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Inoltre, aderire ad un codice etico - inteso come “contratto sociale” che ciascun 
soggetto che gravita attorno all’impresa decide di stipulare, limitando di fatto il 
proprio agire opportunistico, per garantirsi la collaborazione degli stakeholder, 
indispensabile per la soddisfazione dei propri interessi (Nobili 2003, pp. 337-338) - 
costituisce la declinazione di valori sentiti come comuni da chi opera nell’impresa 
(e non solo) e, essendo il prodotto di un’azione congiunta, la sua cogenza risulterà 
più forte di quanto sarebbe se fosse imposto dalla legge. 
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1.2 Gli stakeholder 
Gli stakeholder coinvolti nella gestione socialmente responsabile d’impresa sono 
soggetti portatori di un interesse (concetto affermatosi dal 1984 grazie ai lavori di 
Rhenman e Freeman), cioè soggetti che hanno un interesse rilevante in gioco nella 
conduzione dell’impresa a causa dei loro investimenti specifici oppure dei possibili 
effetti esterni positivi o negativi (le esternalità) derivanti dall’attività dell’impresa 
(Molteni  2004, pag. 5).  
Donaldson e Preston (1995) ritengono che la stakeholder theory implichi 
l’accettazione di due idee basilari: a) gli interessi di questi soggetti sono legittimi; 
b) questi interessi hanno un valore intrinseco, cioè meritano considerazione per sé 
stessi e non in base alle capacità del soggetto di contribuire agli interessi di qualche 
altro gruppo (ad esempio il gruppo degli azionisti). Agli interessi in gioco perciò 
non viene assegnato un grado di maggiore o minore rilevanza legato alla maggiore 
o minore rilevanza dell’attività e del contributo del relativo stakeholder, anche se 
solo gli stakeholder che hanno un rapporto contrattuale con l’impresa concorrono 
direttamente alla sua vita. Si può perciò postulare l’inadeguatezza della distinzione 
tra stakeholder interni ed esterni in quanto gli interessi in gioco sono di pari 
importanza (Costi 2006). Non a caso, un’altra definizione della responsabilità 
sociale d’impresa è quella di cittadinanza d’impresa (corporate citizenship), a 
sottolineare che una politica di CSR richiede un coinvolgimento di tutti gli 
stakeholder interni ed esterni all’impresa e conseguentemente la considerazione di 
tutti gli interessi in gioco. Un ulteriore tentativo di superare questa ambiguità è 
quello compiuto da Marquès, il quale ha distinto tra responsabilité sociale, in cui il 
termine sociale ha un significato limitato al “sociale interno” all’impresa, e 
responsabilité societale, in cui è il complesso dell’ambiente, esterno ed interno, in 
cui opera l’impresa ad essere assunto come riferimento (De Santis 1981, pag. 12). 
Gli stakeholder sono classificabili in:  
1. Risorse umane (dipendenti e manager); 
2. Soci/azionisti e comunità finanziaria; 
3. Società civile;   
4. Clienti; 
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5. Fornitori; 
6. Stato, enti locali e pubblica amministrazione; 
7. Ambiente; 
 
L’elemento alla base di ogni intervento di RSI è il rapporto sistematico tra impresa 
e stakeholder: questo rapporto è però problematico perché esistono ragioni 
fisiologiche di conflitto tra alcuni stakeholder e l’impresa a causa dei diversi 
interessi in gioco e la regolazione di questo conflitto introduce il tema irrisolto della 
rappresentanza.  
Gli stakeholder sono molto diversi su questo piano: gli azionisti hanno forme 
istituzionalizzate di rappresentanza all’interno degli organi di gestione dell’impresa 
(anche se è opportuno evidenziare il problema degli azionisti di minoranza), i 
consumatori hanno forme nuove di rappresentanza (le associazioni dei 
consumatori), i lavoratori hanno forme storiche di rappresentanza, ma altri 
stakeholder non hanno alcuna forma di rappresentanza (anche se è vero che le 
ONG, agendo sulla base di un intento reso pubblico, interagiscono con l’impresa in 
modo abbastanza efficace). Cofferati (2004) propone una soluzione cioè l’utilizzo 
del voto come meccanismo universale di certificazione della rappresentatività di 
coloro che rappresenteranno i gruppi d’interesse: questi dovranno scegliere 
democraticamente i loro rappresentanti. Nel caso specifico dei lavoratori, questi 
non dovranno ricevere rappresentanza dai sindacati nell’ambito della RSI, in quanto 
soggetti con diverse funzioni istituzionali (che potrebbero essere in ogni caso 
promotori di iniziative di RSI), bensì da parte di una rappresentanza eletta per 
quello specifico scopo.   
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1.3 Risultati economici e RSI 
La prima responsabilità dei vertici aziendali è assicurare la sopravvivenza e lo 
sviluppo dell’impresa, anche se studiosi come Donaldson e Davis (1991) ritengono 
che “ [ci sia] un imperativo morale per i manager tale da indurli a fare la cosa 
giusta, senza dare importanza a come decisioni di questo tipo poss[a]no influire 
sulla performance economica dell’impresa”. Un’impresa sensibile alle questioni di 
compatibilità sociale dell’attività d’impresa ma incapace di generare ricchezza 
vedrà vanificata anche la propria valenza sociale: ad esempio se un’azienda di 
produzione rilevante per il territorio entra in crisi non potrà più contribuire 
efficacemente a mantenere alti i livelli occupazionali, creando così un “danno” al 
tessuto sociale, nonostante iniziative ad hoc per evitare i licenziamenti 
nell’immediato.  
Responsabile sarà dunque l’impresa economicamente vitale e allo stesso tempo 
socialmente orientata cioè capace di internalizzare nel contesto sociale ed 
ambientale gli effetti della propria attività economica, in armonia con le legittime 
ed eterogenee attese degli stakeholder. La tensione dell’impresa è sicuramente 
diretta primariamente alla soddisfazione di attese economiche, perciò la RSI 
manifesta tutto il suo valore quando si dimostra conveniente, nel senso etimologico 
di con-venire, cioè di incontrarsi, di “essere in armonia con” le esigenze poste dagli 
obiettivi di competitività ed economicità dell’impresa. 
L’accezione di responsabilità sociale si discosta così dalla mera filantropia, che 
consisterebbe nel destinare a scopi sociali una quota del reddito generato 
dall’azienda (iniziativa che può essere certamente attuata): la RSI coinvolge 
strutturalmente la gestione strategica ed operativa dell’impresa (Husted, De Jesus 
Salazar 2006), istituto economico-sociale che, nel realizzare la sua missione 
produttiva, inevitabilmente esercita un influsso su una molteplicità di soggetti, 
creando (o distruggendo) valore per ciascuno di essi (Molteni 2004, pag. XI, Sapelli 
1986, pag. 20), ad esempio dando un contributo ai livelli occupazionali, allo 
sviluppo e alla diffusione di conoscenze, all’equilibrio della bilancia commerciale 
nazionale, alla generazione di tributi per lo stato e per gli enti locali e così via 
(Coda 1998). Si può così sciogliere in positivo il “moderno dilemma” (Ackermann, 
 8
Bauer 1976): la RSI non solo è conciliabile, ma può essere parte integrante ed 
essenziale della programmazione strategica dell’impresa (Sapelli 1986). 
Per questo motivo mettere in atto una strategia di RSI significa contribuire al 
soddisfacimento delle legittime attese degli stakeholder con strumenti adeguati. Tre 
sono i possibili contributi alla RSI, da quelli effettuati nell’ottica del puro dono (che 
come abbiamo detto concretizzerebbero solo un intervento di tipo filantropico e 
quindi “limitato”, in quanto non implicherebbe un’integrazione degli obiettivi di 
compatibilità sociale nella strategia d’impresa) a quelli caratterizzati dal beneficio 
per l’impresa: le liberalità (ad esempio l’erogazione di fondi, portatrice di benefici 
d’immagine), gli investimenti sociali (interventi pianificati dall’impresa per 
difendere i suoi interessi strategici e la sua reputazione, spesso in partnership con 
enti no profit e/o pubblici: ad esempio progetti per ovviare alle carenze formative o 
al degrado urbano) e le iniziative commerciali (cioè le campagne di marketing volte 
all’incremento delle vendite o al posizionamento della marca). 
La crescente soddisfazione delle attese socio-ambientali degli stakeholder può 
essere funzionale allo sviluppo dell’impresa. L’impresa non può più permettersi 
una ristretta visione del profitto immediato, ma le conviene incorporare finalità 
sociali ed ambientali primarie ritenute imprescindibili e costituenti l’idea di attività 
imprenditoriale moderna e responsabile, proprio se vuole stare sul mercato, reggere 
la competizione e rafforzare la sua solidità d’affari, economica e patrimoniale 
(Pizzoferrato 2005, pag. 707): perciò le manifestazioni di imprenditorialità 
socialmente orientata possono essere utilmente definite sintesi socio-competitive 
(Molteni 2004, pag. 101), cioè modalità innovative di rispondere alle attese di una o 
più classi di interlocutori sociali al di là di quanto previsto dalla normativa vigente e 
dalle prassi consolidate, dando vita ad una soluzione che contribuisce a sostenere ed 
alimentare il vantaggio competitivo dell’impresa e il suo disegno di “sviluppo 
sostenibile”. Per sostenibilità si intende “la capacità di una organizzazione (o di una 
società) di continuare in maniera duratura nel tempo le proprie attività, tenendo in 
debita considerazione l’impatto che queste ultime hanno sul capitale naturale, 
sociale e umano (ISEA 2002, pag. 11) e non compromettendo la capacità delle 
future generazioni di soddisfare, a loro volta, i propri bisogni (Brundtland Report 
1987, pag. 24)”.