Basti considerare, per esempio, l’ipotesi del riciclaggio, un reato che rappresenta
uno dei più manifesti anelli di congiunzione fra, come abbiamo già detto,
l’attività economica legale e quella illegale.
L’ultimo punto, invece, riguarda la società del rischio.
Va precisato che si tratta di una problematica già esaminata in altre culture eu-
ropee
3
e che riguarda la tendenza, che l’attività criminale dei nostri giorni ha, di
colpire, non più soggetti determinati, ma gruppi vasti: si parla ormai di una cul-
tura della vittimizzazione di massa. Non ultimo è l’esempio dei reati terroristici
(notoriamente non collegati in maniera evidente ad attività di carattere economi-
co societario) che tendono inevitabilmente a colpire gruppi indefiniti di persone
e a creare una fobia ed uno squilibrio sociale generale.
Dunque, per risolvere queste questioni anche l’Italia, sulla scorta di quelli che
sono stati gli spunti statunitensi in primo luogo, e comunitari successivamente,
ha ammesso, con qualche modifica, una forma di responsabilità da reato impu-
tabile alle persone giuridiche, superando l’antico brocardo societas delinquere
non potest e il principio costituzionale, stabilito nell’art. 27 comma 1° Cost.,
“La responsabilità penale è personale”.
In questo testo seguiremo proprio questo iter.
Partiremo, infatti, dall’analisi dei principi costituzionali e, dopo un generico e-
xcursus sulle interpretazioni comunitarie, esporremo i punti fondamentali della
legge delega 300/2000 e del d.lgs. 231/2001.
In un’ultima parte, poi, abbiamo ritenuto di un certo interesse offrire una generi-
ca panoramica sull’applicazione delle stesse direttive comunitarie in altri paesi
d’Europa (Francia, Paesi Bassi e Svizzera) e sulle loro differenze con la norma-
tiva italiana, e analizzare come abbiano risolto gli stessi problemi anche il Paesi
di Common Law (USA, Gran Bretagna e Canada).
3
In Germania si parla, infatti, di Risikogesellschaft.
2
I capitolo
Dal brocardo societas delinquere non potest
alla responsabilità degli enti: cenni storici.
1. La personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) e la sua
compatibilità con il d.lgs. 231/2001.
Il dibattito dottrinale.
Per numerosi anni la dottrina ha rifiutato la possibilità che una persona giuridica
potesse essere imputabile per la commissione di un reato.
Alcuni hanno avanzato teorie fondate su basi strettamente filosofico – ontologi-
che. Basti pensare, per esempio, a tutti quegli Autori che hanno escluso la possi-
bilità di una responsabilità penale (o comunque generalmente punitiva) degli en-
ti in quanto debba essere solo l’uomo, unico soggetto pensante e dotato della fa-
coltà di autodeterminarsi, a poter essere destinatario della norma penale.
Altri, invece, si sono limitati ad una lettura “stretta” della nostra Carta Costitu-
zionale evidenziando l’inevitabile contrasto che c’è fra l’applicazione del detto
principio e quello della responsabilità soggettiva indicato nell’art. 27, 1° comma
della Cost.
Dire, infatti, che la responsabilità penale è personale significa, necessariamente,
seguire l’orma delle due letture principali che della stessa vengono fatte:
a) responsabilità personale come responsabilità per fatto proprio;
b) responsabilità personale come responsabilità per fatto proprio colpevole.
3
E dunque, soprattutto in quest’ultimo caso, è apparso inconciliabile
l’attribuzione di una responsabilità penale ad un ente collettivo con il fatto che la
stessa debba essere espressione dell’imputabilità di chi abbia posto in essere il
fatto di reato. Se, quindi, il reo tanto sarà imputabile in quanto, durante il com-
pimento del reato, egli sia stato capace di intendere e di volere
4
e abbia agito con
dolo o colpa a seconda di quanto richiesto ai fini della punibilità, è evidente co-
me questo principio non sia riscontrabile in un persona giuridica.
Autorevole dottrina, quella del prof. Mario Romano
5
, ha sostenuto, invece, che,
nell’ambito del diritto penale amministrativo, non sia necessario interpretare in
maniera così restrittiva il principio societas delinquere non potest, quest’ultimo
infatti convivrebbe tranquillamente con quello della responsabilità penale degli
enti. Lo stesso Autore ha, poi, precisato come “una barriera di natura costituzio-
nale qui non pare proprio sussistere”
6
.
Altri ancora hanno ribadito tale rifiuto sulla base dell’inapplicabilità della san-
zione penale a soggetti che non siano dotati di una propria struttura fisico - uma-
na.
In questo modo, infatti, non si adempierebbe, secondo alcuni, a quel dovere di
rieducazione sociale, che la sanzione penale ha, secondo quanto previsto
dall’art. 27 comma 3° Cost.
Altri
7
ancora, hanno confermato, di nuovo, la tesi dell’inconciliabilità facendo
leva sul problema dell’efficacia. Infatti, le sanzioni pecuniarie e le poche altre
pene accessorie, decisamente più “consone” ad essere applicate alle società ri-
spetto a quelle detentive, troppo spesso risultano poco efficaci a punirle e posso-
no incidere su soggetti non colpevoli, come, per esempio, i soci estranei
4
Basti pensare che il minore di quattordici anni non è imputabile in quanto si considera non capace di intendere
e di volere.
5
Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano, e Autore del Commentario Sistematico
del Codice Penale, Milano, Giuffrè, 1995.
6
M. ROMANO, Societas delinquere non potest in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, pg. 1037,
Giuffrè, Milano, 1995.
7
F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, pt. gen., pg. 595, 14° edizione, Giuffrè, Milano, 1997.
4
all’illecito. Tra l’altro, normalmente, questo tipo di sanzioni (quelle pecuniarie),
in quanto applicate all’ente, non eserciteranno la propria funzione punitiva su
chi abbia concretamente posto in essere il reato ma verranno “pagate”, in un cer-
to senso, in minima parte, da tutti i componenti la società stessa.
Se, poi, si studi, più nello specifico, il problema delle sanzioni accessorie, si può
facilmente comprendere come queste non possano sufficientemente assolvere al-
la loro funzione castigatoria e preventiva. Quando, per esempio, un dirigente sia
stato destituito per aver compiuto un fatto di reato “nell’interesse e a vantaggio”
8
della società per la quale egli abbia lavorato, è evidente come l’unico soggetto
che subisca concretamente la punizione sia il dirigente stesso, quanto alla società
– come persona giuridica – infatti, sarà sufficiente sostituire l’autore del reato e
potrà tranquillamente continuare nell’illecito.
8
Art. 5, 1° comma, d. lgs. 231/2001.
5
2. Gli effetti della l. 689/1981: l’insoddisfazione del nostro ordinamento.
Fino ai primi anni ’80, le uniche norme che sancivano una sorta di punibilità
delle persone giuridiche erano gli artt. 197 e 198 c.p.
L’art. 197 stabiliva che:
Obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento di multe o
ammende
Gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato, le regioni, le
province ed i comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro
chi ne abbia la rappresentanza, o l’amministrazione, o sia con essi in rap-
porto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli ob-
blighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso
nell’interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso
di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare della
multa o dell’ammenda inflitta.
Se tale obbligazione non può essere adempiuta, si applicano al condannato
le disposizioni dell’art. 136 c.p.
Evidentemente si trattava di una responsabilità civile e sussidiaria in quanto
l’ente era tenuto a pagare l’ammenda solo in sostituzione dell’effettivo colpevo-
le, insolvente.
L’art. 136 c.p. richiamato sanciva la possibilità di convertire la pena pecuniaria
disposta in una, non detentiva, diversa, qualora la prima non potesse essere a-
dempiuta.
Il pagamento della multa o dell’ammenda stabilito dal 197 cit., però, diversa-
mente da quanto potesse accadere per le altre obbligazioni civili che ne fossero
derivate, si estingueva all’estinzione del reato o della pena
9
.
9
L’art. 198 c.p., infatti, tuttora stabilisce che: L’estinzione del reato o della pena non importa l’estinzione delle
obbligazioni civili derivanti da reato, salvo che si tratti delle obbligazioni indicate nei due articoli precedenti.
6
Queste sono state le uniche norme a disciplinare una punibilità delle persone
giuridiche fino al 1981, anno in cui fu emanata la L. 24 novembre N. 689, legge
che “ha creato una depenalizzazione in blocco”
10
, sostituendo numerose norme,
che in un primo momento prevedevano sanzioni penali, con meri illeciti ammi-
nistrativi, e che, all’art. 6 comma 3°, aveva imposto l’applicazione del principio
della responsabilità solidale della persona giuridica, dell’ente privo di personali-
tà giuridica o comunque di qualsiasi imprenditore qualora il reato fosse stato
commesso da un proprio rappresentante o dipendente.
Più precisamente, l’art. 6, 3° comma L. 689/1981 prevedeva che:
Se la violazione è commessa dal rappresentante o dal dipendente di una
persona giuridica o di un ente privo di personalità giuridica o, comunque,
di un imprenditore, nell’esercizio delle proprie funzioni o incombenze, la
persona giuridica o l’ente o l’imprenditore è obbligata in solido con
l’autore della violazione al pagamento della somma da questo dovuta.
Dunque, la condanna poteva essere risolta per l’intero sia da chi avesse effetti-
vamente commesso il reato, qualora lo stesso fosse stato posto in essere
nell’esercizio delle proprie funzioni o doveri professionali, sia dall’imprenditore
o dall’ente stesso indipendentemente dal fatto che fosse munito o meno di per-
sonalità giuridica.
Ci si poteva, infatti, rivalere su tutti per l’intera somma dovuta fatta salva la pos-
sibilità che l’ente o l’imprenditore avesse di agire in regresso contro l’autore del
reato una volta risolto il proprio debito.
L’arrivo poi della riforma del diritto societario, con il d.lgs. 61/2002, aveva pro-
vocato un’iperproduzione di leggi che, in un certo senso, avevano reso “più
blanda
11
” la responsabilità degli enti, addirittura, in molti casi, distinguendo,
10
M. ROMANO, Appunti del corso di Diritto Penale II tenuto presso la facoltà di Giurisprudenza
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano, a.a. 2002/2003.
11
M. ROMANO, Appunti corso cit.
7
nell’ambito di uno stesso articolo, fra ipotesi di sanzione penale e ipotesi di san-
zione amministrativa
12
.
Ben presto, però, anche a causa della questione in ultimo elencata, la legge 689
risultò insoddisfacente e fu soggetta a molte critiche.
Il segno più evidente di questa insoddisfazione è stata l’emanazione della legge
Antitrust (L. 10 Ottobre 1990 n. 287 Norme per la tutela della concorrenza e del
mercato) che ha indicato un’inversione di marcia valorizzando la necessità di
una responsabilità diretta ed esclusiva dell’ente cui seguisse l’applicazione di
una pena, non più proporzionata all’autore del reato, ma all’ente stesso.
Questo è ciò che più facilmente si può evincere, per esempio, dallo stesso art. 15
l. 287/1990. Esso, infatti, prevede una “sanzione amministrativa pecuniaria fino
al 10% del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio
chiuso” qualora vi siano state infrazioni gravi e durature in merito alla violazio-
ne delle regole che limitano la libertà di concorrenza o che sanciscono l’abuso di
posizione dominante.
È evidente come, dunque, la pena applicabile potrà oscillare dall’1 al 10% e sarà
necessariamente commisurata a quanto sia stato fatturato, l’anno precedente,
dall’impresa violatrice per lo sfruttamento dei beni oggetto dell’inchiesta.
12
Questo è il caso, per esempio, del precetto dell’attuale art. 2625 c.c. che implica la sanzione amministrativa
pecuniaria agli amministratori che abbiano impedito il controllo, legalmente dovuto, dell’attività ai soci. Qualo-
ra, poi, questo impedimento abbia cagionato un danno agli stessi, gli amministratori saranno puniti con la san-
zione penale della reclusione.
8
3. L’incidenza degli inputs comunitari sulla legge delega 300/2000 e sul
d.lgs. 231/2001.
Spunti sull’analisi dell’art. 11 d.l. 300/2000.
La legge – delega 300/2000 ha rappresentato il primo passo avanti verso
l’ammissibilità di una responsabilità penale – amministrativa delle persone giu-
ridiche ed è nata come ratifica di alcune scelte fatte nell’ambito dell’Unione Eu-
ropea:
• la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comuni-
tà Europee (Bruxelles, 1995);
• il suo primo Protocollo (Dublino, 1996);
• il secondo Protocollo, quello sull’Interpretazione in via pregiudi-
ziale da parte della Corte di Giustizia delle Comunità Europee di
detta Convenzione (Bruxelles, 1996);
• la Convenzione sulla lotta contro la corruzione nella quale sono
coinvolti funzionari delle Comunità Europee o degli Stati membri
dell’Unione Europea (Bruxelles, 1997);
• la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici uffi-
ciali stranieri nelle operazioni economiche internazionali (Parigi,
1997);
In un primo momento la l. 300 doveva limitarsi a ratificare tutte le Convenzioni
e i Protocolli eccetto il secondo, l’unico, quest’ultimo, che regolasse in maniera
più precisa i criteri di imputazione della responsabilità agli enti collettivi e le ne-
cessarie sanzioni. Motivo che aveva cagionato questa esclusione era la mancan-
za della dovuta relazione esplicativa.
L’unica norma comunitaria che, in aggiunta al secondo Protocollo PIF, stabiliva
una generica responsabilità in capo alle persone giuridiche era la Convenzione
9
OCSE. Con la stessa, infatti, si attribuiva genericamente in capo a ciascuno Stato
membro l’obbligo di adottare le misure necessarie perché si riconoscesse una re-
sponsabilità degli enti in caso di corruzione di un pubblico ufficiale straniero.
Com’è noto il Parlamento, però, non ha seguito i consigli comunitari e ha deciso
di provvedere anche alla ratifica dell’ultimo Protocollo che, va precisato, ha
completamente condizionato e rivoluzionato il nostro ordinamento giuridico.
La legge delega del 2000, infatti, si è quasi interamente uniformata agli artt. 3 e
4 del Protocollo e, di quest’ultimo, per esempio, ha assorbito il principio del si-
stema sanzionatorio binario, basato sull’irrogazione sia di sanzioni pecuniarie
che di sanzioni interdittive.
Per essere più completi abbiamo ritenuto valido inserire il testo degli artt. 3 e 4
dell’indicato Protocollo, al fine di rendere più evidenti le somiglianze.
Art. 3 del 2° Protocollo PIF
Corruzione attiva
Ai fini del presente protocollo vi è corruzione attiva quando una persona
deliberatamente promette o da, direttamente o tramite un terzo, un vantag-
gio di qualsiasi natura ad un funzionario, per il funzionario stesso o per un
terzo, affinché questi compia o ometta un atto proprio delle sue funzioni o
nell’esercizio di queste, in modo contrario ai suoi doveri d’ufficio, che leda
o che potrebbe ledere gli interessi finanziari delle Comunità Europee.
Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie ad assicurare che le
condotte di cui al paragrafo 1 costituiscano illeciti penali.
Art. 4 del 2° Protocollo PIF
Assimilazione
Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché ai sensi del di-
ritto penale nazionale le qualificazioni degli illeciti che corrispondono ad
una delle condotte di cui all’art. 1 della convenzione e, commessi dai suoi
10