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Introduzione
Angelo Bolaffi ci ha recentemente ricordato che “La Repubblica di Weimar è come un
bell’oggetto di design: non passa mai di moda.”
1
. Non passa mai di moda perché
l’esperienza di Weimar può essere interpretata in modo diverso a seconda della
prospettiva dalla quale viene giudicata, trovando sempre e comunque uno spazio nel
dibattito storiografico.
La prospettiva dominante nello studio dei quattrodici anni di vita della Repubblica dalla
fine della Seconda Guerra Mondiale sino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso
fu quella del suo fallimento: la “lezione di Weimar” veniva rievocata con allarme tutte le
volte nelle quali emergevano segni di una “sindrome da stanchezza democratica”
2
a
fronte di crisi acute
3
del sistema parlamentare e/o economico. Questo approccio alla
storia della Germania di Weimar – diretto ad individuarne le debolezze strutturali,
istituzionali, economiche e politiche – nasceva dall’urgente desiderio di comprendere
come fosse stata possibile la presa di potere di Hitler e se essa si fosse potuta evitare.
Seppur giustificato dallo shock della “catastrofe tedesca”
4
, va sottolineato come questo
approccio era problematico perché distorceva la visione storica ponendosi nella
prospettiva di chi “guarda all’indietro” collocando necessariamente l’esperienza
repubblicana quale anticamera del Terzo Reich, mentre è oggi convinzione prevalente
che nel 1918 il futuro della Repubblica fosse aperto e non già determinato.
1
Angelo Bolaffi, prefazione a “Weimar, cent’anni dopo. La storia e l’eredità: bilancio di un’esperienza
controversa” di Andreas Wirsching, Donzelli Editore, 2019.
2
Angelo Bollaffi, op. cit.
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Va ricordato che un ampio dibattito si è sviluppato attorno al concetto di “crisi” riferito alla Repubblica
di Weimar. Alcuni autori hanno sottolineato il suo carattere di “costrutto ideologico” ovvero di esito non
relativo a reali difficoltà politico-economiche, ma “(…) quanto piuttosto come il risultato di un vasto e
complesso discorso sulla crisi sviluppatosi quasi autonomamente.” (Andreas Wirsching, op.cit. pp. 108,
109). Fondamentale per un approfondimento sulla “narrativa” della “crisi” di Weimar nella storiografia è
poi un saggio di Rüdiger Graft nel quale, tra le altre cose, l’autore condanna l’uso del concetto “crisi” quale
“catch-all concept” ovvero facile via d’uscita ogni qual volta non vi sia la possibilità o la volontà di
un’analisi più approfondita. (Rüdiger Graft, “Either-Or: The Narrative of “Crisis” in Weimar Germany and
in Historiography”, Central European History 43 (2010), pp. 592-615).
4
Friedrich Meinecke, “Die deutsche Katastrophe: Betrachtungen und Erinnerungen“, 1946
4
Questa idea di una Repubblica destinata al fallimento e tutta la narrativa negativa che l’ha
accompagnata – originata di frequente durante gli stessi anni di Weimar dai suoi detrattori
– ha permeato per decenni il dibattito storiografico gettando un’ombra lunga sino ai giorni
nostri. In particolare, questa visione unilaterale e sbilanciata di una Repubblica di Weimar
politicamente incapace è stata fortemente presente nella tradizione storiografica della
Germania Occidentale a giustificazione dell’esistenza dello Stato sorto dopo la Seconda
Guerra mondiale: sottolineando le differenze rispetto all’eredità politica del primo
tentativo di democrazia tedesca, Bonn volle affermare di non essere Weimar
5
.
A fare da contraltare a questa dominante storiografia negativa della situazione politico-
istituzionale e economica degli anni di Weimar è stato il racconto, oltremodo positivo,
dei suoi risultati in campo socio-culturale. Il mito dei “Goldene Zwanziger” nasce negli
anni immediatamente successivi alla fine della Repubblica, quando la comunità di
intellettuali ed artisti in esilio gioca un ruolo centrale nel definire l’immagine della cultura
di Weimar. Particolarmente influenti saranno il romanzo “Addio a Berlino” di
Christopher Isherwood pubblicato nel 1939 che darà il tono e segnerà profondamente
l’immaginario popolare per i decenni successivi - grazie anche alle successive
trasposizioni teatrali e cinematografiche - e l’opera di Peter Gay “Weimar culture: The
outsider and Insider”
6
che influenzerà generazioni di studiosi
7
.
Questa idea di un semplicistico contrasto tra una vita cultura splendente e un sistema
politico-istituzionale fallimentare è stata oggetto, a partire da circa la metà degli anni
Ottanta del Novecento, di una crescente critica da parte di una nuova generazione di
storici ed è oggi generalmente accetta la posizione di chi sostiene l’infondatezza di questa
tradizionale dicotomia, anche se essa persiste come visione convenzionale del periodo
weimariano
8
.
5
Si veda Sebastian Ullrich, “Der Weimar-Komplex: das Scheitern der ersten deutschen Demokratie un die
politische Kultur der früchen Budensrepublik, 1945-59“, Wallstein, 2009.
6
Gay, nato a Berlino nel 1923 da una famiglia ebrea fuggita dalla Germania nazista nel 1939, pubblica
l’opera nel 1968.
7
L’influenza dell’interpretazione unilaterale della cultura di Weimar tipica di Gay si ritrova anche in opere
recenti come quella di Eric D. Weitz “Weimar Germany: Promise and Tragedy” pubblicata per la prima
volta nel 2007 (Princeton University Press).
8
Così viene presentata l’epoca di Weimar in un catalogo di presentazione di un’importante esibizione di
ritratti pittorici degli anni Venti in Germania: ““The years between the world wars in Germany were years
5
Il presente elaborato si propone lo scopo di ripercorrere le principali questioni affrontate
dal dibattito storiografico nei decenni che ci separano dalla chiusura dell’esperienza di
Weimar, indicandone i punti di sintesi prevalenti. Il desiderio è quello di superare quella
durevole visione convenzionale ed alcuni stereotipi, tutt’ora diffusi al di fuori del mondo
accademico, che portano a fare dell’esperienza di Weimar un esempio negativo
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“paradigmatico”, invece che un rilevante caso di creazione di un “sistema” con il quale
tentare di gestire le nuove sfide poste dalla modernità con la nascita della società di massa
emersa dalla fine della Prima Guerra mondiale.
Visto lo scopo dichiarato, questo elaborato si occuperà solo marginalmente della cornice
storica degli eventi che vengono dati per noti.
of glitter and doom. After a crushing defeat in World War I, Germans were facing economic catastrophe,
failed revolution, and the disintegration of the old order. Yet, the short-lived Weimar Republic, born in
1919 and swept away when Hitler came to power in 1933, saw an extraordinary flowering of culture marked
by innovative accomplishments in art, literature, theater, film, and science. Artists, writers, and thinkers
were liberated from the strictures of tradition and felt free to experiment and invent new forms. At the same
time, and against the background of the rise of National Socialism, many Germans indulged in previously
forbidden behaviors. Society seemed unhinged, and everything seemed possible. It was a brilliant, sinister
time, when Berlin was the capital of art, sex, and violence.”, tratto da “Glitters and Doom: German Portraits
from the 1920s” a cura di Sabine Rewald, 2006, The Metropolitan Museum of Art, Yale University Press.
9
In un Occidente attualmente attraversato da voglie populiste, di semplificazione delle regole di vita
istituzionale e da leader politici “carismatici”, non sorprende che la discussione si sia rianimata e che il
richiamo alla “lezione di Weimar” sia diventata nuovamente di attualità.
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CAPITOLO PRIMO
LA REPUBBLICA DI WEIMAR E LA RICERCA STORICA
Gli studi sull’epoca di Weimar iniziarono relativamente tardi considerando che durante
gli anni del nazionalsocialismo era impossibile una libera indagine sulla Repubblica che
veniva dipinta, dall’ossessiva propaganda di regime, come il risultato della “pugnalata
alle spalle” e del lavoro dei “traditori di novembre”.
Per un lungo periodo, l’unico esempio di investigazione rimase l’opera di Arthur
Rosemberg “A history of the German Republic” pubblicata a Londra nel 1936, dove lo
storico marxista si era rifugiato.
Un intenso studio dell’epoca della Repubblica iniziò dai primi anni Cinquanta del
Novecento concentrandosi sulla sua fase finale, al fine di comprendere le ragioni del suo
collasso. In particolare, furono gli storici tedesco occidentali a sentire con urgenza il
bisogno di confrontarsi con il passato recente e il dramma mondiale causato dal regime
hitleriano impegnandosi nell’analisi dettagliata delle fatali decisioni prese e gli sviluppi
avvenuti in quello che viene definito il periodo dei “governi presidenziali” (marzo 1930
- gennaio 1933). La pubblicazione della fondamentale opera “Die Auflösung der
Weimarer Republik” nel 1955 da parte di Karl Dietrich Bracher stimolò un proficuo
dibattito tra gli studiosi che si divisero, in particolare, sul ruolo e l’azione di Brüning e
del primo governo presidenziale.
Il dibattito storiografico attorno alla domanda centrale sulla causa del crollo della
Repubblica proseguì per vari decenni. Sul finire degli anni Sessanta venne a consolidarsi
la tesi che spiegava il fallimento della repubblica democratica nata nel 1919 con una
nuova versione della teoria del Sonderweg: una nuova versione che non vedeva più nella
“via speciale” percorsa dalla nazione tedesca la fonte di orgoglio dei conservatori del
periodo imperiale di fine Ottocento, ma piuttosto la ragione di una mancata evoluzione
sociale e politica secolare destinata a condurre la Germania dritta verso il Terzo Reich.
Questa tesi fu sostenuta con particolare convinzione da un gruppo di storici sociali
tedeschi tra i quali ricordiamo Hans-Ulrich Wehler e Jürgen Kocka. Abbandonato il