Quest’ultima si caratterizza, nella realtà odierna, per la sua
evoluzione e per la sempre più rapida espansione, sia in termini di
aggressione a beni giuridici rilevanti che di diffusione anche al di là del
settore economico.
La dottrina tradizionale, contraria al riconoscimento della
legittimazione penale ai soggetti collettivi, ha individuato una serie di
argomentazioni che si muovono ciascuna su piani diversi ma che
risultano tutte accomunate dall’idea della irresponsabilità penale di tali
soggetti: si tratta di modi di concepire il diritto penale e la persona
giuridica piuttosto antiquati, per certi versi “arcaici”, che però non hanno
permesso – almeno fino al d. lgs. n. 231/2001 – di pervenire ad un
positivo approdo su questo tema.
Il primo di questi argomenti a sostegno del “dogma” “societas
delinquere non potest” è emerso sul piano logico-concettuale ed è la
teoria della finzione.
Legata ad una concezione soggettivistica del diritto che vede
l’uomo come unico soggetto portatore di diritti e di doveri, la teoria della
finzione risale alla prima metà del XIX secolo e storicamente
rappresenta il primo ostacolo al riconoscimento della soggettività penale
delle persone giuridiche. Essa fu elaborata dal padre della Scuola storica
tedesca Friedrich Carl von Savigny, secondo il quale la persona giuridica
rappresenta una fictio iuris, cioè una mera astrazione, non percepibile
con i sensi, la cui esistenza dipende da un atto di riconoscimento
dell’ordinamento giuridico. La persona giuridica, pertanto, viene ad
individuare una realtà ontologicamente distinta dalla persona fisica, “un
soggetto artificiale creato per semplice finzione” (
1
).
1
R. ORESTANO, Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche, Bologna, 1978, 208.
L’idea della finzione è nata dalla constatazione che persona o
soggetto, secondo i dati dell’esperienza, può essere soltanto l’uomo (
2
).
La premessa di fondo di quest’affermazione è la particolare
giustificazione teoretica addotta dal Savigny, cioè il principio
giusnaturalistico per cui ogni diritto soggettivo esiste a causa della
libertà morale insita in ciascun individuo. Sulla base di questa
costruzione teorica, viene per la prima volta riconosciuta una soggettività
giuridica anche alla persona giuridica, sia pure con gli evidenti limiti di
tale impostazione: infatti essa è considerata incapace di intendere e di
volere, priva di una coscienza morale.
Pur essendo dotata della capacità giuridica, sia pure limitata, e
costruita come centro autonomo di situazioni giuridiche, la persona
giuridica, in quanto soggetto artificiale, non dispone della capacità di
agire e perciò le sue attività giuridiche, analogamente a quanto avviene
per le persone fisiche incapaci, sono sempre il frutto dell’attività dei
propri rappresentanti (
3
). Tuttavia, rispetto alle persone fisiche incapaci,
vi è una differenza: la persona giuridica non dispone della capacità
d’agire non perché la sua coscienza sia stata temporaneamente o
definitivamente compromessa bensì per il fatto che essa non ha
coscienza. Ed è questo il motivo per cui in dottrina si parla di
“soggettività perennemente dimezzata” delle persone giuridiche (
4
).
Per Savigny la categoria dei soggetti di diritto, intesi quali reali
centri d’imputazione dei rapporti giuridici, assume un contenuto
eterogeneo: essa comprende entità naturali, quali gli uomini, ed entità
2
“L’unica vera personalità è quella dell’uomo singolo, che ha un corpo suo e un’anima propria e
indivisibile. Dove c’è un corpo e un’anima, ivi c’è una volontà, una libertà, una responsabilità. Tutto il
resto non è che metafora e finzione e tale è la responsabilità collettiva. L’associazione e la fondazione
possono acquistare, vendere ecc., ma non delinquere, perché solo la persona fisica, dotata di volontà e
libertà effettive, può sentire l’intimidazione della legge e violarla”, così G. MAGGIORE, Diritto penale,
Parte generale, vol. I, Bologna, 1949, 357.
3
A. FALZEA, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in La responsabilità penale delle
persone giuridiche in diritto comunitario, Milano, 1981, 149.
4
A. FALZEA, La responsabilità penale, cit., 149; F. GALGANO, Persona giuridica, in Dig. disc. priv.,
XIII, Torino, 1995, 393.
“artificiali”, cioè le persone giuridiche (
5
). Così gli unici protagonisti del
diritto penale sono le persone fisiche: la persona giuridica è concepita
come un’entità fittizia, immaginaria dietro la quale agiscono gli individui
che costituiscono la vera realtà e su di essi, pertanto, è chiamata ad
incidere la sanzione penale.
Un ulteriore aspetto della teoria della finzione fa leva sugli scopi
perseguiti dall’ente; quest’ultimo, dal momento che è “creato”
dall’ordinamento, è in grado di operare esclusivamente per finalità lecite
e ciò esclude qualsiasi suo possibile coinvolgimento in attività illecite,
le quali potranno essere opera solo di persone che agiscono al di fuori
dello scopo, dell’oggetto sociale e quindi anche al di fuori della persona
giuridica stessa. La liceità dello scopo va valutata sul piano astratto delle
finalità statutarie della persona giuridica, per cui uno scopo astrattamente
lecito ben potrà essere perseguito, mediante atti concretamente illeciti, da
parte dell’ente collettivo e in questo caso le eventuali conseguenze penali
ricadranno sui soggetti preposti che hanno materialmente posto in essere
la condotta vietata; invece, uno scopo statutario che si presenti già in sé
illecito escluderà direttamente la personalità giuridica, cioè la possibilità
per l’ente di essere titolare di determinati rapporti giuridici contrari al
diritto (
6
).
La limitata capacità giuridica, di cui gli enti dispongono, dipende
da quella che il diritto positivo artificialmente riconosce loro, a seconda
dei diversi scopi perseguiti e ciò riguarda solo i rapporti patrimoniali. In
quest’ottica, i rapporti regolati dal diritto privato e dal diritto
amministrativo, dal momento che si fondano sull’elemento della
materialità dell’azione, possono essere imputati alla persona giuridica, in
5
F. GALGANO, Delle persone giuridiche: disposizioni generali, delle associazioni e delle fondazioni
(artt. 11-35), in A. SCIALOJA-G. BRANCA (a cura di), Commentario del codice civile, Bologna-Roma,
1969, XXII, 10.
6
A. FALZEA, La responsabilità penale, cit., 151.
quanto dotata della capacità di diritto e conseguentemente anche gli
eventuali fatti illeciti e le relative sanzioni saranno ad essa attribuite.
I rapporti di diritto penale, invece, dal momento che richiedono la
presenza di una componente psicologica, soggettiva, non permettono di
individuare negli enti collettivi la capacità giuridica poiché essi sono
privi di quella coscienza unitaria e volontà che il diritto penale
necessariamente richiede quale presupposto (
7
) e che risultano presenti
solo nell’individuo, l’unico in grado di realizzare l’azione penalmente
rilevante (
8
).
Tale operazione, che vede “degradati” i soggetti diversi dall’uomo
a mere finzioni, ha lo scopo di affermare che l’intero sistema giuridico è
costruito in funzione dell’individuo e dei suoi diritti, in quanto unica
entità naturale, e proprio all’individuo venivano assimilate le persone
giuridiche attraverso questo procedimento di finzione (
9
).
Per Savigny, il legislatore, per soddisfare esigenze proprie del
commercio giuridico, finge che entità diverse dall’uomo abbiano, al pari
di quest’ultimo, l’attributo di persona: in tal modo egli estende la
categoria degli esseri umani, dando vita ad una sorta di “uomini
artificiali” (
10
).
Questa teoria, che ebbe larga diffusione in Europa, grazie anche
alla sua semplicità e al suo rigore logico, si rivelò ben presto del tutto
insufficiente non solo per la falsità della sua premessa di fondo, ma
anche per la povertà dei suoi contenuti. Non soltanto essa attribuì alla
persona giuridica una soggettività “evanescente”, configurandola come
7
V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, vol. I, Torino, 1950, 506.
8
“Il diritto penale ha da fare solo con l’uomo naturale, ente pensante, volente, senziente. Ma la
persona giuridica non è tale, è un’entità fittizia, sta fuori del diritto penale. Tutto ciò che si considera
come delitto della persona giuridica è solo il delitto dei membri o rappresentanti di essa, dunque di
singoli uomini”, così F. FERRARA, Le persone giuridiche, in Tratt. dir. civ. ital., Roma, 1924, 253.
9
R. ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino, 1968, 20.
10
F. GALGANO, (voce) Persona giuridica, in Dig. disc. priv., vol. XIII, Torino, 1995, 403.
“centro di interessi a soggettività intermittente” (
11
) ma si rivelò anche
contraddittoria nell’individuazione della capacità giuridica, riconosciuta
all’ente collettivo nell’ambito dei rapporti di diritto privato e negata in
quello penale.
Pertanto, le correnti finzionistiche, nel novero delle teorie a
fondamento dell’irresponsabilità penale delle persone giuridiche, furono
ben presto superate. Infatti, le riflessioni critiche sulla natura della
persona giuridica hanno messo in luce come tale concetto, oltre ad essere
uno dei più tormentati della teoria generale del diritto, si presenti
mutevole, complesso, chiamato a svolgere funzioni che, col passare del
tempo, sono cambiate e pertanto se n’è affermato il valore strumentale
rispetto a quelle specifiche esigenze che progressivamente si
manifestano all’interno del sistema giuridico. Viste le sue lontane
ascendenze storiche e dottrinali, è chiaro che la teoria della finzione non
ha potuto reggere al confronto con il fenomeno, tutto moderno, della
criminalità economica; tuttavia non solo storicamente ha rappresentato il
primo ostacolo al riconoscimento della responsabilità penale delle
persone giuridiche ma ha anche contribuito ad attivare quel dibattito che
nel nostro Paese dura ormai da più di trent’anni e che sembra abbia
trovato una sua conclusione (non esente da dure polemiche) nella
disciplina contenuta nel d. lgs. n. 231/2001.
11
Entrambe le definizioni appartengono a A. ALESSANDRI, Reati d’impresa e modelli sanzionatori,
Milano, 1984, 23.
2. Le barriere di livello costituzionale
Tra le diverse argomentazioni a sostegno del dogma “societas
delinquere non potest” le barriere di livello costituzionale hanno
rappresentato sicuramente l’ostacolo più duro da superare sulla strada
dell’affermazione della soggettività penale delle persone giuridiche.
La necessità di garantire il rispetto di principi-cardine di ogni
sistema penale ha prodotto un duplice effetto: da un lato, ha sempre
bloccato ogni tentativo di dar luogo ad un modello di
corresponsabilizzazione degli enti collettivi; dall’altro lato, ha portato
l’Italia ad essere uno degli ultimi Paesi europei ad essersi dotata di una
disciplina completa ed organica in grado di sanzionare le condotte
illecite delle persone giuridiche e di reprimere il fenomeno della
criminalità d’impresa.
I principi costituzionali cui si fa riferimento sono racchiusi
entrambi nell’art. 27, rispettivamente ai commi 1 e 3: il principio della
personalità della responsabilità penale e il principio rieducativo della
pena.
Dal momento che si è in presenza di principi di garanzia, sovraordinati al
legislatore ordinario e pensati con riferimento alla persona umana, essi
non ammettono la possibilità che si possa affermare o negare, come nel
paragrafo precedente, la responsabilità delle persone giuridiche sul piano
meramente dogmatico ma richiedono di verificare se, ex art. 27, comma
1 Cost., sia possibile fondare un giudizio di colpevolezza nei confronti
delle persone giuridiche e se quest’ultime possano realmente essere
soggette a dei trattamenti rieducativi, finalizzati al loro “recupero
sociale”, ai sensi dell’art. 27, comma 3 Cost.
2.1. Il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27,
comma 1 Cost.)
L’art. 27, comma 1 della Costituzione, in forza del quale “la
responsabilità penale è personale”, è stato tradizionalmente interpretato
come una conferma, anche a livello costituzionale, del dogma “societas
delinquere non potest” e rappresenta l’ostacolo “insormontabile”, la
causa principale della tardivo riconoscimento della responsabilità
“penale” degli enti (sebbene manchi nel nuovo d. lgs. n. 231/2001
un’espressa definizione in tal senso). Anzi, il dogma in questione ha
potuto resistere così a lungo proprio grazie a questa norma costituzionale
che non trova riscontro negli altri ordinamenti europei e che assume una
notevole rilevanza nell’ambito di questo tema.
Il problema della responsabilità penale assume un ruolo centrale
sia nella ricostruzione del sistema penale, per l’evoluzione
dell’intervento sanzionatorio, che nell’ambito della realtà, molto attuale,
della criminalità d’impresa. Uno dei connotati caratterizzanti la moderna
realtà d’impresa è proprio la “spersonalizzazione” dell’attività
imprenditoriale, cioè l’estrema frammentazione e ripartizione delle
funzioni e delle attribuzioni fra una pluralità di soggetti, ciascuno dei
quali specializzato nel proprio settore.
Pertanto tale fenomeno impone al diritto penale di individuare dei
criteri di accertamento della responsabilità che hanno in sé il rischio di
porsi in tensione con il principio della personalità dell’illecito penale.
Il tema della “personalità” del rimprovero è poi sollecitato anche
dalla dinamica e dalla struttura della società che determinano, nel corso
del tempo, quel normale avvicendamento dei soggetti preposti, a
qualunque livello, alla conduzione dell’impresa e tale fenomeno rende
necessario un attento accertamento delle responsabilità all’interno delle
realtà d’impresa. Secondo la dottrina fedele al principio “societas
delinquere non potest”, l’irresponsabilità penale delle persone giuridiche
discenderebbe dal principio del carattere personale della responsabilità
penale, inteso sia nella sua accezione restrittiva che in quella estensiva.
Nella sua interpretazione minima, il comma 1 dell’art. 27 Cost.
codificherebbe il principio della “responsabilità penale per fatto proprio”
o, inteso negativamente, il “divieto assoluto di responsabilità per fatto
altrui”, cioè il rifiuto di forme di responsabilità collettiva, che tante stragi
avevano provocato nel corso del secondo conflitto mondiale. Nella realtà
d’impresa, tale divieto si traduce nell’impossibilità per le società di poter
rispondere penalmente per i fatti posti in essere dai propri organi-persone
fisiche. Il principio della responsabilità penale per fatto proprio mira ad
evitare che un fatto possa essere ascritto ad un terzo estraneo alla
vicenda criminosa a prescindere dall’accertamento del nesso causale tra
il fatto di reato e il soggetto sanzionato.
Pertanto, il riconoscimento della responsabilità penale delle
persone giuridiche violerebbe tale divieto sia perché il fatto di reato
“appartiene” alla persona fisica sia perché la sanzione finirebbe per
produrre i suoi effetti pregiudizievoli su terzi innocenti, quali i soci, i
dipendenti, il pubblico dei consumatori, tutti estranei alla commissione
dell’illecito: così, ad esempio, il sacrificio economico, sopportato
dall’impresa a seguito dell’irrogazione della pena pecuniaria, potrebbe
essere successivamente “trasferito” a carico dei consumatori, attraverso
un aumento dei prezzi dei beni prodotti. Quest’obiezione si radica nella
teoria della finzione che, come già visto in precedenza, considera la
persona giuridica come un’entità artificiale, priva di una propria
soggettività reale.
Il termine “personale”, nell’ambito di questa interpretazione
“minimalista”, richiede la necessaria causazione materiale del fatto,
senza alcuna implicazione sul piano della riferibilità psicologica e
intende proteggere la persona umana da conseguenze penali di reati che
essa non ha commesso (
12
).
Il termine “responsabilità” assume un significato ampio che si
identifica con tutti quei fattori concorrenti a determinare
l’assoggettamento di un individuo alla sanzione penale.
Attraverso tale orientamento, la Corte costituzionale aveva inteso
affermare la stretta inscindibilità, il necessario collegamento tra l’autore
materiale del fatto di reato e il destinatario della sanzione penale,
evitando così la possibilità di dar vita a vere e proprie forme di
responsabilità oggettiva. Tuttavia, nel suo contenuto minimo, tale
principio appare poco plausibile, riduttivo: l’arbitrarietà e l’incertezza
cui danno luogo queste argomentazioni derivano principalmente dal fatto
che il giudizio di responsabilità, richiedendo soltanto la sussistenza del
rapporto tra l’agente e il fatto, si arresta al solo livello materiale e
prescinde da ogni componente soggettivistica.
Inoltre, questa prima interpretazione si rivela arbitrariamente
limitativa e incapace di valorizzare la portata innovativa del disposto
costituzionale. Infatti, il rifiuto di forme di responsabilità collettiva era
noto alla cultura giuridica europea al punto che già alla fine del
Settecento compaiono affermazioni secondo cui “le azioni degli uomini
sono personali” e pertanto tale divieto sarebbe stato osservato a
prescindere da un suo solenne riconoscimento costituzionalistico (
13
).
Probabilmente i Costituenti attraverso l’espressa enunciazione
costituzionale non si erano limitati a ribadire il semplice divieto di
responsabilità per fatto altrui ma avevano voluto dare rilievo ad un altro
12
A. FALZEA, La responsabilità penale, cit., 159.
13
A. ALESSANDRI, Reati d’impresa, cit., 44.
divieto, cioè quello della responsabilità senza colpa e pertanto il
principio della responsabilità penale per fatto proprio non esprime il
pieno significato del disposto costituzionale.
In altri termini, il limite dell’interpretazione restrittiva dell’art. 27,
comma 1 è quello di bloccare la portata della norma entro angusti
confini: l’affermazione del necessario contributo materiale, quale
fondamento per la riferibilità del fatto di reato, non necessita di garanzia
costituzionale e, come tale, nel contenuto minimo non giustifica la
previsione di una norma simile (
14
).
Inoltre, rilevanti sono le ripercussioni di tale divieto
sull’organizzazione d’impresa: quand’anche un dipendente realizzasse
una condotta illecita nell’interesse dell’ente, avendo come obiettivo la
realizzazione della c.d. politica d’impresa, questa costruzione teorica non
ammetterebbe divaricazioni dal principio generale, pur risultando
evidente la profonda ingiustizia di tale soluzione, che finirebbe per
colpire soltanto la persona fisica. Pertanto, questa interpretazione
minimalista assegna all’art. 27, comma 1, Cost. un ruolo del tutto
marginale e scarsamente efficace nella costruzione dell’illecito penale.
Nella sua accezione più ampia, l’art. 27 comma 1 codificherebbe il
principio della “personalità della responsabilità penale per fatto proprio e
colpevole” (
15
).
Con una storica sentenza la Corte costituzionale ha esteso la
portata del principio della responsabilità penale personale,
costituzionalizzando a sua volta il principio “nulla poena sine culpa”:
non è più sufficiente la sola riferibilità materiale del fatto, ma si richiede
la rimproverabilità psichica del comportamento posto in essere, cioè che
il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, debba
14
A. ALESSANDRI, Reati d’impresa, cit., 48. Secondo l’Autore, l’esaltazione di questa dimensione
oggettiva non trova tuttavia conferma né sul piano della coerenza interna della norma né su quello
sistematico.
15
C. F. GROSSO, (voce) Responsabilità penale, in Noviss. dig. it., vol. XV, 1968, Torino, 713.
necessariamente “includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli
elementi più significativi della fattispecie tipica” (
16
).
Al centro del giudizio di responsabilità deve esservi un fatto
connotato da tutti i suoi requisiti oggettivi e soggettivi, cosicché il
carattere “proprio” dell’illecito possa racchiudersi nella realizzazione
della fattispecie tipica di reato, sorretta dalla possibilità di controllo
consapevole.
Il legislatore costituzionale ha inteso anche esprimere il principio
secondo cui l’applicazione della pena presuppone l’attribuibilità
psicologica del fatto di reato alla volontà antidoverosa del soggetto. Ciò
si traduce, secondo la dottrina favorevole al principio “societas
delinquere non potest”, nella impossibilità per l’ente collettivo di
rispondere personalmente perché incapace di esprimere un atteggiamento
volitivo colpevole. Si ottiene così una connotazione sempre più
marcatamente personalistica, soggettiva, dell’illecito penale e
l’affermazione di una responsabilità che, d’ora in poi, dovrà essere
imputata per fatto proprio colpevole. Grazie a questa seconda e più
ampia interpretazione si rafforza ulteriormente la tesi della
irresponsabilità delle persone giuridiche.
Sulla base di questa duplice interpretazione dell’art. 27, comma 1,
Cost. e del suo legame con la teoria finzionistica, in dottrina si è giunti
alla conclusione che nessun addebito di carattere penale può essere
mosso alla persona giuridica, incapace com’è di esprimere una volontà
colpevole, e che, pertanto, una responsabilità colpevole è propria solo
dell’essere umano. Se pure è possibile equiparare sul piano oggettivo
l’agire della persona fisica a quello della persona giuridica, che opera per
mezzo dei propri rappresentanti, tuttavia tale tentativo di assimilazione è
16
Corte cost., sent. 24 marzo 1988, n. 364, pubblicata in Giur. Cost., 1988, I, punto 11 dei
“considerando in diritto”, 1517, con nota di R. D’ALESSIO, 1533; in Foro it., 1988, I, 1385 con nota di
G. FIANDACA, Principi di colpevolezza ed ignoranza inescusabile della legge penale: “prima lettura”
della sentenza n. 364/1988, nonché in Riv. it. dir. e proc. pen., 1988, 686 con nota di D. PULITANÒ.
destinato ad arrestarsi sul piano dell’elemento soggettivo, laddove non è
possibile individuare una volontà colpevole dell’ente, pena il rischio di
dar luogo ad una “colpevolezza collettiva” (
17
).
Per superare i problemi derivanti dalla previsione della
colpevolezza quale presupposto del reato, nella dottrina più recente non è
mancato chi ha sostenuto, nel tentativo di combattere la criminalità
economica con strumenti non strettamente penali, l’utilizzabilità delle
misure di sicurezza, le quali risulterebbero compatibili con il principio ex
art. 27, comma 1 Cost., inteso nella sua accezione “minima” (
18
).
Questa soluzione è motivata dal fatto che il principio nulla poena
sine culpa, sia esso costituzionalizzato o meno, porta a scartare il ricorso
alla sanzione penale stricto sensu nei confronti delle persone giuridiche,
dal momento che per esse mancano i presupposti per un giudizio di
rimproverabilità.
Diversamente, l’utilizzabilità delle misure di sicurezza nei
confronti delle persone giuridiche è resa possibile dal fatto che esse si
fondano non sull’elemento soggettivo della colpevolezza, bensì sul
concetto di “pericolosità sociale” dell’autore di un fatto di reato, che
consiste, secondo la definizione dell’art. 203 c.p., nella probabilità che il
reo “commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”. Il
riferimento, in particolare, è alle misure di sicurezza patrimoniali (quali,
ad es., la confisca, la chiusura dello stabilimento, la sospensione
dell’attività produttiva), essendo impraticabile, per motivi fisiologici, il
ricorso a quelle detentive e personali.
Soprattutto la confisca rappresenterebbe un valido strumento per
combattere la criminalità d’impresa: trattandosi di un provvedimento
17
In tal senso cfr. M. ROMANO, Societas delinquere non potest. (Nel ricordo di Franco Bricola), in
Riv. it. dir. e proc. pen., 1995, 1037.
18
F. BRICOLA, Il costo del principio societas delinquere non potest nell’attuale dimensione del
fenomeno societario, in P. NUVOLONE (a cura di), Il diritto penale delle società commerciali, Milano,
1971, 76.
relativo ad una cosa, secondo quanto previsto dall’art. 236 c.p., essa
risulterebbe svincolata, in sede legislativa, anche dal requisito della
pericolosità soggettiva, dal momento che tale norma non richiama, fra le
disposizioni applicabili all’istituto, quelle relative alla pericolosità
sociale. In tal modo il vero presupposto della confisca sarebbe non la
pericolosità dell’autore ma la pericolosità della cosa (
19
).
Inoltre, un altro vantaggio connesso all’applicazione della
confisca, a conferma dell’intento del legislatore di non reagire attraverso
questa misura di sicurezza contro la pericolosità soggettiva, sarebbe la
sua applicabilità al di fuori della condanna penale e a persona estranea al
reato.
In ogni caso, le misure di sicurezza, purché risultino
strutturalmente adeguate alla realtà societaria, possono rappresentare un
efficace strumento contro la criminalità d’impresa: infatti, se il reato è
commesso, in attuazione dell’oggetto sociale, da un soggetto che ricopra
un ruolo di vertice nell’organizzazione societaria, esso rappresenta “la
diretta manifestazione di una pericolosità che si può appuntare sui vari
elementi che compongono l’organizzazione societaria o, nei casi più
gravi, sull’organizzazione nel suo complesso” (
20
).
Questa soluzione permetterebbe di colpire direttamente la
societas, dal momento che l’illecito dell’amministratore, pur essendo il
frutto di un’azione individuale, è espressione di una pericolosità interna
alla società. Tuttavia, la proposta di applicare le misure di sicurezza alle
persone giuridiche è andata incontro a numerose critiche che hanno, di
fatto, dimostrato in modo convincente la sua impraticabilità in questo
settore (
21
).
19
F. BRICOLA, Il costo del principio, cit., 78.
20
F. BRICOLA, Il costo del principio, cit., 79.
21
Per un’analisi più approfondita di queste obiezioni si rinvia al Capitolo II, paragrafo 1.
2.2 Il principio rieducativo della pena (art. 27, comma 3 Cost.)
Il ruolo indefettibile della colpevolezza, quale presupposto della
punibilità, è confermato, sempre a livello costituzionale, dal
collegamento sistematico tra il primo e il terzo comma dell’art. 27 Cost.,
che sancisce il finalismo rieducativo della pena.
A ciò ha contribuito la sentenza n. 364 del 1988, nella quale la
Corte costituzionale afferma che “comunque si intenda la funzione
rieducativa, (...) essa postula almeno la colpa dell’agente e pertanto non
avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa
(rispetto al fatto), non ha certo bisogno di essere rieducato” (
22
).
Se fosse sufficiente, ai fini dell’assoggettamento a pena, il
semplice fatto di cagionare materialmente un evento lesivo, la pretesa
rieducativa dello Stato avrebbe poco senso: mancherebbe in questo caso
quell’atteggiamento psicologico antidoveroso, di contrasto con
l’ordinamento in grado di giustificare la rieducazione del reo al rispetto
delle regole della convivenza. Come sarebbe possibile un’attività di
recupero del soggetto agente al rispetto dei valori violati, qualora si
prescindesse, nella strutturazione dell’illecito e nell’irrogazione della
sanzione, dall’atteggiamento personale e colpevole del reo?
Il principio costituzionale di rieducazione della pena, strettamente
correlato al principio nulla poena sine culpa, rappresenterebbe, pertanto,
un ulteriore ostacolo alla penalizzazione delle persone giuridiche.
Il comma 3 dell’art. 27 della Costituzione prevede che “le pene
(...) devono tendere alla rieducazione del condannato”.
22
Corte cost., sent. 24 marzo 1988, n. 364, cit., 1519.