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negli statuti e nelle carte dei diritti del cittadino, che esplicitamente
condannano ogni attentato alle libertà dell’uomo.
Se le vicende dell’uomo spesso somigliano al di là del tempo e dello spazio
è pur vero che le motivazioni della ricerca muovono dalla curiosità, dai
valori e dal contesto più vicini al ricercatore che vuole dar voce e risonanza
a quei fatti che rischiano di sfuggire ad una memoria collettiva.
Tuttavia il dato locale deve trovare la propria collocazione all’interno di
categorie generali. Se infatti il riferimento al territorio e agli archivi
comunali può rappresentare un punto di svolta nelle prospettive della
ricerca sul fenomeno dell’internamento, occorre d’altra parte tenere sempre
presente il contesto più ampio della storia, se si vuole evitare di scivolare
in uno sterile localismo che potrebbe risultare anche fuorviante.
L’analisi prende le mosse da uno snodo fondamentale della storia d’Italia:
la promulgazione delle leggi “fascistissime”, nel 1926, che portarono a
termine la fase d’insediamento del movimento di Benito Mussolini nello
Stato, definendone il carattere autoritario.
In quella stessa data pure si colloca l’emanazione del Testo unico di
Pubblica sicurezza redatto dal giurista Alfredo Rocco, in cui era compreso
un articolo che aggiornava il “domicilio coatto” d’origine crispina,
trasformandolo in “ Confino di polizia”, con preminenti e palesi finalità
politiche.
Il provvedimento, che comportava la limitazione alla libertà personale
caratterizzata dall’obbligo di risiedere in località lontana dalla propria
residenza, non era indirizzato a colpire il comportamento concreto
dell’accusato ma la sua potenziale pericolosità.
In Abruzzo, a Lama dei Peligni in provincia di Chieti il fascismo ha
lasciato una traccia di questi istituti, avvalendosi di un piccolo territorio,
pressochè isolato dai grandi centri e pertanto adatto a isolare e disgregare
chiunque avesse voluto dissentire da un regime totalitario che come tale,
non concepisce libertà di azione e di pensiero.
6
Le attrattive negative dei luoghi di confino riposavano infatti sulla scarsità
di contatti esterni, nulla o minima dinamicità economica, rapporti sociali
consolidati e quindi poco inclini a subire condizionamenti.
In queste condizioni risultava accresciuto l’effetto punitivo del soggiorno e
assicurata la neutralizzazione non solo delle pratiche ma anche delle idee
ostili al regime.
Del campo di Lama dei Peligni, si ha notizia documentata presso
l’Archivio centrale dello Stato, a partire dal giugno 1940, quale
internamento nell’organizzazione della nazione alla partecipazione della
guerra.
Sfugge però a qualsiasi altra fonte documentaria, che non sia quella
dell’Archivio comunale, l’esistenza di un confino di polizia già dagli anni
’30 e precisamente dal 1936 al 1937.
Non è stato facile accedere alla documentazione archivistica sia perché
Lama dei Peligni è stata dalla guerra duramente colpita, vittima di quella
strategia di “terra bruciata” adottata dai tedeschi con tanta ferocia che ha
determinato una oggettiva causa di impedimento al rinvenimento di
documentazione, sia per quel volontario occultamento di fonti che ha
investito tutta la memoria storica dalla fine del conflitto affinchè non
restasse traccia dell’organizzazione del regime fascista.
Se ho potuto ricostruire una realtà non diversamente ripercorribile perché
ignota sia agli Archivi centrali che periferici dello Stato, lo dobbiamo
esclusivamente alla sensibilità e lungimiranza di un impiegato comunale,
che riuscì ad occultare il carteggio relativo al confino di Lama dei Peligni,
inserendolo nel fascicolo “ Sicurezza Pubblica”, Categoria 15 , contenente
documentazione archiviata come “ Manicomio”.
1
Qui sono racchiusi rapporti di polizia e carte di residenza, ma anche lettere
personali e carteggi tra le istituzioni ( Comune, Prefetture e Questura).
1
In appendice documentaria il frontespizio del fascicolo, pag 119.
7
Questi documenti raccontano in maniera diretta il mosaico
dell’opposizione fascista al di fuori di ogni considerazione personale o
soggettiva anche se il contatto così diretto con la storia sembra far rivivere
quasi in prima persona le vicende tratte dai fascicoli esaminati, il cui
contenuto - intriso di gelide formule stereotipate - contrasta con il pathos
delle lettere scritte dai confinati ai propri familiari o da queste alle autorità
politiche per invocare la grazia.
L’obiettivo di questa ricerca, basata su fonti bibliografiche,
documentazione on line reperita nel periodo ottobre 2007/ aprile 2008,
fonti archivistiche, centrali e periferiche e testimonianze orali in grado di
ricostruire l’ambiente e la vita di quegli anni e le reazioni dei lamesi nei
confronti dei confinati, è indirizzato verso un tentativo di integrazione dei
dati fin ora noti per far luce sulla presenza di fonti spesso difformi e
sovrapposte.
Ad esempio, a livello centrale, si trovano elenchi diversi nei fondi del
Casellario politico centrale o in quello specifico dei confinati politici,
conservati entrambi presso l’Archivio centrale dello Stato.
L’auspicio è invece quello di far “assaporare” le testimonianze del
coraggio con cui tanti uomini hanno affrontato le sofferenze del confino in
nome delle loro idee e dei sentimenti di libertà e giustizia, soprattutto ai
giovani, per poter “riannodare i fili delle generazioni”.
RINGRAZIAMENTI
Le pagine di questa ricerca riferiscono pensieri ed azioni di persone che
con il loro vivere quotidiano hanno fatto delle loro storie la storia del
nostro Paese.
La sofferenza dei confinati, la ricerca degli storici nei testi utilizzati, i
luoghi depositari di memorie, i racconti delle testimonianze ricevute, il
sostegno delle persone animate dal piacere di saperne di più, hanno
contribuito a spingermi verso un cammino di studio e di ricerca.
E’ a loro che va tutta la mia gratitudine e riconoscenza nella convinzione di
poter trovare nella quotidianità quegli “ eroi” che spesso rimangono
anonimi e che invece meritano di essere riconosciuti “ protagonisti” della
storia.
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CAPITOLO I
I PRECEDENTI STORICI DELLA REPRESSIONE DEL
DISSENSO POLITICO
I.1 L’alterità in prospettiva storica
L’alterità è una nozione sempre presente nella storia del pensiero e delle
istituzioni politiche, che si trasforma nel tempo a cominciare dalla Grecia
classica e da Roma, attraverso il Cristianesimo fino ad arrivare alla
modernità e alla tarda modernità.
2
Il mondo greco è un mondo fortemente identitario: è un mondo di
esclusione dell’altro, un’esclusione potentissima verso i barbari ma anche
un’esclusione di ogni città rispetto all’altra.
La macro contrapposizione rispetto ai barbari, tematizzata fin da Erodoto, è
l’origine della nozione di “Occidente”; è una contrapposizione fra entità
qualitativamente diverse, che reciprocamente al tal punto “altre” che i
conflitti insorgono solo quando “uno” invade “l’altro”.
Altrimenti vi è la pace della riconosciuta differenza.
In quest’ottica, Aristotele teorizza che il dispotismo non è un male di per
sé, ma è un male per i Greci.
Ai barbari, invece, va benissimo, è adatta a loro: è semplicemente la
differenza qualitativa che fa ordine.
Roma è, invece, un modello completamente diverso : è un modello di
mescidanza. Il lettisternio è un rito di contaminazione che include e non
esclude l’altro.
La percezione del problema dell’alterità nel mondo cristiano è molto
diversa, perché qui l’alterità a stretto giro non c’è.
2
www.Griseldaonline.it Galli Carlo, l’altro in prospettiva politica
10
Per tutti- l’Arabo, il Parto, il Siro – c’è la Pentecoste, per tutti lo spirito
parla la lingua di ciascuno: la comunicazione universale della Verità
rivelata dequalifica l’identità fino all’irrilevanza.
Ciò che conta è anzi la fratellanza, poiché tutti i cristiani hanno un unico
Padre.
Nel lungo periodo di tempo che denominiamo Medioevo, tale fratellanza è
fondamento di un’identità abbastanza stabile, quella della res publica
cristiana.
La cristianità non è un'identità politica, ma solo culturale, dato che conosce
conflitti di ogni tipo.
Sono celebri alcuni Concili Ecumenici in cui si afferma che ci sono armi
che non possono essere usate contro i cristiani ma solo contro gli infedeli,
ma a un certo punto- nel XVI sec- il concetto di fratellanza non tiene più.
Al suo interno nascono le guerre civili di religione e il cristianesimo non è
più capace di costituire un’identità.
Un’altra percezione di alterità nuova si ha con la scoperta del Nuovo
Mondo, dove vivono esseri umani come noi, ma che però non hanno la
nostra storia, non hanno il mondo greco-romano ed ebraico alle spalle.
Due sono le vie attraverso le quali è stata metabolizzata quest’ alterità.
La prima è quella della via della gerarchia, come a dire “gli indigeni” sono
esseri umani sono destinatari, come noi dell’Evangelio, ma sono i nostri
fratelli minori, vanno educati e protetti come minorenni.
La seconda è quella del relativismo: ad esempio Montaigne afferma che gli
indigeni hanno i cannibali e “noi europei” non li abbiamo: in compenso
abbiamo altri terribili vizi che loro non hanno.
L’alterità diviene o differenza attenuata (resa comprensibile perché
gerarchizzata) o una indifferente equivalenza.
Il passo decisivo per comprendere quest’alterità moderna che è una “non-
alterità” lo compie Hobbes.
11
Nel Leviatano, che è uno degli incunaboli dell’età moderna, si trova la
descrizione dello stato di natura, che è uno stato di “non alterità”.
Il conflitto di tutti contro tutti nasce dal fatto che non c’è l’altro, ma vi
sono innumerevoli funzioni identiche in conflitto tra di loro, che in una
situazione di scarsità delle risorse perseguono il proprio utile (senza
raggiungerlo).
Quest’uguaglianza per Hobbes non è portatrice di pace bensì di catastrofe e
va affrontata all’interno di coordinate razionalistiche e statalistiche.
E’ nello spazio politico creato dallo Stato che avviene la costruzione
razionale e artificiale dell’identità del soggetto, le cui dinamiche di
identificazione collettiva si rivolgono verso un’identità a sua volta
artificiale, lo Stato.
Le opzioni (ideologie, religioni, professioni) non sono alterità, se restano
all’interno dell’universo giuridico unitario dell’uguaglianza garantita dallo
Stato.
L’alterità resta semmai solo verso chi non è cittadino di alcuno Stato, verso
“i selvaggi” e gli indigeni extraeuropei. Tuttavia anch’essi, benché
colonizzati e sfruttati, son destinati – “è il fardello dell’uomo bianco” – ad
essere civilizzati, a divenire come noi.
L’identificazione del soggetto politico nella nazione, più che nello Stato,
porta già dagli anni ’80 e ’90 del XIX secolo verso una dinamica di
nazionalismi che, letteralmente, col 1914 divorano e distruggono gli Stati
che entrano in guerra mortale l’uno contro l’altro.
Il 1914 è la data di morte dello Stato moderno e delle sue logiche di
definizione dell’identità e dell’alterità.
Nella vicenda europea del ventesimo secolo l’altro non è più il
qualitativamente uguale ma empiricamente diverso da noi, dell’età
moderna, ma torna ad essere “il qualitativamente diverso” non in un’ottica
classica di distinta e distante separatezza (come i Greci e i barbari), ma,
come si dimostra nei totalitarismi, l’altro è un nemico interno, un non
12
omogeneo e un non assimilabile che sta fra di noi, che ci infesta e ci
minaccia, e da cui ci dobbiamo immunizzare distruggendolo.
Nasce così la pratica totalitaria del nemico oggettivo e virtuale: l’altro è
costruzione delirante, paranoide, persecutoria.
L’altro del totalitarismo è manifestazione del nichilismo della politica
moderna, esploso quando la nazione e la classe hanno distrutto lo Stato.
Il grado di libertà che può essere consentito ai singoli nel quadro
istituzionale e normativo dato, definisce l’esistenza di una dittatura o di un
sistema democratico.
3
La società moderna conosce forme sue proprie di coesione e stabilità nello
stesso modo che le società premoderne hanno conosciuto forme specifiche
di disaccordo e criticità.
Il dissenso è la pietra di paragone di una moderna democrazia,
indipendentemente dai contenuti sociali che essa assume.
Solo là dove si dà dissenso si può parlare di presenza di consenso reale
(diversamente da un consenso puramente formale).
Bisogna distinguere due tipi di consenso (e quindi di dissenso): politico e
sociale. Il primo riguarda il rapporto governanti/governati; il secondo
investe la sfera dei valori culturali che regolano una data società.
Il consenso politico trova la sua condizione necessaria ma non sufficiente
nell’accordo procedurale circa il modo di accertare la volontà del popolo,
modo che nella democrazia ha raggiunto la sua forma meno imperfetta, e
certo più adeguata a una moderna società, con le elezioni sulla base del
suffragio universale, uguale, libero e segreto.
Tuttavia difficilmente il consenso politico può limitarsi a questa sua
espressione più astratta circa “le regole del gioco”: esso può realizzarsi in
tale forma solo in minoranze consapevoli, estendendosi semmai a più vasti
3
Enciclopedia Einaudi alla voce consenso/dissenso, pag. 811-817.
13
strati quando tali “regole” siano messe in pericolo da forze radicalmente
antidemocratiche (autocratiche –totalitarie).
Anche in questo caso il consenso procedurale ha tanta maggiore capacità di
estensione quanto più “ le regole del gioco” si saldano con un sistema di
valori materiali che, in una società industriale, sono quelli di progresso,
sicurezza, sviluppo, partecipazione.
Quando questa saldatura non avviene, si ha nei più un vero e proprio
dissenso circa le procedure democratiche, un’indifferenza nei loro riguardi,
stato di dissenso passivo che può trasformarsi in dissenso attivo, o essere
usato da un dissenso attivo ad opera di minoranze che inglobino un loro
dissenso politico attivo in un più vasto dissenso socioculturale.
Se si considerano i valori cardinale del mondo borghese così come si sono
generati dall’etica giudaico-cristiana e dalla cultura greco-romana
(autonomia della ragione, diritti dell’individuo, dignità del lavoro, libertà
di iniziativa, legalità d’ordinamento, ricompensa del merito ecc..) si può
dire che quando il dissenso (socioculturale) li investe radicalmente, col
loro svuotamento sostanziale o con l’opposizione di precisi controvalori
(giustizia, uguaglianza, ad esempio) si costituisce una situazione di crisi
che può restare circoscritta a minoranze intellettuali, ma che virtualmente è
atta a estendersi ad un vasto dissenso politico attivo o passivo e volgere
verso una condizione rivoluzionaria.
La “bontà” di un ordinamento sociopolitico è dimostrata anche dalla
quantità e qualità di dissenso che essa è in grado di sopportare, ovvero
dall’equilibrio tra l’uso della coercizione e la crescita dell’adesione e
quindi dall’elasticità dei suoi tessuti connettivi.
Nei regimi totalitari, in grado di penetrare in ogni aspetto della vita politica
e civile dei cittadini, l’avversario politico non è riconosciuto come tale,
poiché il regime non prevede avversari.
L’altro è necessariamente nemico.
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Per realizzare un progetto totalitario non basta la forza più brutale, ma
occorrono altresì la mobilitazione ed il consenso di larghi strati della
popolazione.
Il problema del rapporto tra la forza del regime e il consenso si riscontra in
tutti i totalitarismi che hanno attuato una persecuzione violenta e
sanguinaria nei confronti di chi poteva ostacolare il raggiungimento degli
obiettivi.
Nonostante le differenze che si possono e si devono mettere in luce rispetto
ai fenomeni che nel Novecento vanno sotto il nome di Totalitarismo, è
possibile tuttavia riconoscere dei tratti comuni che vedono proprio nella
repressione e nel terrore l’aspetto più raccapricciante e caratterizzante
questi stessi fenomeni.
I campi di concentramento nazisti, i gulag per i dissidenti sovietici, i laogai
cinesi, nonostante le differenze sotto l’aspetto ideologico, sociologico ed
economico hanno in comune l’affinità nella gestione del potere, attraverso
lo stermino dell’oppositore e la credenza in uno stadio “finale” della storia,
sia esso la società senza classi o il dominio di una razza.
La pretesa dello Stato di dettare una sola verità, una sola giustizia – che
sono conseguenza di un solo partito, una sola cultura – ha come devastante
conseguenza la “cultura del sospetto” : potenzialmente dietro ad ognuno
può nascondersi la spia e pertanto ogni aspetto della vita di relazione deve
essere orientato.
4
Nel regime totalitario nessuno si sente al riparo da azioni persecutorie
come se il complotto fosse sempre all’ordine del giorno.
Nemico reale è l’oppositore dichiarato; nemico potenziale è chi, pur non
manifestando atteggiamenti ostili per la sua appartenenza a un gruppo
determinato è sempre possibile che diventi un oppositore reale.
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www. Storia900bivic.it i totalitarismi del Novecento.
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In alcuni momenti il regime totalitario ha bisogno di mantenere il terrore
colpendo del tutto a casaccio e creando universi concentrazionari.
Questi non sono istituzioni penali, creati per la punizione e repressione di
delitti comuni, ma piuttosto strutture politiche di sradicamento del tessuto
sociale mediante lo strappo e la cancellazione dalla società di interi settori
e gruppi.
5
5
www.studenti.it Il terrore e la repressione politica nei sistemi totalitari del ‘900.