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Introduzione
La responsabilità sociale d'impresa (Corporate Social Responsibility - CSR) è un concetto
che trae le proprie origini dai primi decenni del XX secolo. I diversi contesti economici,
politici e culturali ne hanno segnato l'evoluzione nel tempo e hanno stimolato il
confronto tra diversi autori.
Ancora oggi la CSR è un tema ampiamente dibattuto, soprattutto a fronte del fenomeno
della globalizzazione, della privatizzazione e delle preoccupazioni emergenti dal
deterioramento dell'ambiente, causato dall'attività economica-produttiva. Le molteplici
prospettive emerse negli anni non sono ancora giunte ad una definizione unanime di CSR,
né del concetto ad essa legato di stakeholder, letteralmente “portatore di interesse”.
Anche dal punto di vista istituzionale, non è stato raggiunto un accordo internazionale,
definitivo circa le misure e gli standard cui attenersi. Si tratta pertanto di un fenomeno
tuttora in evoluzione, che coinvolge ad ampio raggio le imprese, la società e l'ambiente.
Con la presente relazione, si intende fornire un quadro di sviluppo della responsabilità
sociale d'impresa. Si prenderanno in esame le diverse prospettive emerse dall’inizio del
secolo scorso ad oggi, verrà trattato il ruolo degli stakeholder, protagonisti del processo
evolutivo della CSR e, tra questi, saranno presi in particolare considerazione i lavoratori e i
consumatori in quanto figure indispensabili per la sopravvivenza dell’impresa.
Si analizzerà, infine, la risposta istituzionale all'esigenza di formulazione di linee guida e di
criteri cui le imprese possano aderire, a titolo volontaristico, qualora decidano di
assumere comportamenti socialmente responsabili.
Il principio del volontarismo si è mostrato degno di nota, per questo sarà trattato in un
capitolo a parte. Per le aziende che si adeguano agli standard sulla CSR sono previste, in
alcuni casi, delle certificazioni che attestano il comportamento pro sociale in merito a
diversi ambiti: qualità, ambiente, salute e sicurezza, CSR in senso generico. Anche in
assenza di una certificazione, le imprese possono decidere di esibire una rendicontazione
sociale del loro operato, nell’ottica di un’efficace comunicazione con i propri stakeholder.
L’intento dell’elaborato è, in conclusione, dare voce ad un concetto sempre più sentito,
esaminandone i punti di forza e di debolezza.
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1. Responsabilità sociale d’impresa. Un concetto in evoluzione.
La responsabilità sociale, intesa come filantropia d'impresa, è un concetto che assume
rilievo sin dagli anni '20 del secolo scorso, quando l'attenzione dei dirigenti d'azienda si
allarga dalle esigenze dei soli azionisti a quelle degli interlocutori sociali, e le lotte
sindacali inducono alla presa di coscienza delle condizioni di salute e sicurezza dei
lavoratori e allo sviluppo delle prime forme di welfare (Zarri 2009).
Dopo un periodo di arresto, i dibattiti e gli studi relativi alla CSR saranno ripresi solo a
seguito della cesura provocata dalla Grande Depressione del 1929 (Morri 2009).
Una tra le prime controversie in merito alla responsabilità sociale risale agli anni '30.
Berle e Means (1932) affermano che la corporation può essere considerata un'istituzione,
in cui proprietà e controllo risultano divisi e la discrezionalità ricade nelle mani dei
manager. Questi ultimi hanno doveri fiduciari e svolgono le proprie attività
sostanzialmente per conto degli azionisti (Berle 1954). Diversa è l'opinione di Dodd
(1932), il quale identifica la corporation come istituzione economica, che con il suo
operato, svolge un servizio sociale, a favore dell'intera comunità.
Il dibattito, dunque, si focalizza in principio sulla definizione e l'orientamento
dell'interesse sociale dell'impresa e, nello specifico, vengono a contrapporsi due
prospettive che oggi possiamo chiamare rispettivamente shareholder value e stakeholder
value (Sacco e Viviani 2007).
È solo negli anni '50 che inizia a svilupparsi un interesse di tipo empirico nei confronti
della CSR. In particolare, Bowen (1953) è tra i primi autori a proporre uno studio ad
ampio raggio circa lo sviluppo di una coscienza sociale negli uomini d'affari. Un effetto
della crisi del 1929 fu il crollo del mito del businessman come eroe dell'innovazione e del
successo; in questo contesto, l’approvazione pubblica iniziava ad orientarsi a favore di
figure di mediazione quali, ad esempio, i sindacalisti. Di fronte a tale nuovo scenario, i
manager reagirono dando origine all’idea che la corporation fosse, in realtà, l'istituzione
più idonea a servire la società.
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Dall’analisi di Bowen sui discorsi tenuti dai CEO delle più grandi corporation degli anni '40
emerge come la responsabilità sociale del businessman consista nell'adottare politiche,
prendere decisioni e agire in modo coerente rispetto ai valori della società civile. Gli
obiettivi economici del manager devono diventare anche scopi della vita collettiva; il
potere manageriale è, in questo senso, legittimato dall'utilità che il suo operato ha per la
società intera. A questo proposito, l’autore formula una lista di scopi caratteristici
dell’attività imprenditoriale, quali: standard di vita elevati, stabilità economica, sicurezza
personale, giustizia, libertà, sviluppo della persona, miglioramento della comunità,
sicurezza nazionale, integrità personale. Tali scopi rivelano una certa importanza data agli
aspetti sociali, che non si configurano come elementi aggiuntivi, bensì come azioni
integrate nell’ordinaria attività del businessman.
Anche Selekman (1958) ribadisce il fatto che la Grande Crisi abbia avuto delle
conseguenze importanti e sostiene che i capitalisti, per reagire ai suoi effetti, siano
arrivati a percepire la necessità di creare un movimento, volto a dare un’impronta
filosofico-morale al business. Così facendo, mettono in atto una strategia di
legittimazione, volta a far fronte alle istanze morali emerse dai lavoratori, che esprimono
socialmente e collettivamente i propri interessi. Rilevante, in questa prospettiva, è anche
il concetto di identità professionale che viene a delinearsi nel nuovo capitalismo
manageriale. Professionalizzarsi significa assicurarsi una legittimazione sociale su due
livelli: tecnico, relativo agli standard di prestazione, e morale, relativo al rispetto di una
condotta. Selekman appare scettico circa la possibilità di elaborare un codice morale dei
manager, paragonabile a un codice deontologico, il cui rispetto è monitorato da ordini o
associazioni professionali, che prevedono sistemi sanzionatori in casi di violazione delle
norme condivise. L’assunto di fondo è che l’attività del businessman è caratterizzata
essenzialmente dal perseguimento del profitto; per quanto le sue azioni possano favorire
beni e servizi di cui la società ha bisogno, si tratta di un effetto secondario, non regolato
da prescrizioni normative. Quella del businessman non può essere considerata una vera e
propria professione in quanto priva di un preciso ethos, dal momento che, di fatto, il
giudice dei manager è la società stessa intesa come mercato (consumatori, investitori,
clienti, fornitori). Tuttavia, in questa accezione, la società si configura come plurima,
incostante nei suoi giudizi e non in grado di agire come corpo coeso. Al di là del rispetto
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della legge e delle basilari clausole morali, come onestà e buona fede, non è quindi
pensabile la diffusione di un codice etico di categoria, piuttosto bisogna appellarsi alla più
ampia coscienza collettiva, come istanza sanzionatoria diffusa e non specifica per
tipologia.
Gli approcci presentati considerano la pressione sociale come causa principale per la
formazione di un’economia etica e concentrano il concetto di responsabilità sui manager
e sugli uomini d'affari, più che sull'impresa in generale.
Negli anni '60 il termine CSR può considerarsi finalmente affermato (Zarri 2009).
L’idea di CSR è “usata all’interno di un contesto manageriale per fare riferimento alle
decisioni e alle azioni degli uomini d’affari prese per ragioni almeno parzialmente al di là
del diretto interesse economico o tecnico dell’impresa” (Davis, 1960, p. 70).
Diversamente da Bowen, Davis sottolinea come tali pratiche responsabili debbano
considerarsi aggiuntive rispetto alle immediate finalità tecnico-economiche.
Responsabilità sociale d'impresa e potere sono inoltre indissolubilmente legati: una
mancata assunzione di responsabilità da parte del manager e dell'impresa non sarebbe
altro che una forma di arretramento, significherebbe, di fatto, lasciar campo a sindacati e
governo, che interverrebbero imponendo vincoli e doveri.
Negli stessi anni, Eells e Walton (1961) propongono una loro visione della CSR, che risiede
nella sostanziale capacità manageriale di “causare” gli eventi, cioè di operare una scelta
alla luce della visione delle conseguenze e delle risorse disponibili per l’azione. Ad essere
posto in primo piano sono quindi il livello qualitativo della performance imprenditoriale,
la razionalità decisionale, la capacità di analisi, pianificazione e amministrazione. “La
giustificazione di base per la responsabilità sociale d’impresa è al tempo stesso
economica e prudenziale. A meno che entrambi questi elementi non entrino nelle
decisioni manageriali nel regno della responsabilità sociale, l’altruismo d’impresa, anche
se apprezzato dai beneficiari, non è mai né lodevole né difendibile” (ibidem, p. 464).
McGuire, nel 1963, riprendendo i lavori di Davis sostiene che per un'impresa essere
socialmente responsabile implichi non limitarsi agli obblighi economici o legali. Applicare
la CSR significa estendere i propri doveri a delle responsabilità verso la società. L’impresa
pertanto “deve acquisire un interesse nella politica, nel benessere della comunità,