere e fe-
licità? [Lanza, 2003].
Il nostro è un mondo in cui sempre più persone sono prive di mezzi di sostentamento necessari
per condurre una vita dignitosa. La popolazione globale supera oggi i 6,3 miliardi di individui,
più del doppio di quella del 1950, e si prevede che entro il 2050 crescerà fino a 7,9-10,9 miliar-
di
2
. Tale incremento riguarderà quasi interamente il mondo in via di sviluppo, dove le risorse so-
no già in situazione di sovrasfruttamento. In questi paese quasi 1,2 miliardi di persone – poco
meno di un quanto della popolazione mondiale – sono classificate dalla World Bank in stato di
“povertà assoluta”, cioè sopravvivono come meno di un dollaro al giorno e sono quindi molto
vulnerabili a ulteriori calamità, si tratti di malattie, siccità o scarsità di generi alimentari. Mentre
le persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno sono 2,8 miliardi; in altre parole quasi me-
tà della popolazione mondiale vive in condizioni di vita inaccettabili
3
.
La povertà in assoluto è forse diminuita, negli ultimi trent’anni, ma il divario fra ricche e poveri
è aumentato in maniera preoccupante, nonostante il fatto che molte aree del globo abbiano spe-
rimentato una crescita economica senza precedenti.
1
Dipartimento degli Affari Economici e Sociali Divisione Popolazione (ONU), Popolazione, ambiente e sviluppo.
Rapporto sintetico, New York, 2001 (ed. italiana 21° secolo)
2
Dati Us Census Bureau, 2003
3
ONU, op. cit.
Capitolo 1 Economia ed Etica
- 4 -
Circa 420 milioni di persone vivono in paesi che non hanno terra sufficiente a fornire cibo. Que-
ste nazioni dipendono dalle importazioni di generi alimentari, cosa molto rischiosa per i paesi più
poveri. Al 2025 la popolazione che dovrà fare ricorso a importazioni di cibo potrebbe superare il
miliardo. Inoltre in molti paesi ricchi la qualità del terreno coltivabile si sta deteriorando e le pro-
spettive per il futuro non sono positive agli attuali trend.
Tale ingiustizia persiste nonostante il fatto che l’umanità nel suo complesso abbia sperimentato
nel XX secolo un miglioramento senza precedenti delle proprie capacità di produrre e di porre la
produzione la produzioni a servizio delle condizioni di vita. La ricchezza, l’integrazione e le ca-
pacità tecnologiche globali non sono state mai così elevate, ma la distribuzione dei dividendi di
tali progressi è straordinariamente iniqua. Il reddito medio dei 20 paesi più ricchi è 37 volte il
reddito medio dei paesi più arretrati e quel che è peggio è che tale divario non è andato dimi-
nuendo nell’era della globalizzazione, bensì è raddoppiato.
1.1.2 Ambiente
Esiste una relazione diretta fra crescita demografica e consumo di energia e di materie prime. E-
siste anche una relazione diretta tra consumo di materie prime e, energia ed inquinamento. Que-
sta relazione è sempre esistita, ma solo negli ultimi 25 anni è divenuto un problema di rilevanza
mondiale. Ne è una prova il fatto che da circa trent’anni si è provato più volte a raggiungere de-
gli accordi internazionali su questi temi. Sono state molte le conferenze internazionali sullo svi-
luppo sostenibile organizzate dall’ONU. Il primo tentativo concreto di tradurre il principio di in-
terdipendenza globale in un criterio politico si è avuto con lo Statuto della Società delle Nazioni
e, in maniera molto più evoluta nella carta delle Nazioni Unite. Nel 1944 quando la carta fu re-
datta non venne incluso l’aspetto ambientale in questa sostanziale ricognizione del principio
di’interdipendenza. Infatti, vigeva allora l’idea che le risorse del nostro pianeta fossero inesauri-
bili e, soprattutto che fosse inesauribile la capacità di riassorbire le sostanze nocive prodotte
dall’uomo. Bastarono due decenni di forsennata rincorsa alla produzione per rendere evidente
l’insufficienza di un simile approccio. I primi segnali concreti di pubblica attenzione per lo stress
imposto all’ecosistema risalgono alla fine degli anni ’60, e in questo contesto fu organizzata nel
1972 a Stoccolma la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano. Da quella data fino
ad oggi si sono susseguite numerose conferenze internazionali nelle quali si sono osservate due
tendenze opposte. Da un lato la scienza ha dimostrato sempre con maggiore precisione come
l’uomo e l’attuale modello di sviluppo abbia effetti sull’ecosistema. Dall’altra parte si è assistito
alla costante difficoltà a raggiungere degli accordi internazionali su uno sviluppo sostenibile. In-
§ 1 Il Problema
- 5 -
fatti, i più importanti accordi mondiali sulle emissioni inquinanti e su uno sviluppo sostenibile
tenutisi in questi ultimi anni non hanno visto risultati apprezzabili e significativi cambi di dire-
zione. Alla fine del 2001 anche il Segretario generale dell’ONU ammetteva l’esistenza di un gap
nell’applicazione di quanto deciso al Summit della Terra del 1992 sottolineando il «perdurare di
un approccio frammentario allo sviluppo sostenibile». Tuttavia, nonostante la difficoltà degli sta-
ti nazionali a raggiungere ad accordi precisi, negli anni si è potuto osservare il crescere
dell’interesse dell’opinione pubblica a questi problemi di carattere mondiale, quali lo sviluppo
sostenibile, l’ambiente, i diritti umani. Di fronte a questi grandi sfide, la risposta politica è inade-
guata: Johannesbourg ne è stata una drammatica conferma e diventa paradossale constatare come
l’inadeguatezza sembra aumentare in modo proporzionale all’acquisizione di maggiori cono-
scenze scientifiche e di una migliore definizione del concetto di sostenibilità. Nonostante questi
insuccessi, un beneficio c’è stato. È nata e si è subito diffusa a macchia d’olio presso l’opinione
pubblica la consapevolezza che l’attuale modello di sviluppo pur creando ricchezza nel breve pe-
riodo, ne distrugge nel lungo periodo, e che l’uomo ne è responsabile.
Tabella 1.1.1 Principali Conferenze internazionali sull’ambiente
Human Environment Stoccolma (1972) Nazioni Unite Rapporti fra uomo e ambiente
Conferenza di Ginevra Ginevra (1979) Nazioni Unite Lancio del World Climate Program
Conferenza di Toronto Toronto (1988) Nazioni Unite Riduzione emissioni di CO2 e migliore utiliz-
zo delle risorse entro 2005
Conferenza mondiale sullo
sviluppo sostenibile
Rio de Janeiro (1992) Nazioni Unite Basi per uno sviluppo futuro globale impron-
tato sulla sostenibilità
Vertice di Kyoto Kyoto (1997) Nazioni Unite Riduzione emissioni di gas serra
Conferenza mondiale sullo
sviluppo sostenibile
Rio de Janeiro (2002) Nazioni Unite Basi per uno sviluppo futuro globale impron-
tato sulla sostenibilità
Fonte: sito web www.un.org
L’importanza di energia e materie prime deriva dal suo duplice ruolo: di pilastri per l’attività ed
economica e il benessere umano e di forza all’origine di molte preoccupazioni ambientali tra i
quali i cambiamenti climatici, le piogge acide e l’inquinamento. Dal momento che il consumo di
energia è funzione crescente della crescita economica e del livello di sviluppo, tale consumo è
distribuito in maniera diseguale nel mondo. Le economie di mercato più sviluppate che coinvol-
gono un quinto della popolazione mondiale, consumano tuttora quasi il sessanta percento delle
fonti di energia primaria mondiali, sebbene la loro quota percentuale di energia e materie prime
stia diminuendo. Come conseguenza dello sviluppo e della rapida sostituzione delle fonti energe-
Capitolo 1 Economia ed Etica
- 6 -
tiche tradizionali ad opera delle fonti energetiche commerciali (principalmente combustibili fos-
sili), alcuni paesi in via di sviluppo hanno modelli di consumo simili a quelli delle economie svi-
luppate.
L’uso di combustibili fossili ha portato ad una costante crescita nelle emissioni globali di biossi-
do di carbonio (CO
2
) e all’inasprimento dell’effetto serra che contribuisce al riscaldamento glo-
bale. Le emissioni globali di CO
2
annuali che derivano dalla combustione di carburanti fossili si
sono quadruplicate a partire dal 1950. Ovviamente le emissioni pro-capite maggiori sono quelle
del Nord America ed Europa, tuttavia questa tendenza si sta modificando a causa delle crescenti
emissioni dei paesi in via di sviluppo
4
.
Alcune forme di inquinamento stanno alterando i cicli chimici globali che regolano i processi
chiave degli ecosistemi e quindi anche del clima. Nel 2000 solo il 17% dei consumi energetici
mondiali derivava da fonti rinnovabili e non inquinanti, mentre il restante 83% era costituito da
fonti inquinanti dei quali il 77% combustibili fossili.
I costi legati alla produzione di energia considerano sia i costi di produzione sia i costi esterni – o
esternalità negative – (costi ambientali e sanitari). Fra i costi aggiuntivi di produzione e di im-
piego delle fonti energetiche tradizionali vanno conteggiati la distruzione causata dall’estrazione
delle risorse, dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua e del suolo, dalle piogge acide a dalle per-
dite di biodiversità. In base ad un’analisi, durata più di dieci anni, ricercatori europei e statuni-
tensi hanno calcolato che i costi sanitari e ambientali associati all’utilizzo di forme energetiche
tradizionali sono equivalenti all’1-2% del PIL annuale dell’unione europea e che i prezzi pagati
per queste forme energetiche sono decisamente inferiori al loro costo totale.
Tabella 1.1.2 Costi dell’elettricità per fonte energetica
Fonte energetica Costi di produzione
1
(in centesimi/KWh)
Costi esterni
2
Costi totali
Carbone/lignite 4.3-4.8 2-15 6.3-19.8
Gas naturale 3.4-5.0 1-4 4.4-9.9
Nucleare 10-14 0.2-0.7 10.2-14.7
Biomassa 7-9 1-3 8-12
Idroelettrico 2.4-7.7 0-1 2.4-8.7
Fotovoltaico 25-50 0.6 25.6-50.6
Eolico 4-6 0.5-0.25 4.05-6.25
1. Per USA ed Europa 2. Costi ambientali e sanitari per 15 paesi europei.
Fonte: State of the World 2003
4
Janet Sawing, in State of the World 2003.
§ 1 Il Problema
- 7 -
La prosecuzione di queste tendenze pone rischi di riscaldamento globale, che potrebbe provocare
un innalzamento del livello dei mari, allagamento di aree costali basse, la possibile diffusione di
malattie trasmesse da insetti e riduzione della produzione agricola.
Le emissioni inquinanti, dovute sia ai sistemi di produzione sia alla difficoltà di un adeguato
smaltimento dei rifiuti di più di 6,2 miliardi di persone, purtroppo non si limitano
all’inquinamento dell’aria ma colpiscono anche l’acqua e la terra. In questi ultimi decenni si è
assisto in certe aree geografiche ad una diminuzione di acqua potabile pro-capite. Questa dimi-
nuzione è stata causata soprattutto dall’impoverimento e dall’inquinamento delle falde e
dall’aumento della popolazione mondiale. Infatti la quantità di acqua potabile immediatamente
accessibile all’uomo non supera lo 0,7% dell’acqua sulla superficie della terra ed è sempre la
stessa dall’alba della civiltà umana. Già oltre mezzo miliardo di persone vive in regioni afflitte
da siccità cronica. Al 2025, tale cifra potrebbe probabilmente quadruplicare, raggiungendo i 2,4-
3,4 miliardi di persone. È vero che esistono enormi inefficienze nel sistema di estrazione e distri-
buzione dell’acqua potabile, ma il probabile aumento della popolazione di almeno il 27% nei
prossimi 50 anni difficilmente aiuterà il processo di stabilità sociale ed ecologica
5
. L’acqua non è
mai stata considerata una risorsa scarsa, infatti in molti libri di economia beni quali acqua e aria
sono classificati come beni illimitati, ma solo oggi si riconosce quanto questo bene sia prezioso
ed essenziale per la salute, la produzione di cibo e lo sviluppo socio-economico.
Infine lo sviluppo economico dalla prima rivoluzione industriale fino ai giorni nostri ha avuto ef-
fetti vastissimi sulle specie animali e sulla biodiversità. Si stima che nel nostro pianeta vivano da
10 ai 30 milioni di specie animali e vegetali dei quali solo circa 2 milioni è conosciuta. Attual-
mente gli ecosistemi di tutti i generi sono sotto pressione ovunque nel mondo, non si conoscono
zone della terra dove non ci sia traccia di inquinamento umano. La biodiversità ha anche un evi-
dente impatto sullo sviluppo economico e sull’economia. Le piante e gli essere animali costitui-
scono la fonte principale di nuove medicine e di nuove cure per l’uomo. Considerato che si co-
nosce solo una piccola percentuale degli esseri viventi mondiali, contribuendo all’estinzione di
specie animali e vegetali, per perderebbero per sempre preziose fonti potenziali di cibo e medici-
ne. È stato dimostrato inoltre che in ecosistemi ricchi di biodiversità la qualità dell’acqua è mi-
gliore, le inondazioni sono più rare ed è maggiore la capacità di assorbire e smaltire i rifiuti.
L’impatto economico della biodiversità ha quantificazioni monetarie sorprendenti. Si è stimato
che il valore dei servizi offerti all’uomo dagli ecosistemi mondiali, come l’impollinazione degli
5
Ibidem
Capitolo 1 Economia ed Etica
- 8 -
insetti e la capacità di filtraggio e depurazione dell’acqua da parte del sottosuolo, ammonta a
61.000 miliardi di dollari pari al doppio dell’economia mondiale
6
.
Le foreste e la biodiversità hanno un impatto sull’intero pianeta che va ben oltre i confini nazio-
nali sia nello spazio che nel tempo. Per questo la cooperazione internazionale è essenziale per in-
tegrare meglio le questioni ambientali nei processi decisionali mondiali, regionali e nazionali.
1.1.3 Diritti umani e conflitti armati
Discutere in questa sete di un tema così vasto non è opportuno. Vista la complessità
dell’argomento, illustrandolo brevemente finirei sicuramente per sottovalutare l’importanza dei
diritti umani e non metterei sufficientemente in luce la criticità della situazione attuale.
Il problema della violazione dei diritti fondamentali è un fenomeno che affligge senza esclusione
tutte le aree del pianeta. Sono veramente pochi gli stati nazionali nei quali Amnesty International
non ha riscontrato violazioni palesi dei diritti umani e civili (Amnesty International Rapporto
Annuale 2003). Sono coinvolti sia paesi economicamente e culturalmente sviluppati sia i paesi
cosiddetti in via di sviluppo e i paesi non sviluppati. Le cause sono molteplici, i responsabili dif-
ficilmente individuabili e spesso impuniti. Sicuramente la causa principale è lo scoppio di con-
flitti armati.
Durante tutto l’anno l’agenda politica internazionale e i titoli degli organi di informazione sono
stati incalzati dalla "guerra contro il terrorismo" e dalla minaccia della guerra all’Iraq. Sull’onda
degli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti d’America e in nome della lotta al "terro-
rismo", i governi hanno intensificato la repressione degli oppositori politici, hanno compiuto ar-
resti arbitrari e hanno introdotto leggi ad ampio raggio e spesso discriminatorie che hanno mina-
to le vere fondamenta del diritto internazionale sui diritti umani e del diritto umanitario.
Nel frattempo, alla ricerca di sicurezza, politica e profitto, in tutto il mondo i diritti umani fon-
damentali sono stati calpestati e le sofferenze di milioni di persone che ne sono derivate sono
rimaste largamente ignorate.
In Africa, innumerevoli vite e mezzi di sussistenza sono stati distrutti in conflitti spesso incorag-
giati ed armati da potenze esterne, durante i quali sono stati commessi abusi nella più totale im-
punità
Lontani dai riflettori della "guerra contro il terrorismo", in Africa i conflitti, la mancanza di sicu-
rezza e la violenza hanno continuato a pesare sulla vita di milioni di persone. Base della violenza
6
Mia McDonald – Danielle Nierenberg, in State of the World 2003.
§ 1 Il Problema
- 9 -
sono state lotte mirate principalmente al controllo politico ed economico delle risorse naturali e a
farne le spese sono state soprattutto vittime civili.
Il numero dei conflitti armati negli ultimi cinquant’anni non è sceso, la maggior parte dei quali
riguardano aree del sud-est asiatico e dell’Africa. Questi paesi continuano ad investire grosse
somme di denaro in armamenti, spesso indebitandosi con i paesi sviluppati, dimenticandosi dei
problemi sanitari, economici e sociali che li affliggono. Gli investimenti mondiali dal 1990 al
1996 ammontavano a 1500 miliardi di dollari, dei quali 1.000 miliardi ha riguardato paesi in via
di sviluppo aggravando la loro situazione di indebitamento e sottraendo risorse preziose e scarse
per il loro sviluppo, mentre nel 1997 il debito dei paesi in via di sviluppo ammontava a 2.200 mi-
liardi di dollari
7
.
È cosa nota che dietro i conflitti vi siano quasi sempre dei secondi fini economici. Fino ad un
passato recentissimo, i concreti interessi economici di una nazione - o più spesso quelli di una
classe dirigente - potevano effettivamente consigliare azioni belliche e politiche imperialistiche.
Dall’approvvigionamento di materie prime al controllo sulle vie dei commerci, dalla ricerca di
terre dove convogliare manodopera esuberante, alla creazione di condizioni coloniali per gli in-
vestimenti, le motivazioni economiche si sono sempre accompagnate e sovrapposte a quelle di
potere e di equilibrio strategico. E vi era una parte di verità nell’affermazione di Marx secondo
cui i sistemi capitalisti portavano in sé il germe dell’imperialismo
8
. Tuttavia la globalizzazione
sta cambiando le carte in tavola: lo scenario economico va delineandosi sempre di più come uno
scenario di interdipendenza e contatto, come una rete di attività complementari e trasnazionali,
spesso ancora ingiuste in questa fase, ma capaci di fondare una vera e propria necessita econo-
mica della cooperazione. Il progresso tecnologico, dopo aver innestato il germe
dell’imperialismo nel capitalismo industriale, apre invece le porte ad automatismi che consolida-
no la cooperazione e la pace delle economia post-moderne [Mastrojeni, 2000].
I conflitti armati pur essendo la causa principale delle violazione dei diritti umani non sono
l’unica. La povertà, la scarsità delle materie prime, la siccità, negano ad un quinto della popola-
zione di vivere una vita dignitosa e spesso negano la vita stessa. In un mondo globalizzato, dove
alcuni dispongono di grandi ricchezze ed opportunità mentre per molti vi è solo miseria e dispe-
razione e dove le parole sono di guerra alle nazioni e non di guerra alla povertà non viene negata
solo la giustizia legale ma anche su quella sociale. Tutti i diritti umani hanno un valore intrinseco
ma, il rispetto di ciascuno di essi è fondamentale perché siano rispettati tutti nel loro inscindibile
complesso. Sono molti gli emarginati, coloro che, vivendo la miseria, patiscono gravi e sistema-
tiche privazioni di gran parte dei loro diritti. Assistenza sanitaria, acqua potabile, adeguata ali-
7
World Watch Institute, State of the War 1999.
8
Michael Renner, in State Of the War
Capitolo 1 Economia ed Etica
- 10 -
mentazione sono spesso al di fuori della loro portata. Essi sono esclusi dall’istruzione e dal lavo-
ro; molti sono sfollati dalle loro terre; spesso la polizia si rifiuta di entrare nei loro quartieri per
difendere le donne dalla violenza o per contrastare attacchi razzisti o per proteggerli dal crimine.
I tentativi di queste persone di ottenere giustizia attraverso i tribunali, la polizia o gli organismi
di controllo dello Stato rimangono inascoltati a causa degli svantaggi derivanti da analfabetismo,
discriminazione, povertà, oltre che dagli abusi di potere di chi esercita l’autorità. L’accesso degli
emarginati ai meccanismi di giustizia è spesso loro negato per motivi etnici, religiosi o linguistici
o semplicemente perché la loro povertà detiene scarsa se non nulla influenza sulle decisioni di
chi li governa. In un simile contesto donne e le ragazze subiscono un’esclusione ancora maggio-
re
9
.
Nel mondo, 211 milioni di bambini e bambine lavorano. Hanno meno di 14 anni, dovrebbero an-
dare a scuola, giocare, avere tempo per riposare, e invece lavorano: nei campi, nelle discariche,
sulla strada, ovunque vi siano opportunità di guadagnare qualcosa per aiutare a sopravvivere sé e
la propria famiglia. Alcuni riescono a trovare il tempo per frequentare la scuola, ma la maggior
parte di essi non ha mai messo piede in un’aula scolastica, ed è probabile che non lo farà mai. A
meno che qualcuno li aiuti. Le stime più recenti ci dicono che i bambini lavoratori vivono soprat-
tutto in Asia, ma che è l’Africa il continente in cui, in proporzione, è più alta la probabilità che
un bambino sia costretto ad un’occupazione precoce. Tuttavia, i baby-lavoratori sono numerosi
nei paesi a medio reddito (5 milioni nell’Est europeo, e il dato è in crescita a causa della difficile
transizione all’economia di mercato), e non mancano neppure nei paesi industrializzati: in Italia,
l’ISTAT ne ha censiti circa 145.000, mentre la CGIL ne fa una stima quasi tre volte superiore
Il lavoro minorile è un fenomeno assai complesso, e non esistono soluzioni semplici. Soltanto un
bambino lavoratore su 20 è impiegato nell’industria che produce beni destinati all’esportazione.
Le vittime dello sfruttamento economico vanno ricercate altrove, nei meandri nascosti
dell’economia informale: agricoltura (70% del totale), lavoro domestico, commercio al minuto,
prostituzione, attività illegali. In questa zona d’ombra dove povertà, ignoranza e discriminazione
si incrociano con l’assenza di qualsiasi forma di assistenza sociale, non è sempre facile dare un
volto e un nome a chi sfrutta: ma, di certo, per ogni bambino o bambina che lavora c’è un diritto
umano negato
10
.
Non è pensabile che il lavoro minorile scompaia dal mondo oggi, e neppure domani. Crisi eco-
nomiche, conflitti, spostamenti di popolazione per cause naturali e non, e soprattutto la pandemia
dell’HIV/AIDS creano continuamente nuovi spazi per lo sfruttamento economico dei più piccoli.
9
Amnesty International, Rapporto annule 2002
10
Dati Unicef
§ 1 Il Problema
- 11 -
Segnali positivi sono però visibili. Il fenomeno del lavoro minorile, pressoché ignorato dalla co-
munità internazionale fino a metà anni Novanta, è oggi compreso e affrontato con strumenti mi-
rati, e le strategie di contrasto fanno tesoro di esperienze sempre più numerose e significative.
Dal 1999 ad oggi, sono ben 132 gli Stati che hanno ratificato la Convenzione n. 182 dell’OIL
(Organizzazione Internazionale del Lavoro) sull’abolizione delle forme peggiori di sfruttamento
economico dei minori. E si stima che dal 1996 ad oggi il numero dei bambini lavoratori nel
mondo sia diminuito di 40 milioni di unità, nonostante l’aumento della popolazione infantile
globale. Sono i primi segni di successo dell’impegno messo in campo in questi ultimi anni, e che
soltanto la volontà degli Stati e la solidarietà dei cittadini potrà rendere duraturo.
Tabella 1.1.3 Lo sfruttamento del lavoro minorile
Fascia d’età
Minori
lavoratori
Lavori
rischiosi
In
schiavitù
Regione
Bambini
lavoratori
% su tot. forza
lavoro
5-14 Anni 210,8* 111,3 Paesi industrializzati 2,5 2%
15-17 Anni 140,9 59,2
8,4
Est Europa e ex URSS 2,4 4%
Asia e Oceania 127,3 19%
America latina e Carabi 17,4 16%
Africa subsahariana 48,0 29%
Medio oriente e Nord Africa 13,4 15%
Infine il proliferare di armi leggere, la maggior parte delle quali viene prodotta nei paesi svilup-
pati, sta assumendo in questi ultimi anni livelli preoccupanti.
Mentre il mondo si concentrava sulle armi di distruzione di massa si è continuato a raccogliere
denunce di violazioni dei diritti umani favorite dalle forniture di armamenti ed armi leggere, spe-
cialmente nelle aree di conflitto. Ad agosto, la Sottocommissione delle Nazioni Unite per la
promozione e la protezione dei diritti umani ha proposto la nomina di un Relatore Speciale delle
Nazioni Unite sulle armi leggere. Ogni anno l’utilizzo di armi leggere causa più morti di tutte le
armi pesanti e di distruzione di massa.
Riassumendo ogni giorno nella maggior parte dei Paesi si verificano violazione dei più essenziali
diritti umani da essi stessi riconosciuti ed accettati nella dichiarazione dei diritti umani. La causa
principale è sicuramente lo scoppio di conflitti armati alimentati spesso da motivazioni politiche
ed economiche. Anche la mancanza di cibo, acqua, assistenza sanitaria ha come preclude i più
elementari diritti economici, sociali e civili. È molto difficile se non impossibile conoscere sem-
pre i responsabili di queste violazioni e per questo spesso rimangono impunite.
*Dati in milioni di unità
Fonte: ILO/IPEC 2002